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Nelle viscere di un libro - Torta di nocciole e mandorle

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È accaduto di nuovo.
Stavolta (a differenza di quella volta lì) però ero pure salita sul treno giusto.
Non mi ero messa ad aspettarlo sul binario sbagliato.
Non mi ero persa nell’intrigo avviluppante (e sempre un po’ contorto) dei miei pensieri (e dei sogni, dei progetti, della lista della spesa, di cosa preparare per cena, di cosa fare appena messo piede dentro casa: se ritirare i panni dallo stendino, avviare una nuova lavatrice, scongelare la carne per domani sera o tutte e tre queste cose insieme…)
Non ero incastrata fra le pagine di qualche libro fino a scordarmi di ciò che accadeva intorno a me ( che sì vabbè, non costituirebbe di per sé una novità e va bene pure che come lettura pre e post natalizia mi sono scelta una cosina da niente come quel polpettone di Anna Karenina e avrei avuto ben donde quindi di astrarmi, almeno un po’, dalla mera realtà).
No: era filato tutto liscio, almeno fino al momento di salire sul treno.
Binario giusto, treno in orario, perfino un posto a sedere!
Poi, all’improvviso: il buio.
Stacco la spina, sconnetto il cervello, ci ricasco.
Non mi incastro fra le pagine di un libro, ne vengo proprio risucchiata.
 Mi calo talmente tanto nei panni di quel belloccio dall’animo un po’ tronista del conte Vronskij, che perdo la cognizione di tutto: tempo, luogo, chi sono-dove sono-perché sono.
Attacco mentalmente tutta una disquisizione con me medesima su pregi e difetti dei protagonisti maschili, dalla quale il signorotto esce, almeno al momento, perdente al confronto col ruspante e ben  più affascinante contadinozzo Levin.
Che, se io fossi Anna non avrei dubbi, diamine.
Ma poi pure sta Kitty, così sbarbatella e ingenuotta dall’alto dei suoi 18 anni, sta madre contessa così invadente, che una suocera così proprio…
Insomma, la disamina puntuale e accurata dell’indole dei protagonisti deve durare una buona mezz’ora ma forse anche di più.
E comunque fino a quando ne riemergo fiera riprendendo lentamente – e ancora ingenuamente- contatto con la realtà.
Che è quella di un convoglio stranamente vuoto.
Insolitamente silenzioso.
Vagamente inquietante pure.
Spio fuori dal finestrino, ma è tutto buio e non vedo niente.
Guardo l’orologio e mi rendo conto che sarei dovuta arrivare a destinazione da almeno un quarto d’ora.
Perché sono quasi le nove di sera e io ancora giro per stazioni!
pensa, sto treno è partito in orario e ha accumulato ritardo strada facendo!” mi dico baldanzosa e non troppo convinta.
Così, tanto per darmi ancora un tono.
Il pensiero che il treno continui a viaggiare perfettamente in orario e che ad accumulare un ritardo (mentale) sia la sottoscritta, sul momento non mi sfiora nemmeno di striscio.
Guardo due persone in attesa davanti alla porta e mi viene così, giusto un piccolo impulso a chiedere, mestamente, dove siamo.
Sospetti zero.
Supposizioni nessuna.
Insulti a me stessa ancora (per un po’) di là da venire.
Ho la fortuna di beccare pure una ragazza straniera, tanto per cominciare a sentirmi lievemente ridicola.
Santa marinella – mi risponde lei sollecita.
Trattengo il respiro, lo dico quasi in apnea, strozzando l’urlo che vorrebbe uscirmi così, istintivo, di getto:
“C@*&XXXXooooooooo, ho saltato la mia fermata!!!!!!!!!”
E devo avere un’aria proprio preoccupante: arruffata, imbufalita, sull’orlo delle lacrime, in preda all’ira più funesta per spingere la tipa a trasformarsi, prontamente, in crocerossina.
Vieni, ti faccio vedere dove e a che ora passa il treno per tornare indietro”, mi dice – mentre scendiamo- in uno stentato ma comprensibilissimo italiano, illustrandolo lei a me, italianissima pendolare da una vita che fa quella tratta ogni santo giorno (e si sbaglia di frequente).
“Non preoccuparti tu, ciccia: ci sono abituata, è che istintivamente, di primo acchito mi prenderei a parolacce- e stavo per farlo-, ma  mi trattengo giusto perchè ci sei tu” – sarei tentata di dirle.
Ma pare brutto, di fronte a tanta gentilezza e delicata premura, allora la lascio fare.
Lascio pure che mi mostri il binario che, mio malgrado, conosco perfettamente per tutte le volte che ci sono finita, come stasera, per sbaglio ad attendere quel famoso treno che mi riporti indietro.
E arriva la parte penosa di tutta la questione: chiamare casa, avvertire l’amato bene, imbastire tutta una storia per non passare per la solita distrattona.
Ma non devo fare nemmeno questa fatica, che lui mi precede, rispondendo rassegnato:
“’ndo stai stavolta? Se sei arrivata a Grosseto te conviene fermatte lì’ e riparti domattina!”
Uomo di pochissima fede: quale Grosseto?
Mica ho sconfinato: mi trovo ancora nel Lazio.
Aspetto, rassegnata, 40 minuti il treno per tornare indietro.
Avendo agio, a questo punto, di finire il capitolo e iniziarne pure uno nuovo…


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Che potesse esistere una torta così, io non l’avrei mai creduto. Quando ho letto la ricetta (sul calendario del 2013, ritagliata prima di buttarlo via) infatti ho pensato ci fosse qualche errore, una piccola dimenticanza, un paio di ingredienti, almeno, al di sotto della norma.
Che va bene senza burro.
Va bene pure senza olio.
Al limite penserei pure che vada bene senza lievito.
Ma senza farina, signori miei…
Eppure è così: senza tutte queste cose, che a conti fatti è una torta fatta di soli 4 ingredienti.
E menomale che mi sono decisa a farla, pur tra tutto lo scetticismo di questo mondo.
Buona per smaltire tutte le secchiate di frutta secca avanzate dalle feste.
Ottima per riportare alla mente i sapori di certi torroni.
Unica seccatura: sbucciare mandorle e nocciole, ma se le prendete già senza buccia i giochi sono fatti.
Le nocciole io le ho prese direttamente tostate (e spellarle è stato un attimo); le mandorle pure, ma per sbaglio mi sono capitate quelle con la pelle: ma basta tuffarle per un paio di minuti in un pentolino di acqua bollente e la pelle verrà via in un attimo.
Dopodichè si frulla, si gira, si montano le uova…e via, la torta, miracolosamente, cresce pure!!!
Ho osato soltanto aggiungere, di mio, la scorza grattugiata di un’arancia e ci sta d’ incanto…


Ingredienti (per uno stampo di 24 cmdi diametro)
130 gr di nocciole (peso da sbucciate) tostate e spellate
130 gr di mandorle spellate
200 gr di zucchero
4 tuorli
6 albumi
1 pizzico di sale
Scorza grattugiata di 1 arancia (facoltativo)

Procedimento
Tritare mandorle e nocciole: la ricetta diceva finemente ma io mi sono accontentata di farlo grossolanamente e il croccante in bocca non dispiaceva affatto.
Sbattere i tuorli con lo zucchero, quindi aggiungere mandorle e nocciole mescolando bene. Unire anche la scorza dell’arancia: ne risulterà un impasto piuttosto denso e compatto. Montare a neve ben ferma gli albumi con un pizzico di sale, e incorporarli delicatamente al composto mescolando dal basso verso l’alto.
Versare tutto il una teglia oliata e infarinata e cuocere a 170° (o comunque a calore moderato)per circa 30 minuti (nel mio forno ne sono bastati 25).

Si può servire spolverizzata di zucchero a velo o, come nel mio caso, accompagnata da una salsa al cioccolato, o semplicemente così com’è.


Acqua, spirito e pezze di lana - Torta Gianduiotta di albumi

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Ho conosciuto due sole persone nella mia vita capaci di intessere una lunga e animata conversazione su teorie e tecniche del….lavare i pavimenti:
mia suocera e la cugina adorata dell’amato bene.
Dal tipo di straccio più adatto alla quantità di acqua da mettere nel secchio
Dal detergente più efficace allo spazzolone più comodo (perché sì: mica ne esiste solo un tipo!)
Dalla proporzione esatta di acqua e detersivo fino alle condizioni atmosferiche migliori per lanciarsi in un simile azzardo chimico/ambientale.
E non è che la divinacugina sia coetanea della suocera (della quale è nipote acquisita).
Che, al limite proprio, passi pure per quest’ultima, ma la prima ha appena varcato la soglia dei 30 anni, può contare su un lavoro appagante, dispone di un marito simpatico e pure belloccio, ha insomma, una vita, almeno apparentemente, abbastanza piena e stimolante.
Del perché dunque debba perdersi nei rivoli di tali solenni disquisizioni non mi è dato perfettamente di capire.
Ma la questione è seria e di quelle capaci di ingenerare frustrazione in chi ascolta.
Tanto che al  loro cospetto me ne sto zitta e muta in un angoletto, lievemente a disagio ma anche affascinata da tanto zelo, rapita da tanta sapienza.
Cercando di carpire segreti, rubare trucchetti, arraffare tecniche invincibili.
Sarà che lavare i pavimenti per me è solo un obbligo da assolvere almeno una volta ogni tanto.
E senza nemmeno troppa attenzione, tutta rivolta quest’ultima, alla musica che scorre dal pc o alla voce che mi arriva dall’auricolare della telefonata in corso.
Riempio il secchio, ci butto dentro un tappo di detersivo (qualsiasi, arraffato a caso dallo scaffale delle offerte), infilo i guanti di gomma, intrido lo straccio e via: mi immolo alla causa e assolvo, sbuffando, al mio dovere.
Invece no, signori! Lavare i pavimenti è arte antica che richiede perizia e tecnica.
Amore e cura.
Dedizione e perfino un briciolo di passione.
Oltre che miracolose soluzioni.
È brutto tempo? Pazienza, (evvai)i pavimenti li laverò un’altra volta!!– ragiono io, fregandomi le mani tutta contenta.
Mancopegnente– rispondono in coro le due illuminate adepte della setta dei Pavimenti Lucidi Riuniti, corrucciando lo sguardo.
Perché è proprio in caso di maltempo che viene fuori il meglio di una casalinga perfetta: mostrando scaltrezza, sprezzo del pericolo e padroneggiamento della tecnica.
Ma è solo continuando ad ascoltare in religioso silenzio che vengo generosamente messa a parte del trucco cui ricorrere in quei casi.
La pozione magica, la miscela segreta, l’intruglio stregonesco:
 "Acqua e Spirito".
Alcol puro denaturato: tutto lì.
Anche più spirito che acqua, in modo che i pavimenti si asciughino in fretta, che non sia necessario prendersi una polmonite per tenere una mezza giornata tutte le finestre aperte in modo da far fare corrente.
E soprattutto, in modo che si sia padroni di non rimandare un’emergenza di tale portata solo perché diluvia!
Ma la questione pavimenti non si esaurisce qua.
È il ribaltamento del concetto di aspirapolvere a darmi la misura della mia assoluta ignoranza in materia, della mia piccolezza.
E se state pensando a quell’aggeggio ingombrante dotato di un paio di rotelle perlopiù incastrate e perennemente malfunzionanti, che siete costrette a trascinarvi in giro per casa smussando spigoli, scheggiando armadi, rimuovendo porzioni intere di intonaco dai muri, siete completamente fuori strada, signore mie.
Perché poi, attenzione: se manca la corrente come la passate l’aspirapolvere?
Rimandiamo– mi suggerirebbe sempre il cuore in preda all’euforia.
Maddeche?– dovrebbe invece rispondermi la casalinga perfetta che alberga (deve albergare!) in fondo all’anima di ognuna di noi.
Che non si fa cogliere impreparata.
Che sfida maltempo e imprevisti di ogni sorta.
Che aggira ostacoli e affronta a brutto muso ogni sorta di avversità.
Tutto, pur di portare a termine il proprio dovere.
Come?
Semplice: attraverso una miracolosa, ecologica, praticissima…..pezza di lana!
Elettrostatica, in grado di trascinarsi dietro, con dispendio minimo di energia, ogni più piccola porzione di pulviscolo doveste trovare sul vostro cammino.
In grado di raggiungere gli anfratti più nascosti, gli angoli più scomodi, i luoghi più remoti.
Pure tutto lo zoccoletto, lungo tutto il perimetro di casa (…sì, ogni tanto va pulito pure quello)
Senza bisogno di corrente elettrica, in completa autonomia.
oggi non ho passato nemmeno la pezza di lana!
Si dispera a un certo punto la più giovane delle due.
Facendo intendere che la suddetta è pratica comune e addirittura QUOTIDIANA.
Ed è lì che raggiungo  la piena consapevolezza della mia sciatteria.
Io, che fino a quel momento una pezza di lana pensavo fosse solo un capo d’abbigliamento intimo di altri tempi.
Io, che i pavimenti li lavo una volta la mese (se va bene) e nella più completa inconsapevolezza.
Io, che d’ora in poi ho deciso: costringerò l’amato bene, convinto osteggiatore di canottiere e magliette intime di qualsiasi tipo, a indossare la canottiera, ovviamente di lana, per poterla anche io poi, una volta scartata per usura, passare sul pavimento….perchè le faccende domestiche, nelle famiglie moderne, vanno equamente divise a metà! ….e che solo io il lavoro sporco?!


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In un periodo in cui si pensa giustamente a disintossicarsi dalle grandi abbuffate natalizie, io continuo, imperterrita, a sfornare dolci e per la precisione torte: rustiche, veloci, sufficientemente appaganti per le frustrazioni della vita.
Questo ovviamente in attesa di iniziare a friggere frappe e castagnole.
La presente l’ho vista fare (da Anna Moroni) durante una puntata de La prova del cuoco e ho comprato appositamente i gianduiotti per poterla rifare subito. Anche gli albumi li ho ricavati appositamente, non mi erano avanzati da preparazioni precedenti….era proprio una questione urgente e prioritaria!
Rapidissima, “indolore”, una sola ciotola e zero fatica.
Perfetta per la colazione del fine settimana o per la merenda (magari dopo aver passato lo straccio…).
E stavolta non ho cambiato la ricetta nemmeno di una virgola, non ci ho aggiunto nemmeno un aroma in più…miracolo!

Ingredienti (per uno stampo di 24 cmdi diametro)
250 gdi farina 00
250 gdi albumi
 200 g di zucchero
 100 g di cioccolatini alla gianduia tritati
 1 cucchiaio di cioccolato amaro
 75 g di olio di semi
 50 g di acqua
 1/2 bustina di lievito per dolci
1 pizzico di sale


Procedimento

 Tritare grossolanamente i gianduiotti. Montare gli albumi a neve ferma con l’aggiunta di un pizzico di sale. 

Incorporare lentamente, con movimenti dal basso verso l'alto, lo zucchero, la farina, il lievito e il cacao setacciati insieme; quindi unire anche l’ acqua e l’ olio, sempre continuando a mescolare con delicatezza. Unire la metà dei gianduiotti tritati e versare il tutto in una teglia oliata e infarinata. 

Coprire con l'altra metà dei gianduiotti e infornare a 160° per 30-35 minuti.

Le disavventure dei miei viaggi

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Pensavo di averne giusto un paio da raccontare e, rigorosamente, in ordine cronologico inverso dalla più recente, accaduta giusto giusto a capodanno.
Poi però come al solito ho chiesto aiuto alla memoria elefantiaca dell’amato bene che me ne ha snocciolate una decina almeno, da quelle veniali alle cose che di comune accordo avevamo deciso di non rivelare mai a nessuno, nemmeno sotto tortura, rimuovendole e archiviandole come segreti di famiglia…
Ma il limite (fortunatamente) posto da Monicaè sempre di 3, dunque la scelta è caduta sulle seguenti con buona pace della reputazione…




Capodanno 2014, ultima tappa della nostra mini vacanza a zonzo per Umbria e Marche, sera inoltrata, albergo molto carino.
Mi infilo in bagno ma mi accorgo che la porta non funziona: non si chiude. La maniglia, almeno dall’interno, gira a vuoto. Chiamo in soccorso l’amato bene che, come al solito pensa sia una delle solite incapacità della sottoscritta e, da consumato risolutore di ogni sorta di problema quale si ritiene, arriva bofonchiando un infastidito “Come non si chiude?”.
 Mi scansa con un fierissimo “lascia fare a me” e, non prima di essere entrato furbescamente nel bagno pure lui, con un colpo secco (per la precisione una spallata) chiude, ermeticamente e definitivamente, la famigerata porta.
Lo guardo incredula: “Grazie!Così ero capace pure io!” iniziando a interrogarmi, subito dopo, sul modo di riaprirla.
si è incastrata?” azzarda lui.
Ma va?!” lo fulmino io.
E noi (tutti e due) prigionieri nel bagno dell’ albergo.
 I cellulari di là, una finestrella inutilizzabile perché semimurata e inaccessibile, la porta sigillata senza speranza.
Superato il lieve disappunto iniziale cominciano le trattative
-Smontiamo lo stipite (ma per le porte degli alberghi si rivela inutile)
-Spacchiamo la finestra e gridiamo aiuto (io ste figure non le faccio)
-Cominciamo a battere forsennatamente sulla porta sempre gridando: prima o poi qualcuno ci sentirà (nemmeno queste di figure sono disposto a fare..)
-Dormiamo sul pavimento e domani ci troveranno le donne delle pulizie (sì, magari a mezzogiorno, magari ci sorprende il terremoto e finiamo pure sui giornali)
Poi ci viene in mente il campanello di allarme nella doccia: la nostra ultima speranza. Lo tiriamo senza sosta convinti che non funzioni perché il fetente non emette il minimo sibilo, ma evidentemente l’allarme è collegato direttamente con la portineria perché poco dopo sentiamo squillare il telefono della camera.
Peccato che non possiamo rispondere….
Proseguiamo così per qualche minuto: noi a tirare il campanello, la portineria a telefonarci.
Finchè l’addetto non realizza che “forse” in quella camera all’ultimo piano c’è bisogno di un intervento diretto....
Mentre seduti su water e bidet preghiamo a mani giunte che il tizio si decida a venire a verificare di persona, il mio eroe si lancia in una considerazione di tutto rispetto: “e mo come glielo spieghiamo a questo che siamo rimasti ENTRAMBI chiusi nel bagno? No perché in effetti a raccontarlo è un po’ strano…
Ma eludo la domanda per non infierire.
Dopo una manciata di secondi sentiamo bussare alla porta.
E a quel punto la confessione è d'obbligo e dobbiamo pure urlarla, per superare le due barriere: “Ci sente? No…è che…siamo rimasti chiusi nel bagno…tutti e due…la porta non funziona
E per nostra fortuna scopriamo subito che abbiamo beccato il più sveglio dei portieri d’albergo il quale, in un batter d’occhio, ci fornisce la soluzione illuminante, suggerendo tutto fiero:
Deve girare la maniglia!!!!
L’amato bene comincia, lievemente, ad alterarsi: "NON FUNZIONA, NON FUN-ZIO-NA!"
Il tizio finalmente capisce (più o meno: gli rimarrà sempre il dubbio di come si sia finiti tutti e due lì dentro), corre giù a prendere il passpartout e risale a liberarci, trovandosi davanti lo spettacolo di due articoli che, viola dalla vergogna, occhi bassi, risolini trattenuti, lo ringraziano sentitamente...
Commento dell’amato bene: “beh, se non altro non può aver pensato che fossimo impegnati in chissà quale strano gioco, considerato l’abbigliamento ad alto tasso erotico"
Io: pigiama della carica dei 101, calzettone antistupro a pois, ciabatta di spugna
Lui: un decorosissimo jeans sdrucito e un pacioso, tricottato maglione da boscaiolo
No, decisamente una conclusione del genere, perlomeno non può averla tratta.

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Viaggio in Sudafrica, 4000 km totali percorsi a bordo di un’auto a noleggio, senza cambio automatico e con il non trascurabile dettaglio della guida a sinistra, senza mai farle nemmeno un graffio, senza incorrere in incidenti o tamponamenti di alcun genere, nemmeno sui tratti sterrati del Kruger, nemmeno sul trafficatissimo “raccordo anulare” intorno a Johannesburg, Pretoria e Durban.
Tutto liscio, tutto perfetto, anche perché non ce lo eravamo detto, ma una sottile paura inconfessabile albergava nei nostri cuori: sì che la ditta di autonoleggio ci aveva fornito una lista di numeri di telefono da chiamare in caso di necessità, con la raccomandazione di non fare niente, non spostare la macchina in caso di sinistro, non prendere iniziative, ma lasciar fare all’addetto che sarebbe arrivato in un attimo ovunque ci fossimo trovati (pena l’annullamento di tutte le coperture assicurative), ma come avremmo spiegato, per telefono, all’addetto di turno, nel nostro inglese stentatissimo, le eventuali necessità?!
Perché un conto è di persona, che un po’ a parole un po’ a gesti, alla fine ci si capisce, tutt’altra storia imbastire un discorso abbastanza fluente per telefono.
Fortunatamente non è mai stato necessario ed è con questa fierezza nell’animo e un piccolo sospiro di sollievo che varchiamo, tutti orgogliosi, la soglia dell’immenso parcheggio per la riconsegna della macchina nei sotterranei dell’aeroporto.
Attendiamo con fiducia il nostro turno, in coda ad altre 5-6 macchine, ridendo e scherzando.
Finalmente tocca a noi e tre tizi in giubbotto catarifrangente cominciano ad agitarsi e a gesticolare indicandoci altrettanti parcheggi
“di qua o di là?”
Nella confusione, l’amato bene prende l’iniziativa e decide di seguire quella che gli pare l’indicazione più gettonata da 2 su 3 degli addetti.
 Sterza, pigia lievemente sull’acceleratore e…va dritto verso una enorme colonna di cemento, impossibile da ignorare.
La prende in pieno.
 Abbozzando paraurti e parafango, tutto in un attimo.
Ci guardiamo allibiti. I tizi davanti alla macchina muti pure loro (e menomale che ha preso la colonna e non l’addetto più vicino!)
Un guizzare di sguardi increduli prende a scorrere tra noi e loro.
Ma la parte più frustrante e degna della commedia più surreale è la compilazione del modulo per l’assicurazione, con l’indicazione delle modalità dell’incidente:
dove è avvenuto
a che velocità andavamo
i danni riportati
ma soprattutto….i chilometri percorsi in precedenza!!!!!

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2 gennaio 2010, ore 2.30 del mattino, volo per Washington prenotato 8 mesi prima e svariate altri voli interni e biglietti ferroviari già acquistati per un viaggio itinerante che prevede spostamenti continui e coincidenze al millesimo di secondo, con ritorno finale da Chicago.
 In partenza da casa per l’aeroporto di Fiumicino: mio fratello il fortunato prescelto per accompagnarci.
Non ti preoccupare, passiamo a prenderti noi con la nostra macchina così poi tu, tornando indietro la porti davanti casa di mamma e papà e nei 20 giorni in cui manchiamo gli potete dare un’occhiata ogni tanto”.
Tutto organizzato, tutto pronto.
Carichiamo i trolley, gli zaini, controlliamo per l’ennesima volta visti e passaporti, allacciamo le cinture e…la macchina non parte. 
Morta, stecchita, non dà segni di vita.
Panico immediatamente ricacciato indietro da due (ancora) lucide considerazioni:
A.     siamo ancora in perfetto orario
B.     possiamo chiamare Dario dicendo di venirci a prendere lui con la macchina di mamma e papà
Passano i minuti, cominciamo a superare la linea rossa del ritardo, goccioline di sudore imperlano le nostre fronti nonostante il freddo, ma Dario non si vede.
L’amato bene lo richiama: “’mbè?
Eh niente, non parte nemmeno questa, è andata giù la batteria, vengo a prendervi con la mia e incrociamo forte le dita!
Ed è così che, in una freddissima notte d’inverno,  due massicce sagome maschili sui sedili anteriori, una mingherlina femminile su quello posteriore, schiacciata sul finestrino per lasciar posto ai due trolley, gli zaini sulle gambe, i giubbotti contro il lunotto posteriore, sfrecciano (si fa per dire) sull’autostrada a bordo di una rombante Uno Fire con portabagagli inutilizzabile causa impianto a gas.
Piccola, scassata e arrugginita sì, ma intanto l’unica che sia partita al primo colpo…altro che suv e monovolumi con centraline elettroniche!



..Con queste drammatiche confessioni partecipo alla rubrica mensile Il senso dei miei viaggidel blog Viaggi e Baci.

Cronache (pietosissime) da molto molto lontano – Sformato di patate

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Uniti nella buona e nella cattiva sorte.
Insieme in salute e in malattia.
Anime gemelle nei sintomi e nel loro (impervio) decorso.
Romanticamente assisi sul divano di casa a passarci la mascherina dell’aerosol.
O nel letto coniugale a scambiarci tenerezze il termometro e dare i numeri (rigorosamente dal 38 in su).
Rischio di azzannarsi sempre dietro l’angolo.
Che già è complicato gestire un marito ammalato.
Inenarrabili le fatiche di tenerne a bada uno in preda a insofferenza da reclusione forzata nel caso in cui si stia male già per conto proprio.
Ma ho iniziato io per la verità: un raffreddore dei più potenti, poi la febbre, poi una specie di sinusite (variamente sparsa) delle più aggressive.
Per spirito di emulazione ha proseguito lui, evidentemente con un altro ceppo virale, considerato che proprio quando stavo per rimettermi in sesto e assaporavo già il momento di rimettere piede fuori casa, riprendendo bellamente tutte le mie attività, comprese quelle palestricole, mi sono ritrovata (ancora) con 38 di febbre e le orecchie completamente ovattate, in un mondo tutto mio, fatto di silenzi e rumori che sembrano giungere, estremamente attutiti, da molto molto lontano.
La cosa di per sé non sarebbe nemmeno tanto negativa, in taluni casi. Se non fosse però accompagnata da:
-necessità di urlare per comunicare tra noi anche a distanza ravvicinata
-adattarsi a superare il muro del vicino di casa (e di quelli a seguire) col volume del televisore (che manco pora nonna)-
- ma soprattutto, un pari e ancor più frustrante, ottundimento di sapori.
In sintesi: si mangia per nutrirsi, ma senza avvertire la minima differenza tra una coscia di pollo bollita e un tortino al cioccolato con cuore fondente.
Bevo il caffè ma non ne avverto l’aroma.
Addento un pezzetto di cioccolato (che ricorre, insieme al caffé, insistentemente nei miei sogni), ma mi procura lo stesso effetto di un pezzo di plastica morbida (o di plastilina indurita, fate un po’ voi).
Situazione tristissima, specie dopo 7 giorni di vita senza suoni, odori e aromi: si cominciano ad avere le allucinazioni, a sorseggiare il caffè sforzandosi di ricordare ogni singolo motivo percui di solito se ne bevano 4 o anche 5 tazzine al giorno…desiderandone molte di più.
E adesso invece non appaia altro che come un lugubre intruglio nerastro.
Insomma: lazzaretto puro.
La casetta trasformata in ospedale da campo, tra ettolitri di soluzione fisiologica, bibitoni di sospensione per aerosol, colli di antibiotici, montagne di fazzoletti (nuovi e usati).
È stato così necessario stabilire un ferreo ordine del giorno:
Ore 9 antibiotico
Ore 12 aerosol
Ore 16 gastroprotettore
Ore 19 aerosol
Ore 21 antibiotico
Ore 22 gocce per il naso
Tutto questo moltiplicato per due con una turnazione molto rigida per la macchinetta dell’aerosol, che non ha mai funzionato a regimi così alti.
Che un po’ va bene ma mo’, entrare in funzione 4 volte al giorno tutti i giorni è decisamente troppo e ad alto rischio di esplosione.
E ce manca solo che ce pianta in asso pure lei.
Evento non del tutto improbabile, considerando poi che l’amato bene si lancia in virtuosismi tali da voler aggiungere alla medicina di base anche mezza fiala di soluzione fisiologica.
Così, tanto per non lasciare proprio nulla di intentato e perché in questo modo la terapia dura masochisticamente più a lungo e magari, per premio, fa più effetto.
Ma l’unico risultato concreto è quello di vederlo appiccicato alla macchinetta per un tempo mai inferiore ai quaranta minuti, col rischio che il motore stramazzi definitivamente, non prima di aver esternato malamente il suo disappunto vaporizzando a chiare lettere un caldo invito ad andareaffareinc..ina.

I viveri ci vengono recapitati ogni tanto, e sempre a debita distanza, mediante operazioni consistenti in: agganciare saldamente la busta alla grata di accesso, suonare lestamente il campanello avendo cura di controllare che si indossi ancora il guanto, sparire immediatamente senza lasciare altra traccia e solo dopo essersi allontanati a sufficienza inviare sms di avviso ritiro merce.
Medicinali e parafarmaci ordinati telefonicamente al medico di famiglia, previa supplica vibrante inoltrata al più coraggioso dei 4 genitori incaricato a quel punto di tutto un complesso di azioni così articolato:
  1. passare a ritirare le ricette allo studio
  2. portarle in farmacia e comprare tutto ciò che è prescritto più varie altre ordinazioni di medicamenti da banco (vuoi farti mancare, chessò, un flaconcino di Oki? L’ennesimo pacco di fisiologica per i lavaggi nasali che manco un bambino? Una fornitura completa di fermenti lattici che daje e daje sto stomaco ne sta uscendo distrutto?! Cose così, insomma, mica stranezze)
  3. consegnarcele a domicilio con tutte le precauzioni del caso
  4. incorrere nel pericolo di venire incaricato di altre mansioni tipo “Già che ci sei prendimi pure 1 etto e mezzo di prosciutto cotto, una scatola di grattini all’uovo e una confezione di fazzoletti, quelli con il balsamo lenitivo che il naso ormai è bello che scorticato!
Questa la situazione della casetta da una settimana a questa parte.
Questo il bollettino medico.
L’influenza (o chi per lei), quest’anno, ce la siamo beccata in pieno.
Tutti e due insieme.
(Per inciso: io, il giorno seguente alla messa in pratica della formidabile tecnica lavapavimenti-col-tempo-cattivo della suocera….)

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Ingredienti (per circa 4 persone)
1 kgdi patate
1 mozzarella grande
2 etti di prosciutto cotto
1 uovo intero
60-70 gr di burro

Procedimento
Lessare le patate (partendo da acqua fredda e con tutta la buccia), quindi sbucciarle e, ancora calde, passarle allo schiacciapatate ( o in mancanza va bene anche nel passapomodoro a manovella….).
Unire il burro e l’uovo e aggiustare di sale.
Imburrare leggermente una teglia e fare un primo strato di patate. Disporvi sopra il prosciutto cotto e la mozzarella tagliata a fettine, quindi ricoprire con le patate rimanenti.
Praticare lungo tutta la superficie delle righe con i rebbi della forchetta (serviranno a rendere la gratinatura ancora più croccante e gustosa), infornare per una ventina di minuti a 180°, gli ultimi 5 in funzione grill.
Lasciare riposare qualche minuto prima di servire.

Note:
Questa è la versione basic che io preferisco, ma nell’ordine è possibile:
-         insaporire le patate con una grattugiata di noce moscata e una spolverata di pepe
-         sostituire il prosciutto cotto con la mortadella
-         sostituire la mozzarella con altri formaggi tipo fontina

-         mettere tra i due strati tutto ciò che suggerisce la fantasia.

Bye Bye Shrek (e belle abitudini) - Ciambellone sofficissimo al limone con pinoli

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Ebbene sì, nonostante la persistente semisordità, il freddo caldo umidiccio, la pioggia e il vento, oggi si torna (sigh!) al lavoro e a tutte le altre più o meno divertenti attività quotidiane.
Ma sarà dura.
Durissima lasciare abitudini ormai acquisite durante le due settimane di malattia e nullafacenzaallo stato purissimo.
Un monte ore scevro di appuntamenti (a parte quelli, rigidissimi, con le medicine da prendere e con l’ormai molto provata macchinetta dell’aerosol).
Libere da treni, metropolitane, scarpinate a piedi, palestra, piscina compiti e doveri di qualsiasi genere, compreso quello di rifare il letto.
Ore fatte solo di lunghe dormite, ampie letture, parche ma soddisfacenti abbuffatine di dolci, lunghe sedute di cucina a sperimentare nuovi dolci (per l’appunto..), ampi stravaccamenti davanti al pc senza limite, alcuno, di tempo.
E poi lei, la tv, con sempre nuove sorprese, larghi orizzonti, infinite varianti.
Una volta c’era Real Time, ma considerato che ultimamente i programmi di cucina e bricolage sono stati ampiamente rimpiazzati da quelli inerenti perlopiù malattie strane, maratone dietetiche e studi sociali sulle più disparate manie ossessivo-compulsive da cui, pare, sarebbe affetta gran parte della popolazione mondiale (perlopiù femminile), la scelta è caduta inevitabilmente sulla gloriosa televisione di stato e la sua striscia pomeridiana, con la scintillante Balivo e i suoi eserciti di cuochi, maniscalchi, arrotini e fashion designer.
I tutor e i tutorial per fare questo e quello.
Ridipingere una parete come rinvasare una pianta grassa.
Cuocere un budino come riattaccare un bottone.
Con pazienza e perizia ti spiegano tutto, passo passo, il come se fa.
Tra un  congiuntivo sbagliato e una disquisizione linguistica rimbalzata tra esimi opinionisti presenti in studio (si dirà: imbèverlo/ imberlo o imbeberlo?!...dubbio peraltro mai sciolto)
Che mi ha schiuso orizzonti e infuso insperati insegnamenti.
Altro che prendere un batuffolo di cotone, imbibirlo (quarta opzione!...se dirà così? Mah!) di alcool (oddio me perseguita!) e passarlo tal quale sul telecomando o sul telefonino per rimuovere tracce di BB cream o semplicemente disinfettarli un po’, come sono solita fare almeno ogni tanto.
Nossignori, una ricetta precisa e puntuale ci vuole!
Così composta:
100 ml di alcool
100 ml di acqua
3 gocce di olio essenziale, preferibilmente di ginepro (che chi non ne possiede almeno una boccetta in casa?).
Compito dei più semplici da assolvere una volta rincasate alle otto passate (dopo esserne uscite la mattina sul fare dell’alba), con la cena da preparare, la lavatrice da avviare, i panni asciutti da ritirare dallo stendino….che ce vo’ a preparare pure la pozione magica per pulire il telecomando o il cellulare?!
Ma queste sono le solite domande retoriche che mi fa sovvenire sempre la mia innata sciatteria e mala gestione della casetta.
Per il resto:
a parte sciropparci le due ore pomeridiane di consigli per la casa e il lifestyle, l’amato bene (forse suggestionato da tanta televisione tutta insieme, forse ispirato da contenuti culturali così alti, probabilmente rincoglionito soggiogato da tanto illuminato e illuminante chiacchiericcio tutto in una volta) un bel giorno ha preso, s’è alzato di scatto dal letto, è andato in cucina e ha attuato la solenne decisione di…., signore e signori, ……accoppare definitivamente Shrek!
Dice: e chi è?
Il nostrolievito madre, gente!
Quell’ammasso cicciotello e bruzzoloso, necessitante di cure costanti, che nel periodo delle vacanze veniva pure affidato alle cure di una babysitter all’uopo designata, giunto ormai quasi alla soglia dei due anni di vita.
Fatto fuori proprio quando si affacciava gaio sull’uscio dell’età matura, senza più quel suo saporino acidulo di lievito sbarbatello, ed era diventato perfino un bravo giovine che svolgeva egregiamente il suo lavoro, producendo, ogni sabato sera, una bella ciambella di pane integrale che durava per tutta la settimana.
Ma certo chi se ne occupava era solo lui, l’amato bene.
Profondendo nel suo accudimento, tanta energia e tempo libero.
Tra rinfreschi e impasti.
Reimpasti e cotture.
E che era arrivato a vivere come un incubo il venerdì sera (per il rinfresco) e poi il sabato mattina, interamente occupati da tutto l’accudimento di Shrek.
Così, con un solo gesto, dopo averne immolato una piccola parte per farne l’ultima pagnotta, forte dei suggerimenti televisivi su trucchi e segreti del saper vivere, l’ha appallottolato con cura in un foglio di giornale e, augurandogli buona vita (quale nun se sa), lo ha buttato dritto al secchio.
Addio pane fresco fatto in casa con fermenti lattici buoni.
Addio esperimenti di lievitazione e sano mangiare.
Largo alle gallette di riso e alla scarpetta con la segatura da esse prodotta.
Perché quando è troppo è troppo.
E Shrek era diventato un impegno oneroso.
…Che mai, comunque,mi sarei sognata di togliergli….




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E sì, continuo con i dolci. Imperterrita, irremovibile, incorreggibile.
D'altronde in qualche modo ci si dovrà pur confortare.
E poi penso al freddo alla pioggia incessante dei giorni della Merla (che poraccia quest’anno sarà pure affogata)…del resto mica ci si può scaldare e confortare  con un cuore di sedano o un quarto di finocchio!
Di ciambelloni al limone ne avrò provati a centinaia, uscendone però mai pienamente soddisfatta.
Dopo questo (derivato dalla fusione di una ricetta della Parodi, una di una carissima amica e una terza mia personale) ho deciso: è lui.  L’unico in cui il limone si senta forte e chiaro e non solo come un vaghissimo e lontanissimo sentore.
L’unico davvero soffice, che quasi si scioglie in bocca.
L’unico per il quale si è scomodata perfino la mia esigentissima mamma, di solito davvero poco incline ai complimenti, che invece, addentato il primo morso, ha esclamato entusiasta: “ma che buono!!”.
Perciò deve essere vero per forza.



Ingredienti (per uno stampo da 26 cmdi diametro)
3 uova
250 gr di farina 00
200 gr di zucchero
100 gr di olio di semi
100 gr di amido di mais
1 vasetto di yogurt bianco magro
25 gr di latte
Scorza e succo di un bel limone bio
1 bustina di lievito
1 bustina di vanillina
1 pizzico di sale
50 gr di pinoli


Procedimento
Sbattere le uova con lo zucchero e un pizzico di sale fino a che non diventano chiare e spumose.
Unire l’olio, lo yogurt, il latte, il succo e la scorza grattugiata del limone e mescolare bene.
Aggiungere progressivamente le farine setacciate con il lievito e la vanillina, sempre continuando a mescolare.

Versare il composto in uno stampo oliato e infarinato, cospargere di pinoli e cuocere a 180° (preriscaldato) per circa 30 minuti.

L’allieva che supera il maestro - Involtini di pollo alla crema di formaggio, pomodori secchi e noci

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La vita in questa piccola casetta scorre, pur negli esigui spazi della stessa, tra mille insidie e pericoli costanti.
È che nella nostra (pure lei piccola) famiglia ci si “diverte” (se fa pe dì) davvero con poco.
O meglio, la sottoscritta, suo malgrado, si è dovuta rassegnare nel corso degli anni a trascurabili scherzi, piccoli tranelli, innocue trappole disseminate un po’ ovunque sui brevi percorsi, al solo scopo di suscitare una vacua ilarità e soddisfare così lo spirito burlone dell’amatissimo bene.
Si spazia quindi dalle luci accese e spente a rapidissima intermittenza, intorno alle 5 del mattino; ai bicchieri di acqua gelata tirati nella doccia mentre l’altr(A) si sta rilassando sotto un getto che scorre a una temperatura prossima ai 50°; fino all’abitudine di incollare ritagli di giornale sul ritratto di Giacomo Leopardi appeso in camera da letto.
Cui io ovviamente tengo moltissimo.
Ora è la volta del faccione sorridente di Flavio Insinna che ha preso il posto del visetto emaciato del sommo poeta.
Non posso svegliarmi ogni mattina con la faccia di quello sfigato davanti agli occhi: almeno Insinna ride!” è stata la giustificazione del mio consorte a questo affronto.
Ma fino al mese scorso il volto del povero Leopardi troneggiava su un mezzo busto femminile, fasciato in un abito di paillettes,  con tanto di tracollina di strass: tra le due opzioni, non saprei quale scegliere.
Nel tempo dunque, volendo schivare scherzi innocui e soprattutto sopravvivere a quelli più pesanti (tipo entrare al buio in camera e sentirmi afferrare una caviglia da sotto il letto…) senza rischiare di rimanerci stecchita ogni volta, ho dovuto imparare a difendermi.
Prevenire qualche mossa, affinare le tecniche, affilare le armi.
Le idee a volte, nella fervidissima immaginazione del burlone di casa, nascono anche così, da un pezzo di carta stagnola appallottolata prima di essere buttata al secchio, sua naturale destinazione.
Almeno nelle case normali.
Qui invece prontamente infilata nella maglietta dell’altr(A), che sarei io.
Questo gesto innocente è capace, qui in questa casetta, di dare la stura a tutta una serie di vendette trasversali e raffinatissimi piani di attacco.
È così che quella palla di carta stagnola ha gironzolato per casa tutta la seconda metà di settembre senza trovare pace (e io con lei…).
Una volta me la ritrovavo sotto il cuscino.
E allora gliela infilavo nella tasca del pigiama quando al mattino glielo ripiegavo.
Un’altra volta me la ritrovavo nell’anfratto più recondito della mia borsa mentre andavo al lavoro
E allora, tornata a casa, gliela nascondevo nel taschino di una camicia.
Poi me la ritrovavo sotto la tazza capovolta della colazione.
Allora gliela sistemavo nel portapranzo insieme al riso (sperando che magari gli venisse in mente di farla finita e buttarla lì in ufficio).
Mai nessuno dei due che cedesse. Nessuno che dichiarasse la vittoria dell’altro.
E sta palla di stagnola che continuava a girare, coprendo chilometri e distanze.
Arrivando anche fino a Roma, per poi tornare indietro.
Finché.
10 ottobre, giovedì, giorno del suo compleanno.
 Niente regali al momento, perché i festeggiamenti sono rimandati a sabato.
Eh ma le candeline si soffiano nel giorno designato, che quelle mica possono aspettare.
E un piccolo regalino può anche anticipare quello vero.
Prendo la scatolina di un anello, la dimensione perfetta.
La avvolgo con cura, in una carta bella e raffinata.
Scelgo un nastrino dorato, lo stiro in mille riccioli.
Gli faccio trovare il pacchettino sul tavolo, accompagnato da un biglietto sentito e perfino toccante.
Lo apre fremente di curiosità, quasi commosso per questo anticipo di festa.
Pensa a un cioccolatino, a una cosa piccola ma simbolica, non gli viene in mente altro.
E la scatolina svela generosa il suo contenuto: la palla di carta stagnola!!!
Tenuta opportunamente ferma per una settimana, in modo che lui se ne dimenticasse, che non ci pensasse più.
Non può che farsi una risata, lui, il genio degli scherzi, e arrendersi all’evidenza.
M’hai fregato”, ammette sportivamente.
E la palla di stagnola, finalmente, finisce al secchio.
Ahhhhh le soddisfazioni della vita!

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Un semplice appunto, su una rivista settimanale, il richiamo-lampo a questi involtini di pollo semplici e veloci.
E altrettanto semplicemente e velocemente li ho preparati qualche giorno fa per cena. Sfidando l’avversione dell’amato bene per i formaggi spalmabili (a meno che non siano trasformati in creme dolci per farcire torte e tortine), la sua repulsione per i pomodori a pezzi, la tendenza a storcere il naso davanti a pietanze salate anche solo minimamente tendenti al dolce.
Ecco, non ce n’era una che gli potesse andare bene in questo piatto (una piccola vendetta trasversale pur questa...), ma l’ho buttata sulla sfida da quiz: “indovina cosa c’è dentro? Solo 4 ingredienti, via al tempo!”. E così distraendolo fino alla fine s’è mangiato tutto mostrando anche di apprezzarlo particolarmente. Poi proprio quando mancavano un paio di bocconi e i due ingredienti più importanti da scovare, ha capitolato: “mi arrendo”, costringendomi a svelargli contemporaneamente la presenza di formaggio e pomodori.
Ora che me lo hai detto ce lo sento il formaggio…mentre su questi avrei scommesso che fossero peperoni”……..ovviamente.


Ingredienti (x2)
300 gr petti di pollo
2 cucchiai di formaggio spalmabile (io senza lattosio)
6 pomodori secchi sottolio
6 noci
1 bicchierino di marsala semisecco
1 spicchio d’aglio
Olio extravergine d’oliva
Sale
Pepe

Procedimento
Battere leggermente i petti di pollo e privarli delle parti grasse. Lavorare con una forchetta il formaggio insieme ai pomodori ben sgocciolati e ai gherigli di noci, entrambi tritati al coltello.
Spalmare quindi ogni fetta di carne con il composto e arrotolarla fermando il tutto con uno stecchino o due.

Scaldare dell’olio in una padella insieme allo spicchio d’aglio leggermente schiacciato. Unire gli involtini e farli rosolare bene su ogni lato; sfumarli quindi con il marsala, 

alzando per qualche secondo la fiamma, quindi riabbassare, aggiustare di sale e pepe, coprire la padella e lasciare cuocere ancora per una decina di minuti o quindici secondo la grandezza degli involtini.
Irrorare abbondantemente di salsina!!

N.B.: abbiate cura che vi rimanga un cucchiaino di composto da poter aggiungere in padella insieme al marsala mentre sfumate affinché si ottenga una cremina da sballo!





Oltre i legami di sangue - Strangozzi umbri con zucchine, cotto e gorgonzola

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Da qualche tempo a questa parte, una piacevole e sorprendente compagnia femminile è entrata a far parte della mia famiglia di origine, allietando della sua presenza le cene abituali del venerdì sera a casa dei miei.
Brillante, simpatica, molto socievole e soprattutto tenace abbastanza da sopportare quella testa un po’ calda e costantemente fra le nuvole del mio adorato fratello.
Del resto sarebbero pure nati lo stesso giorno dello stesso mese: un qualche valore simbolico questo particolare dovrà pur averlo.
Stesso giorno erano nati pure i suoi nonni, altro dettaglio curioso su cui scorrono affinità delle più varie e disparate.
Affinità che si estendono anche agli altri membri della famiglia, naturalmente, e alla sottoscritta in particolare.
Il fatto stesso che si parli di libri, di cucina, di vino, di impasti di torte come di aspirazioni lavorative in fondo molto simili (e al momento parimenti frustrate), ci ha posto immediatamente nella condizione beata di trovarci d’accordo su tante cose.
Quando poi siamo arrivate a scambiarci libri e consigli di lettura, con recensioni puntuali approntate sul momento, la scintilla, almeno per ciò che mi riguarda, è scattata immediatamente e per sempre.
Ma non sapevo ancora che la questione potesse andare anche oltre.
Molto oltre.
Un venerdì sera qualunque: la paella per cena, un mio esperimento di torta come fine pasto, un vino di tutto rispetto da lei presentato e magistralmente servito in virtù di tutti i suoi pregressi studi da sommelier.
La serata scorre tranquilla fino a quando il mio papà decide di servire un liquore a completamento del tutto e va a prendere, nell’ordine, bottiglia e bicchierini in cui mescerlo.
I calici del vino ancora sulla tavola.
Briciole di torta sparse qui e là, qualche dettaglio ancora da sparecchiare.
Lei seduta di fronte a me: noi conversiamo amabilmente, i nostri rispettivi 3/4 sorseggiano il vino, papà armeggia (pericolosamente) con la bottiglia di liquore e mamma sparecchia.
Succede tutto in un attimo:
la bottiglia di vino pregiato si accascia sulla tovaglia, un calice la segue, il liquido rosso rubino, con tutti i suoi sentori di sottobosco, aromi di legno e retrogusto di vattelapesca, mi investe in pieno.
E senza trascurare alcun dettaglio annaffia, nell’ordine: pantaloni, maglione, lupetto sottostante e cuscino della sedia.
Tutto, niente escluso.
Che se avessi avuto ancora i capelli lunghi non ne sarebbero stati risparmiati manco loro.
Silenzio, scena sospesa, un mutismo attonito coglie tutti i presenti.
Mi paralizzo anche io ma giusto per un attimo perché poi sono subito pronta a scagliarmi sul mio povero papà che staziona in piedi proprio accanto a me con la bottiglia di liquore in mano dopo avermi chiesto, un attimo prima, se ne volessi anche io.
Consapevole della sua proverbiale e universalmente nota sbadataggine, che poi è pure la mia, mi chiedo però come abbia fatto, stavolta, a buttare per terra una bottiglia che si trova dalla parte opposta del tavolo, mentre ne teneva in mano un’altra…
Deve essersi specializzato.
Deve aver affinato tecniche e messo a punto nuove mosse segrete.
Sguardi di disappunto/rimprovero/commiserazione, prendono a trafiggere entrambi, da ogni lato del tavolo.
E ancora più grande quindi è la sorpresa quando si realizza che no (una volta tanto) non è stata colpa sua!
E nemmeno mia.
Esclusi quindi i due sfascioni di casa, resta evidente che il fattaccio l’ha combinato lei, la mia dirimpettaia, che nel tentativo di preservare calici e vino ha finito invece per schiantare il tutto dritto in orizzontale.
Rimane di sasso, mortificata e dispiaciuta.
I bellissimi occhi verdi spalancati (e ancora più magnetici) per l’incredulità.
Ma è solo perché non capisce l’altissimo valore simbolico di questo evento.
L’incommensurabile significato escatologico di tutta la questione.
I livelli altissimi di somiglianza che irrimediabilmente rende manifesti.
Mentre corro in bagno a smacchiare perlomeno il maglione (giusto perché l’ha fatto mamma e pare brutto lasciarlo così), penso e rimugino su tutta la faccenda, mentre lei, sempre più contrita, mi segue per scusarsi ancora una volta.
Non può cogliere, giustamente, la grandezza intrinseca di questo suo gesto involontario.
Il mondo che ha schiuso.
L’unione viscerale che ha evidenziato.
Scambia il mio stupore per disappunto (sì certo, non rientrava nelle mie aspirazioni, perlomeno più immediate, quella di farmi una doccia di vino, io che manco bevo, con tutti i vestiti addosso, ma questo è davvero l’aspetto meno rilevante…).
Annaspa cercando le parole per rimediare.
Mentre un unico pensiero prende a rimbalzare  nella mia mente.
La gioia di una nuova consapevolezza comincia a prendere posto nel mio cuore
Un’unica conclusione iniziano a trarre le mie riflessioni:
È  lei! Non può essercene una più giusta.
E gli sfascioni di casa, con grande rimonta e sopraggiunta parità, signore e signori, salgono a tre!
<3 <3 <3



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Le zucchine non sono certamente di questo periodo, ma la voglia d'estate sì, allora per appagarla (almeno un po') vanno bene anche le uniche che si trovino al momento, cioè quelle nere, molto acquose, a patto che si cuociano quel poco che basta ad ammorbidirle un po' lasciandole però croccanti.
Con questo condimento di solito faccio la pizza, e anzi lì sopra a cottura ultimata metto anche qualche foglia di radicchio.
Sulla pasta è ancora più gustoso, con o senza radicchio finale...

Ingredienti (per due)
250 gr di strangozzi
2 zucchine nere medie
1 etto di prosciutto cotto in un’unica fetta
2 cucchiai abbondanti di gorgonzola dolce
1 spicchio d’aglio
1 goccio di latte (meno di mezzo bicchiere)
Olio extravergine d’oliva
Sale
Pepe nero

Procedimento
Mettere a bollire l’acqua per la pasta e nel frattempo scaldare lo spicchio d’aglio tagliato a metà in una larga padella con un po’ di olio.
Unire le zucchine tagliate a dadini e far saltare a fuoco vivace per una manciata di minuti (devono rimanere croccanti e non disfarsi).
Aggiungere anche il prosciutto cotto a dadini, salare, eliminare l’aglio e spegnere il fuoco.
Lessare la pasta, scolarla al dente e farla saltare in padella con il condimento aggiungendo, se necessario, un po’ di acqua di cottura.

Mantecare con il gorgonzola stemperato con due dita di latte, spolverizzare con pepe nero e servire subito.

Penso, dunque sono – Cake di wafer

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Dice il personaggio di un libro di Amélie Nothomb: “[Il treno] È il mezzo di trasporto più pedagogico che conosca: non sono mai salito su un treno senza imparare qualcosa, sia dalla bocca di viaggiatori in vena di confidenze, sia dalle mie osservazioni personali”.
Io sul treno viaggio ogni giorno da 23 anni e di lezioni gratuite, non volute, schiantate fra capo e collo o semplicemente piovute con delicatezza dal cielo, me ne ha elargite davvero a piene mani.
Studi di geografia
Lezioni di comportamento
Fino alla rivelazione di nuovi modi di dire e significati occulti di certe locuzioni.
Del resto esistono tanti tipi di domande.
Ci sono quelle che nascono già destinate a rimanere senza risposta,
da quelle esistenziali
(da dove veniamo, dove stiamo andando?)
a quelle solo poco meno importanti
(l’avrò spento il gas sotto il minestrone?)
E che servono solo a generare ansia, visto che essendo già salita sul treno, che l’abbia spento o meno il gas a quel punto conta davvero poco.
Ci sono le domande retoriche, che uno si pone così, giusto per, conoscendo già la risposta
(si schianterà a terra il tegame con tutto lo spezzatino mentre mi accingo a servirlo in tavola?)
Ma sai che anche stavolta (o perlomeno preghi che vada così...) ti andrà bene: lo dimostra il fatto che il servizio di tazzine buono, per esempio, l’hai decimato in tutta segretezza, mentre lavavi i piatti, quando non ti guardava nessuno.
 E che a parlare sono solo le tue paure (mica pregressi eventi nefasti).
Ci sono le domande dirette, che arrivano come staffilate e alle quali non si sa bene cosa rispondere
(vieni alla cena della palestra venerdì sera?)
Ma inducono a riflettere, a chiederti perché non sei capace di dire subito sì, ma hai sempre bisogno di prendere tempo, di capire se lo vuoi veramente, manco di trattasse di firmare una cambiale o valutare una proposta di matrimonio.
Poi ci sono quelle a risposta obbligata, che mascherano affermazioni, contengono minacce
(buona sta pasta, vero?– e prova a dire il contrario).
Le domande insomma non nascono mai per caso e buttare lì una risposta potrebbe risultare compromettente.
Per questo è consigliabile riflettere bene, contare anche fino a 100, e poi tenersi sul vago, non sbilanciarsi mai troppo, a meno che non si disponga di inconfutabili prove scientifiche a sostegno, valide pezze d’appoggio insomma.

Venerdì sera, stazione di arrivo,un ragazzo fermo sulla banchina ad attendere la sua compagna che scende dal mio stesso treno.
Frammenti di conversazione rubati al volo (inevitabilmente, grazie al tono di voce di svariati decibel sopra la norma):
Lui, premuroso:“Amò, te so’ arivati i messaggi?
Saggia e guardinga pausa di riflessione da parte dell’interrogata
 “Se t’ho risposto, certo che me so’ arivati!
La logica infatti si rivela ineccepibile e il merito dev’essere tutto della pausa di cui sopra.
Ma lui incalza: è uno che non s’accontenta, che scava nel profondo, vuole capire, approfondire, vagliare senza trascurare proprio nulla
Noo, io dicevo quelli che nun m’hai risposto
Lei dà prova di non essere da meno: si arrovella nel dubbio, scava nella memoria, cerca di ripercorrere ogni frammento di azione compiuta durante il tragitto, fino a trarre la seguente, sudata conclusione:
 “Ah…e no, quelli me sa de no
Perché la prudenza, anche nelle supposizioni di un certo rilievo, non è mai troppa.


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Della ricetta mi sono innamorata da lei (grazie Claudia!) e vabbè che poi ho impiegato un anno e passa per decidermi a realizzarla, ma va anche detto che in una sola volta ne ho fatte ben due versioni!
Perché sì, la bellezza di questa torta è che la si può personalizzare a piacimento, declinare in mille modi, provare a buttarci dentro tutti i gusti più strani di wafer che si riescano a scovare.
Ma mi sono tenuta sul classico e (per ora) sono andata di vaniglia e cioccolato.
Il risultato è sorprendente: morbidissimo, dalla consistenza umida, il sapore meno dolce di quello che mi avrebbero fatto credere i 150 gr di zucchero necessari.
Anche di farina ne bastano 150 gr: pochissimi! e a me questa è parsa proprio una magia.
Ora aspetto di trovare wafer al limone e alla fragola.
Come minimo.


Ingredienti (per uno stampo da plumcake lungo 30 cm)
200 gr di wafer alla vaniglia
150 gr di zucchero
150 gr di farina 00
3 uova intere
1 bicchiere di latte (io a ridotto contenuto di lattosio)
1 bicchiere di olio di semi
1 bustina di lievito
I semi di mezza stecca di vaniglia (o 1 bustina di vanillina)
1 pizzico di sale

Procedimento
Mettere i biscotti in un sacchetto di plastica e batterli con il batticarne o il matterello tritandoli grossolanamente. Sbattere molto bene le uova con lo zucchero e  un pizzico di sale. Quando saranno diventate bianche e spumose unire l’olio e il latte continuando a mescolare. Aggiungere quindi progressivamente la farina setacciata con il lievito e i semi della vaniglia.
Incorporare i biscotti, versare il composto in uno stampo da plumcake ricoperto di carta forno e cuocere a 160° per circa 45-50 minuti (fare la prova stecchino: se la superficie inizierà a scurirsi troppo ma lo stecchino ma il plumcake ancora non sarà cotto, coprirlo con un foglio di carta stagnola)


Per la seconda versione:
-         wafer al cacao
-         latte miscelato con un bicchierino di Amarula (crema di whisky africana, simile al Baileys)
-         una manciata di gocce di cioccolato extrafondente da unire al composto





Per san Valentino e per ogni altro giorno

Quando un libro colpisce al cuore

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Mi è stato prestato e non ero troppo convinta che mi sarebbe piaciuto.
A parte la dedica che mi inteneriva oltremodo:
"Per mia nonna:
per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato"
Ho iniziato a  leggerlo senza aspettarmi niente ma già dalle prime pagine mi ha rapita, finendo per conquistarmi del tutto, nemmeno superata la metà.
La copertina non è di quelle che colpiscono e la bandella non faceva presagire nulla di così eclatante o diverso dal già noto e abusato espediente narrativo del viaggio.
Oltretutto è il romanzo d'esordio di una scrittrice americana di cui finora ben poco si sapeva.
Ma bastano poche righe per rendersi conto che la trama è avvincente.
E lui, un libro che non lascia nulla di intentato, nessuna emozione inesplorata.
La vicenda scorre e si intreccia avviluppando immediatamente tutti i sensi e mettendo addosso la smania di voltare velocemente pagina per sapere cosa accadrà, dove sono dirette le due protagoniste, a bordo di una vecchia automobile, nell'arco temporale di 4 giorni, in cui si esauriscono viaggio e vicenda.
Due donne diversissime fra loro:
Una bianca l’altra nera
Una giovane l’altra novantenne.
Una alle prese con la complicata vita quotidiana, l’altra con certe faccende misteriose del passato da sistemare una volta per tutte  (e che si disveleranno completamente anche a lei, solo una volta giunte a destinazione).
Un cellulare costantemente in funzione per l’una, un vecchio foglio ingiallito, gelosamente conservato, per l’altra.
In comune, e come filo conduttore, un cruciverba che interrompe la monotonia del viaggio e le cui definizioni danno vita a parole chiave sulle quali si snodano i ricordi.
Unite in questo viaggio verso Cincinnati il cui motivo inizierà a intravedersi solo oltre metà libro.
Ma nel frattempo è tutto uno scorrere di eventi: passati e attuali.
Tutto un fluire di emozioni e supposizioni, che inevitabilmente si è chiamati a fare per cercare di capire, a mano a mano che ci si trova sempre più coinvolti.
Si freme di collera, si vibra di passione, ci si asciuga qualche lacrima in alcuni passaggi.
Mai banale, mai scontato, mai lento né esitante.
È, anzi, tutto un fremito di vita e di azioni che si susseguono incessantemente su due diversi piani temporali:
il presente di Dorrie e il passato di Miss Isabel.
Non si rimane indifferenti, si arriva perfino a incrociare le dita che certe questioni abbiano un lieto fine.
Coinvolge, appassiona, fa schierare.
E desiderare di ricominciare a leggere tutto dall’inizio una volta chiusa l’ultima pagina perché ci si accorge di essere andati troppo veloce nell’ansia di scoprire tutto, svelare segreti, capire nessi.
La seconda lettura permette invece di assaporare alcuni snodi cruciali.
Soffermarsi su altri.
E quindi vale la pena anche rileggerselo, gustandosi ogni scena, ogni parola, ogni fatto di quell’incredibile, appassionante storia d’amore, di amicizia e di vita, che è.
Il finale non delude: si ammanta di dolcezza,sorprendendo una volta di più.

Julie Kibler, "Tra la notte e il cuore", Garzanti 2013


Negare sempre – Burger di tonno e broccoletti

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Non si può dire, in fondo, che non sia una tipa dal cuore tenero.
Spigolosa e intransigente su molte cose.
Incazzosa e fumantina su tante altre.
Umorale e un pizzico fissata sulla maggior parte delle questioni.
Che farle bene diventa subito questione di vita o di morte.
Cucinare una minestrina col dado come rispondere a domande sui massimi sistemi.
E  il bianco e il nero imperano peggio che nell’età dell’adolescenza, che io i grigi e le approssimazioni pure a quarant’anni suonati, riesco a digerirli poco.
Precisione.
Verifica.
Scavare sempre a fondo.
Avanti a testa bassa.
Ma anziché andarmene in giro ad artigli tesi, fendendo l’aria con minacciose zampate e ruggendo cavernosamente, come ben si converrebbe al mio segno zodiacale, dietro questa dura corazza, in realtà, si nasconde l’animo di un’autentica, certificata e riconosciuta mammoletta dalla lacrima (molto) facile.
Piango per le cose più disparate.
Dal classico film-polpettone romantico, a una musica struggente ascoltata per caso, anche al volo camminando per strada.
Dalle immagini di certa pubblicità progresso, a un articolo di giornale volutamente pietoso.
E come i personaggi dei cartoni animati di un tempo, mi ritrovo con pozzanghere tremule di lacrime che riempiono la palpebra inferiore stazionando solo pochi secondi prima di rotolare copiosamente giù, senza che io possa fare alcunché per fermarle.
Ma a volte me le vado anche a cercare.
Se vedo un bimbo rosso di rabbia, ancora incapace di parlare, che grida il suo disappunto esternandolo pure con sguardi disperati, io lo anticipo addirittura.
Piangendo prima che scoppi in lacrime lui.
E faccio davvero una gran fatica a mantenere quel filo di decoro che mi impone perlomeno di celarlo.
Se non altro ai suoi occhi, che pur sempre la sua tata sono.
Non mi salvo nemmeno in un luogo tutt’altro che commovente come la palestra: se a un tratto sopraggiunge una musica particolarmente toccante, che mi riporta alla mente qualche ricordo o tocca, a tradimento, qualche corda sopita dell’anima, posso anche essere impegnata in un esercizio molto faticoso, trovarmi in bilico sui maxi palloni, ondeggiare sul tatami appesa agli anelli, penzolare dalla parete ancorata per i piedi agli elastici…che una lacrima mi scende comunque.
In ogni caso, senza scampo.
La reazione maschile di fronte a questo serio problema è perlopiù di imbarazzo celato però dietro frasi che, almeno negli intenti vorrebbero essere di conforto, ma nella pratica si rivelano subito per ciò che sono, ovverosia goffe affermazioni scorbutiche riassumibili tutte nella risolutiva domanda di rito:
 “Ma che te piagni?
Cui ovviamente non può seguire una risposta razionale.
Specie in certi periodi del mese, che vaglielo a spiegare ai signori uomini cosa significa essere preda di tempeste ormonali che manco KenShiro vale il paragone.
Ma a tutto c’è un limite.
E va bene commuoversi per un film, per una musica, per un bimbo, per le parole di un libro.
Al limite passi pure sciogliersi in lacrime per un servizio particolarmente toccante de Le iene.
Singhiozzare convulsamente davanti a un redivivo Claudio Baglioni che ancora canta (egregiamente, va riconosciuto) di magliette fini, schiume di cavalloni pazzi che si rincorrono nel mare e legnetti di cremino, i cui ricordi, tutti, si perdono beatamente nella notte dei tempi.
Ma farsi trovare dal proprio marito in forte ambasce o col trucco già sfatto per pregressi lacrimoni davanti al faccione di Costantino della Gherardesca in una puntata di Boss in incognito...
 no, questo è davvero troppo.
Un moscerino nell’occhio.
Una congiuntivite in arrivo.
Le lenti che si sono seccate….
Tutto, fuorché la verità.
Negare sempre.
Sviare l’attenzione
mi prendi per favore le lacrime artificiali?”…che quelle vere in certi casi non è che sia consigliabile, è proprio necessario, DOVEROSO , nasconderle!

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Ingredienti (per circa 8 pezzi)
1 cespo di broccoletti siciliani (400 gr una volta puliti e lessati)
3 scatolette di tonno da 80 gr
1 patata lessa media
1 uovo
Il succo di mezzo limone
Pangrattato (ricavato da pane raffermo tostato e frullato)
Peperoncino
Sale
Olio extravergine d’oliva

Procedimento
Mondare e dividere in cimette i broccoletti. Dopo averli lavati lessarli per circa 20 minuti, quindi scolarli e tritarli al coltello.
Schiacciare la patata ancora tiepida con la forchetta e unirla ai broccoletti.
Aggiungere il tonno sgocciolato e sminuzzato e infine l’uovo, il succo di limone e il peperoncino.
Aggiustare di sale, quindi unire poco pangrattato fino a ottenere la giusta consistenza per formare delle polpette.
Passarle nel pangrattato e schiacciarle leggermente.
Far scaldare dell’olio in una padella antiaderente e cuocervi le polpette avendo cura di non girarle fino a quando non avranno formato una bella crosticina dorata.
Pochi minuti, un altro pizzico di sale e buon appetito!


Note:
-         le polpette, cosparse di un filo d’olio, si possono cuocere anche al forno su una teglia ricoperta di carta per circa 15 minuti (in forno già caldo) a 180°.
-         All’impasto si può aggiungere parmigiano o pecorino a piacere
-         Per renderle ancora più gustose e saporite, prima di formare le polpette si possono far saltare i broccoletti qualche minuto in padella con aglio, olio e peperoncino (riducendo però i tempi di lessatura precedenti, a 15 minuti): aspettare che sia tutto ben freddo prima di procedere all’impasto!
-         - Il sapore e la consistenza del pangrattato comprato già pronto non sono paragonabili a quelli di un pangrattato ottenuto da fette di casereccio raffermo, fatto tostare in forno e tritato…provare per convincersene definitivamente.




Rimedi della nonna - Tacchino e peperoni "tutto a crudo"

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Basta, st’aerosol non lo sopporto più!”
È con estremo gaudio e sconfinata gioia interiore che sento l’amato bene sbuffare questa frase, pochi giorni or sono, spingendo lontano la macchinetta infernale.
Mentre dentro di me esulto pensando: "Figurati chi ti sente!"
Ma dimostrarsi troppo felici della notizia potrebbe avere l’effetto contrario e indurlo, per non meglio specificata reazione, a sentire di averne ancora bisogno.
A decidere di inaugurare la quarta (QUAR-TA) settimana di terapia.
A stabilire che quello sfarfallio nel naso non sia dovuto alle 18 sigarette che fuma giornalmente ma a quel tenace, presunto raffreddore che ancora non passa.
Accolgo perciò la notizia con apparente indifferenza.
Con l’aria di chi comprende e sostiene ma lascia decidere, non preme, non incoraggia nell’uno o nell’altro senso.
Semplicemente: sta a guardare.
Ma dentro già mi prefiguro scenari bellissimi:
l’angolo di tavolo del soggiorno finalmente libero;
il centrotavola nuovamente al suo posto;
lo sgocciolatoio del lavandino nuovamente privo del piattino con gli attrezzi sciacquati e messi a  scolare, ormai da un mese.
Niente più mascherine in giro per casa.
Niente odore di zolfo ad accogliermi la mattina appena sveglia.
Nessuna traccia di fili penzolanti sul pavimento.
Nessuna fialetta rotta a riempire la pattumiera che devi pure stare attenta a non tagliarti quando chiudi il sacchetto.
Niente più ronzii molesti ad allietare serate e riempire mattinate del fine settimana.
Fine dell’aerosol.
Pace riconquistata.
Volteggio per casa mentre passo l’aspirapolvere immaginandomi ognuna di queste scene di armonia ritrovata.
E mi sento leggera, rinata, liberata.
……
Ore 20:30 dell’indomani di questa nuova prospettiva.
Lui è rientrato come sempre prima di me.
Ad accogliermi, non appena apro la porta, un’odore indefinito, forse di tè.
Una sensazione di calore e umidità.
Uno strano, misterioso, ovattato silenzio.
Cerco di individuare la scena che si staglia confusa all’orizzonte del mio sguardo miope.
Mi sforzo di mettere a fuoco.
Strizzo gli occhi inutilmente, perché proprio non riesco a capire.
Almeno nell’immediato.
Non riconosco quell’ammasso informe e indefinito seduto al nostro tavolo con metà corpo proteso sul medesimo.
Finché non mi avvicino abbastanza (e sì che la distanza non è tanta, ma la scena impensabile, questo sì).
E la realtà mi piomba addosso con tutto il suo carico di amarezza.
Gli scenari si sgretolano, l’armonia fa ciao ciao con la manina e se ne va.
Una nuova, drammatica consapevolezza si fa strada dentro di me.
L’ ammasso è lui, l’amato bene, comodamente seduto al suo posto, chino su un pentolone di acqua fumante, con la testa coperta da un pesante asciugamano, intento ad aspirare vapori di pozioni stregonesche che manco voglio sapere.
Uno spettrale “ciao amore” che sembra provenire dalle viscere della terra, soffocato dal telo, smorzato dai vapori.
Ma non avevi detto basta con l’aerosol?!!!!” lo aggredisco in barba a mosse strategiche che mi imporrebbero calma e sangue freddo.
Appunto” risponde lui serafico, emergendo dal pentolone in cui di solito cuocio il minestrone, col viso tutto imperlato di goccioline.
Basta infatti con medicine e prodotti chimici! Avevi proprio ragione, allora ho deciso di ricorrere ai vecchi, cari rimedi della nonna… e di farmi i fumenti! Quelli non hanno controindicazioni né effetti collaterali, no?”.

Aiutateme.

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Che si fa quando si vuole preparare un secondo possibilmente già completo di contorno, da trovare la sera pronto, solo da scaldare, che oltre a tutto ciò sia anche privo di soffritti inutili e, già che ci siamo, strizzi vagamente l’occhio alla linea e al mangiare leggero ma con gusto?
Semplice: si scegli un tipo di carne magro, ci si abbina una verdura succosa e saporita, si butta tutto in pentola e si lascia che i due familiarizzino, rilascino vicendevolmente umori e sapori e facciano, insieme, una pietanza che rende obbligatoria la scarpetta (con le gallette di riso che il pane no, in regime dietetico non è previsto!).
E se pensate a un tacchino stoppaccioso, insipido, dall’aria lessata siete completamente fuori strada: viene morbidissimo, saporito, intriso di tutto il buono dei peperoni.
Tutto a crudo, tutto insieme, tutto in un’unica pentola.
….Cosa volere di più?
Io ho impiegato degli ossibuchi che avevo nel congelatore tagliandoli a pezzi, ma la fesa darà sicuramente il meglio di sé.



Ingredienti (per 2 persone)
1 fesa di tacchino da circa 400 gr
3 peperoni medi (giallo, rosso e verde)
1 pomodoro 
1 cipolla
Una manciata di basilico secco
Una manciata di olive nere snocciolate (facoltativo)
½ dado vegetale (senza glutammato)
½ bicchiere d’acqua
Peperoncino
Olio extravergine d’oliva
Sale

Procedimento
Prendere una largo tegame e metterci dentro: la fesa di tacchino tagliata a cubotti, i peperoni lavati, mondati dei semi e tagliati a losanghe, la cipolla affettata sottilmente, il pomodoro tagliato a dadini.
Cospergere generosamente di basilico secco, spolverizzare di peperoncino e salare.
Irrorare con un filo d’olio, aggiungere il mezzo bicchiere d’acqua e il mezzo dado.
Cuocere su fuoco moderato, semicoperto, per circa 45 minuti, girando ogni tanto ed eventualmente aggiungendo un po’ di acqua (calda) se il sughetto dovesse ritirarsi troppo.

Al contrario se fosse troppo liquido, farlo restringere alzando la fiamma e scoprendo il tegame negli ultimi 5 minuti di cottura.

C di Carnevale e di Cina – Rustici per tutti i gusti

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Martedì grasso e niente dolci di carnevale quest’anno.
Non un raviolo ripieno di ricotta e gocce di cioccolato (tanto per citare un mio preferito).
Non una castagnola al forno, nemmeno una frappa.
Nessuna seduta di frittura premeditataed espletata con meticolosità scientifica. 
Perché la voglia è stata, per tutto il periodo, pressoché  pari a zero e perchè mica sempre per mangiare dolci sfiziosi e impegnativi bisogna pure faticare.
Basta andare in pasticceria…
Infatti abbiamo mangiato delle castagnole al rum, ripiene, stracolme, strabordanti di ricotta da far svenire i sassi.
E ci siamo anche deliziati di croccantissime frappe annaffiandole di alchermes quel tanto che bastava a farle sembrare fatte in casa.
Comodamente recapitate a domicilio da un illustre invitato a  cena.
Insomma, non ci siamo fatti mancare niente, pure essendomela personalmente svignata dalla consueta mattinata annuale votata alla frittura matta e disperatissima.
E nel frattempo ci siamo dedicati alla Cina, la partenza per la quale dovrebbe avvenire fra circa un paio di settimane, che ridendo e scherzando già siamo arrivati.
Leggendo quel mattone noiosissimo che è la Lonely Planet a riguardo (mannaggia alla fida Routard che fra le guide di tutti i paesi fatalità non contempla giusto questo!) e cercando come una disperata alcuni libri, ormai datai, che sembrano scomparsi dalla faccia della terra, o mai esistiti.
Mica è colpa mia se mi è venuta voglia di leggere autori cinesi o di altra nazionalità che parlano di Cina.
E mica è colpa mia se quelli che mi incuriosiscono sono sempre, sistematicamente, ormai fuori catalogo e nemmeno le biblioteche ne conservano copia.
Ora mi rimangono solo le bancarelle di libri usati che infatti sto setacciando e mettendo a soqquadro, che appena mi vedono, gli addetti sudano freddo.
Poi però non mi si venga a dire che parto con libri non adatti al luogo in cui sto andando.
L’amato bene infatti ha iniziato a minacciarmi affinché non mi venga in mente di infilare in valigia qualche testo tibetano o di un tale Gao Xingjian, il più famoso autore cinese dissidente (vincitore del Nobel per la letteratura nel 2000, mica cavoli), le cui opere, dal 1989 sono assolutamente vietate in Cina, ma di cui molti titoli sono disponibili in Italia.
Io t’avverto: se t’arrestano te lascio lì!
Ma vuoi che parta senza aver letto un Nobel e senza farmi pungolare proprio dal fatto che è un dissidente?
Ma certo, magari avrò cura di finirlo prima del check-in…
Del resto con Aisha, l’amata di Maometto, quella volta lì , non è successo niente…
L’anticipo con cui sono stati prenotati i voli è più o meno lo stesso, ma la preparazione di questo viaggio, rispetto a quello in Sudafrica è stata decisamente più snella.
Nessun auto a noleggio, ma solo due voli interni.
Non c’è la questione dell’antimalarica, né il problema di organizzare l’itinerario di 12 tappe con spostamenti continui e altrettante sistemazioni.
Qua gli spostamenti sono solo 3.
Tre grandi città, nessun percorso strano, dintorni impervi, luoghi remoti immersi nella natura.
Stavolta, abbiamo scelto così.
Per il Sudafrica solo natura, per la Cina solo megalopoli e vita di città.
Fra smog (tanto smog) e centri commerciali.
Templi taoisti, buddisti e confuciani ed enormi grattacieli.
Quasi per compensazione.
Quasi a voler ancora conservare l’incanto della natura incontaminata del continente nero e rimandare a data da destinarsi un viaggio, nell’interno della Cina, che non si può certo improvvisare.
Ma più pragmaticamente perché non ci andava di affidarci a una guida, di viaggiare 15 giorni in compagnia, di girare “scortati”.
E raggiungere certi luoghi della Cina senza una guida locale, è piuttosto complicato.
A cominciare dal fatto che nessuno, nelle zone rurali, parla inglese.
E che nessun cartello reca le scritte in alfabeto latino.
Imparare i segreti degli ideogrammi avrebbe richiesto un po’ più di tempo, che i soliti 9-10 mesi di anticipo con cui decidiamo destinazioni e prenotiamo  voli…
Anche se pure questa idea, a dire il vero, per un attimo mi ha sfiorata, affascinata dalla particolarità di una lingua i cui elementi sono rappresentazioni pittografiche del concetto che rappresentano.
Ogni vocabolo si compone di: un elemento pittografico e un elemento fonetico….detta così: che ce vo?
Ma quando poi ho visto che anche gli accenti hanno un valore decisivo per differenziare, per esempio, ben quattro significati di una sillaba tanto semplice come “ma” a seconda del tono (alto/ascendente/discendente/neutro) con cui viene pronunciata, ho capito che l’impresa era titanica e ben oltre la mia portata.
Così, alla luce di tutte queste profondissime  riflessioni,  abbiamo diviso l’itinerario semplicemente in 3:
Pechino
Shangai
Hong Kong
5 giorni in ciascuna di queste città, spostandoci con voli locali dall’una all’altra.
Unica e più importante formalità: richiedere, per tempo, un visto di entrata, senza il quale, ad eccezione di Hong Kong, non si va da nessuna parte.
Il visto si richiede compilando un modulo pieno di domande invadenti e un po’ strambe, che spaziano dalle più scontate:
(che vai a fare lì/quanto hai intenzione di trattenerti)
alle meno rispettose della privacy:
(chi ti paga il viaggio/cosa intendi fare mentre sei lì)
Che poi si consegna allo sportello di un ufficio preposto di Roma.
Non puoi richiedere un visto se non hai una prenotazione alberghiera o una persona locale non dichiara di ospitarti in casa sua (hai visto mai che si decida di vagabondare per 15 giorni…) e soprattutto la sicurezza che lascerai il paese entro 30 giorni, quindi il biglietto per un volo di ritorno in tasca.
Dopo aver presentato tutta la documentazione, 3 foto tessera per venire schedati, il passaporto con almeno 6 mesi di validità e il trascurabile dettaglio di 83 euro a testa, il rilascio del visto è comunque a discrezione dell’ufficio competente.
Quattro giorni lavorativi per avere una risposta e sciogliere la prognosi.
Dall’ultima tappa, che è Hong Kong, non si può far rientro nella Repubblica Popolare Cinese a meno di richiedere (e ottenere) un ulteriore visto di entrata.
Ma le formalità non si esauriscono qui:
all’arrivo bisogna compilare un modulo di autocertificazione sanitaria (e la domanda che in questo periodo va per la maggiore è: ce la farà l’amato bene a dichiararsi abile e arruolato pur continuando a ricorrere ai fumenti?) e un altro in cui registrare, per l’ennesima volta, i propri dati in dogana.
Espletato tutto ciò, dopo aver rimesso l’orologio avanti di 7 ore rispetto a Roma, forse si può iniziare a gironzolare.
Forse però stavolta senza poter fare a meno di piegarci all’uso del tablet sul quale abbiamo scaricato le mappe delle 3 città e un frasario italiano-cinese con il minimo sindacale per comunicare.
Ma intanto io, per non sbagliare, una mappa cartacea dentro il libro di Gao Xingjian la infilo lo stesso…
Ah no, quello non si può portare.


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I rotoli di pasta sfoglia che si comprano già pronti sono una vera manna dal cielo.
Che sì per carità provare a fare la sfoglia in casa costituirebbe uno di quei compitini da voler assolvere prima o poi. Ma più poi che prima, considerata la comodità estrema di trovarla già bella e pronta.
Basta aprire la confezione, srotolare, sbizzarrirsi con formine, coppapasta, bicchieri e tazzine, farcire con tutto lo scibile e infornare qualche minuto per servire un aperitivo sfizioso, goloso e gradito a tutti.
Di solito ne prendo tre confezioni, anche se siamo solo in 4, ma fra una chiacchiera e l’altra, un bicchiere di prosecco e uno di martini….  non ne rimane traccia!
Le quantità sono da decidersi autonomamente; in generale vale la regola di non riempire troppo la pasta per evitare che “esploda” in cottura, che poi se accade non è detto che non escano comunque forme esteticamente apprezzabili.

Per la forma della pasta sfoglia, una vale l’altra a meno che non si debbano fare i cornetti, allora è preferibile quella rotonda.
I ripieni che seguono sono solo blandi suggerimenti di ciò che finora ho sperimentato, ma va da sé che in casi come questi non c’è limite alla fantasia!
Sul come si fanno i cornetti è pieno il web di spiegazioni dettagliate: per comodità, le riporto velocemente anche qui….magari c’è ancora qualcuno che non lo sa e, come facevo io all’inizio, li prepara uno per uno ritagliando le forme più strane!!

Ingredienti
Pasta sfoglia già pronta
Per i ripieni:
-wurstel
-cotto e mozzarella
-speck e provola
-zucchine grigliate/mozzarella e un pezzetto di acciuga
-mortadella e fontina
-stracchino e salsiccia
-broccoletti siciliani e salsiccia

Per le pizzette:
-salsa di pomodoro/ mozzarella/origano


Procedimento
Tagliare la sfoglia secondo le forme desiderate e farcirla a piacere.
Per i wurstel è sufficiente arrotolare la pasta tutto intorno, avendo cura di sigillarne bene i bordi
Per i cornetti: 

ricavare dalla sfoglia rotonda tanti spicchi, sistemare poco ripieno nella parte più larga dei triangoli così ottenuti, quindi arrotolarli partendo dall’alto e, una volta giunti alla fine, ripiegare i lati verso l’interno per formare il cornetto.

Cuocere a 200° (in forno già caldo) per circa 15-20 minuti, secondo il forno. Saranno pronti quando risulteranno di un bel colore dorato.


Consigli generali:
- attenzione alle ultime fasi della cottura perché con la sfoglia, passare dal “dorato” al “carbonizzato” è molto facile
- Si possono anche preparare in anticipo e cuocere all’ultimo: in questo caso la teglia va conservata in frigorifero coperta da pellicola fino al momento di infornare (lo shock termico anzi aiuta la sfoglia a gonfiarsi)
-         la mozzarella è sempre meglio tagliarla un po’ prima e metterla a scolare
-     i broccoletti si intendono ripassati in padella con aglio, olio e peperoncino
-         per le pizzette io faccio cuocere a parte per qualche minuto la salsa di pomodoro prima di cospargerne (moderatamente) i dischi di sfoglia: il pomodoro sarà così meno acido e meno forte.
-         ritagliando delle strisce abbastanza larghe di pasta, mettendoci sopra strisce di speck o prosciutto e attorcigliando il tutto è possibile ottenere grissinoni molto golosi, tipo questi (e pietà per la foto, ma è giusto per dare una vaghissima idea..)

-         qualsiasi ritaglio, o avanzo di pasta, buttato alla meno peggio in teglia senza farcia né altro condimento, costituisce già di per sé uno snack sfizioso.
-         Per renderli lucidi e ancora più belli, prima di infornare si spennellano con tuorlo d’uovo sbattuto…io non lo faccio mai.
-         Semi di papavero o di sesamo, foglioline di origano o di timo, polvere di paprika o di curry…tutto può contribuire ad abbellire, completare, personalizzare, conferire una marcia in più.



P.S.: fra i rustici, annovererei pure questi:

Quila ricetta

Il gioco è una cosa seria - Ciambellone ciocco-cocco allo yogurt

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Con  i bambini funziona così.
Le mamme lo sanno, ma anche le tate.
Queste ultime anzi, preposte a occuparsi di loro essenzialmente per il lato ludico di tutta la faccenda, oserei dire, sperando di non peccar di presunzione, che lo sanno ancora meglio.
Un gioco non è un gioco.
Un gioco diventa abitudine, rituale, piccola ossessione e reiterata mania.
Si va a periodi, e ci si immerge talmente tanto e con tutte le scarpe nelle varie questioni che tutte le ore di tutti i giorni di tutti i mesi di un intero anno, trascinati per mano dai piccoli gnomi, si fatica a credere di poter vivere in un mondo diverso.
C’è il periodo di Winnie Pooh, dove la cameretta non è più il luogo dove si va a dormire, ma il ben più attraente Bosco dei Centro Acri, dove puoi incontrare e interagire solo con i suoi abitanti e ogni mugugno, ogni sillaba a stento pronunciata, ogni gridolino entusiastico riporta inevitabilmente all’orsetto goloso (sempre alla ricerca di un vasetto di miele), all’asinello I-Ho (con vezzoso fiocco rosa sulla punta della coda che fa a cazzotti con il suo temperamento imbronciato e costantemente sull’orlo della depressione), al maialino Pimpi (e la sua voce in falsetto), al saltellante Tigro (tutt’altro che feroce), al saggio gufo Uffa (sempre con il libro sotto l’ala e pronto a raccontare storie), al previdente coniglio Tappo (che siccome nella vita non si sa mai, intanto si coltiva il suo orticello di carote), fino al piccolo canguro di nome Ro che anziché camminare o saltare come tutti i canguri del mondo, sonnecchia perlopiù nel marsupio della sua mamma (Canga, nota produttrice di fantasmagorici biscotti con gocce di cioccolato per tutta la banda).
(dal web)
Poi si cresce un po’ e si passa al periodo della macchinine, dei motori rombanti e delle gare fra bolidi, alle prese con la Piston Cup e ricevendo in dotazione, secondo l’umore gnomesco della giornata, al massimo uno sbrindellato Cicchetto
(dal web)
o un goffo, seppur simpatico, trabiccolo come Fillmore
(dal web)
 che certo non possono competere con lo scintillante Saetta mc Queen.
(dal web)
 Che almeno avessi avuto un Francesco Bernoulli,
(dal web)
me la sarei potuta giocare meglio, ma il punto è proprio quello: devo perdere. E fingermi costernata, abbattuta, sconfitta pesantemente.
(io comunque preferisco sempre  il giapponese Shu Todoroki ma soprattutto la di lui fidanzata, esperta danzatrice Kabuki).
(dal web)
Col passare del tempo, nel volgere dei mesi, si passa a giochi più impegnati, certificati, sostenuti da volumi, dispense e tomi a riguardo.
Tanto da guardarsi indietro con un pizzico di nostalgia, a quando i dialoghi erano soltanto un botta e risposta di due, quattro parole al massimo: “Ciao sono Pimpi!” “Ciao sono Tigro!!” “Giochiamo insieme?” “Sì!!”
Punto, che il vocabolario di un bimbo di 2 anni mica è tanto più esteso.
Ma poi lo diventa.
Si amplia, si arricchisce, si gonfia, si stratifica.
Ed è emozione pura.
Ma anche nuovo impegno.
I giochi si fanno sempre più seri.
(dal web)
Che maneggiare dinosauri non è questione da niente: bisogna sapere se sono erbivori e carnivori come minimo.
Se volano, nuotano o corrono.
Se dispongono di colli lunghi, corni appuntiti, placche ossee o protuberanze del cranio che li fanno sembrare panettoni venuti male, ma guai a dirlo.
Se combattono a testate, codate, morsi, zampate o beccate.
E poi essere pronti e molto preparati sui nomi.
Che va bene le grandi famiglie, ma la precisione innanzitutto ed è una bella differenza quella che intercorre tra un Triceratopo e un Protoceratopo.
E un Polacanto mica è uguale a un qualsiasi altro Ornitischio, pur se con qualche somiglianza (guardare, osservare, fermarsi a riflettere….non lo vedi che questo ha la coda con una specie di sasso all’estremità?!).
Imparare innanzitutto che, nonostante l’aspetto non proprio rassicurante, non sono “mostri” ma dinosauri, animali preistorici.
E ce ne sono di buoni e di cattivi.
Guai a provare a semplificare i nomi  ricorrendo a vezzeggiativi: un animale con zampe pinnate, bocca lunga e dentata, che vive nell’acqua non è un “coccodrillo” ma un Liopleurodonte.
Le protuberanze sulla schiena di uno Stegosauro non sono “spine” ma placche ossee.
Un Pachicefalosauro non ha uno scolapasta rovesciato in testa, come potrebbe sembrare di primo acchito, ma una conformazione cranica tale che gli consente di vincere i suoi nemici (e guai a chiamarla “cucuzzella”, quella testa lì).
Poi bisogna essere scaltri nello stabilire forza e potenza: un T-Rex avrà (quasi) sempre la meglio.
Tuttavia un branchiosauro col suo lunghissimo collo (sempre secondo i giorni e l’umore) potrebbe dargli del filo da torcere.
E se poi ci si imbatte nella visione di un film dedicato, che ha come protagonista un certo Aladar, può essere benissimo che un semplice Iguanodonte diventi di colpo il più forte di tutti.
Come? Con quali armi a disposizioni? Ma se è uno scricciolo al confronto?, verrebbe naturale a una mente adulta chiedere anche alterandosi un po’.
Un bambino però queste domande non se le pone, non si fa di questi problemi, non si arrovella in inutili cavilli.
È così e basta.
Almeno per oggi, poi domani è un altro giorno.
E intanto per quel giorno voi, anche se declassati e depotenziati, improvvisamente ridotti a mammolette e senza più un briciolo di appeal, potrete finalmente maneggiare un T-Rex o un brachiosauro: approfittatene!
Imparate i suoni, i richiami, i vocalizzi distinti per specie.
Siate pronti a venire corretti e riportati sulla retta via.
Sappiate che quando il branco si mette in fila è per andare a cercare acqua.
Non fate domande sciocche, non proponete giochi da poppanti.
Proposte come “mettiamo i dinosauri tutti in fila e li contiamo?” verranno accolte con sguardo compassionevole e qualche volta una carezza di conforto
Anche una concessione, a volte: “e vabbè, famola contenta questa va”, che certo non vi farà cantare vittoria.
Ma i giochi dei bambini insegnano tante cose:
la capacità di astrazione
la fantasia totalizzante
la leggerezza
la serietà delle cose più piccole, apparentemente futili
il qui e ora
Ed è un arricchimento costante.
Un unico rammarico alberga ancora di tanto in tanto nel mio animo inquieto.
Nella mia lunga carriera di tata, mi sono occupata di maschi e di femmine.
Ma queste ultime sempre secondogenite.
Bimbette specialissime e indipendenti.
Determinate e furbette.
Che ovviamente, essendo seconde, devono imparare presto a  cavarsela da sole, a farsi spazio, a guadagnare la loro dose di attenzioni e di gratificazioni.
Che con la scusa che “il grande è geloso” rischierebbero, altrimenti, di rimanere nell’ombra.
E quindi sono sempre pronte a rubare con gli occhi, ad assorbire dai fratelli maggiori, veri e propri eroi mitologici ai loro occhi, ogni gesto, ogni azione, ogni piccolo particolare che possa farle assurgere allo stesso livello di prestigio, con la capacità straordinaria però di lasciar andare quello che non serve.
Quanto più i fratelli maggiori sono accentratori e all’occorrenza piagnucolosi, tanto più loro saranno scaltre, intraprendenti, oltremodo simpatiche e all’occorrenza anche un po’ cinichelle.
(L’eroe sta piangendo? ok, è il momento giusto per fregargli il suo dinosauro preferito e scappare!)
E di certo non si piegheranno a giocare con un bambolotto, un servizio di tazzine di porcellana o le pentoline con la frutta e la verdura di stoffa dell’ikea.
Per essere proprio al passo con i fratelli maggiori, saltando a piè pari la fase del Bosco dei Cento Acri devono, anche loro, imparare presto a destreggiarsi con dinosauri, brandendoli come armi letali e accompagnando ogni gesto con sonori e cavernosi ruggiti.
Pur con l’aria angelica e i boccoli al vento.
È per questo che continua, negli anni, a rimanere frustrato il mio desiderio di armeggiare nuovamente una Barbie.

Con tutti i suoi vestiti, le scarpe, gli accessori, il camper e la casa rosa a 3 piani.
Ken e Skipper a fare da contorno.
Le bambine moderne non ci giocano più.
Mica come noi che creavamo un vestito da sposa con i tulle delle bomboniere e scintillanti abiti da sera con i fazzoletti di stoffa delle nonne.
Certo, se fossi stata bambina in questa epoca, avrei esagerato proprio e la mia Barbie l'avrei portata pure da questo parrucchiere/salone di bellezza per bambole che ho visto a New York!



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Niente di particolarmente innovativo rispetto a una 7 vasetti, che come al solito da queste parti diventano 9, 10, in alcuni casi pure 11….ma la torta allo yogurt è di quelle che non tradiscono mai, che tornanoutili in tante situazioni, che puoi declinarle in mille modi diversi senza stancarti mai.
Perfino farci una "Sacher"
Una premessa è doverosa: la parte cioccolatosa, nel caso di questa torta è veramente accessoria e se ne potrebbe tranquillamente fare a meno, soprattutto per i puristi dei sapori delicati e a maggior ragione per gli amanti del cocco.
È che un po’ di cioccolato non guasta mai, ma già da sola, è così buona, così profumata, così morbida che tra colazione, merenda e confortini vari, tempo una giornata e finisce: garantito.

Ingredienti (per uno stampo da 26 cmdi diametro)
- 4 uova intere
- 2 vasetti di yogurt al cocco (imbattibile quello della marca che “fa l’amore col sapore….”)
- 3 vasetti di farina 00
- 2 vasetti di farina di cocco
- 2 vasetti di zucchero
- 2 cucchiai colmi di cacao amaro in polvere
- 1 vasetto di olio di semi di girasole
- 1 bustina di lievito in polvere
- 1 bustina di vanillina
- 1 pizzico di sale

Procedimento
Preriscaldare il forno a 170°. In una ciotola capiente sbattere molto bene le uova con lo zucchero e il pizzico di sale finché non diventano bianche e spumose. Unire lo yogurt e il latte, quindi aggiungere progressivamente la farina setacciata con il lievito e la vanillina, continuando a mescolare. Aggiungere da ultimo il cocco e versare il composto in uno stampo oliato e infarinato, lasciandone 1/3 nella ciotola.
Amalgamare a questa piccola parte i due cucchiai di cacao e versare sopra il composto bianco. Cuocere per circa 35-40 minuti, secondo il forno.
Fare sempre la prova stecchino.




Ai confini della realtà – Biscotti di maionese dell’Arabafelice

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Mai l’avrei creduto possibile, eppure esistono anche quelli.
Ho avuto bisogno di tempo per farmene una ragione e di (molto) altro tempo ancora per decidermi a farli.
Tuttora comunque mi chiedo come sia possibile.
Che sì è vero che in fondo la maionese non è altro che un miscuglio di uova, olio e un po’ di succo di limone (o aceto).
Ma io finora l’avevo al massimo spalmata su una fetta di pancarré per farci un tramezzino o mischiata a una scatoletta di tonno per infilare poi tutto dentro una rosetta, guarnire con fette di pomodoro e preparare così il mio panino preferito.
La salsa rosa per i gamberetti, toh.
I ghirigori per il vitello tonnato.
Il condimento base dell’insalata russa o di quella di pollo.
Ma farci dei biscotti mi sembrava proprio una stranezza.
Siccome però le stranezze sono le prime cose che mi sento in dovere quasi morale di provare, non potevo esimermi proprio stavolta.
L’ho letta quella ricetta
L’ho riletta, copiata, appuntata, riscritta in bella copia su un quaderno e meditata a lungo.
Manco si trattasse di creare una pozione magica in un laboratorio stregonesco.
Che poi lo so che con le sue ricette si va sul sicuro, riescono sempre, non tradiscono mai: non era questo il mio problema.
È che funziona così: prima di buttarmi mi piace godermi l’attesa.
Immaginare, soppesare, fantasticare.
Provare a figurarmi il risultato.
Nel caso specifico però non mi riusciva proprio di arrivare fino in fondo.
Mi fermavo all’idea di impastare, formare i biscotti, infornare.
Poi però, di quale sapore potessero avere non riuscivo a farmi un’idea neppure vaga e lontana.
Nemmeno durante la preparazione.
Perché mentre impastavo sentivo che l’odore non era granché.
L’aroma di maionese si sentiva eccome, e non è che riuscissi proprio ad associarla a un dolce.
Infatti non ho avuto nemmeno la tentazione di assaggiare l’impasto come sempre accade.
Proprio non mi attirava.
Nemmeno in cottura l’odore era così allettante.
Odore di grassiccio perlopiù, ma nessuna fragranza di biscotto, profumo delicato di vaniglia, odorino caratteristico di dolcetti coccolosi.
Non mi è costato fatica nemmeno resistere alla tentazione di assaggiarli appena sfornati come si raccomanda l’autrice della ricetta.
Confesso: mi mancava il coraggio.
E me ne sono andata al lavoro così: lasciandoli sulla gratella a raffreddare.
Continuando a pensarci per tutto il pomeriggio.
Tanto che poco prima di rincasare sono entrata in fibrillazione.
Non vedevo l’ora.
Non potevo resistere un minuto di più ad afferrarne uno e scoprire finalmente di che sa un biscotto di maionese.
Ebbene.
Certamente non di maionese.
Ma la consistenza è sicuramente quella che mi ha stupito di più: è vero che si sciolgono in bocca, che sembrano pasticcini di frolla montata.
Nuvole di gusto.
E nessuno mai potrebbe immaginare cosa ci sia dentro.
Poco dolci, ma basta aumentare di poco la quantità di zucchero, volendo.
Come prima volta non ho cambiato una sola virgola della ricetta, ma la prossima una piccola aggiunta la faccio: aroma di vaniglia.
Ecco, mi mancava questo.
Per il resto: conquistata, rapita, stesa al primo assaggio!
Io e tutti gli scettici inorriditi che solo un momento prima di rivelare l’ingrediente segreto rubavano un biscotto dopo l’altro mugugnando di piacere….
Ha ragione Stefania: non rivelate prima di cosa si tratta, lasciate che si abbuffino, apprezzino, si sdilinquiscano in apprezzamenti...
 e solo dopo, confessate candidamente.

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Ingredienti (per circa 20 biscotti)
100 gdi burro freddo
90 gdi maionese fredda (io comprata)
40 gdi zucchero semolato
270-290 gdi farina, circa (a me ne sono serviti esattamente 290 gr)
altro zucchero semolato, per la copertura

Procedimento
Tagliare il burro in pezzi piccoli e montarlo con lo zucchero semolato per alcuni minuti, fino a ridurlo in crema.
Unire ora la maionese, girando con una spatola e non più con le fruste.
Piano piano, cominciare a incorporare la farina, lavorando inizialmente con un cucchiaio e poi a mano, via via che l'impasto prende consistenza.
A seconda della maionese usata, più o meno densa, cambierà leggermente il quantitativo di farina da utilizzare: regolatevi, dovrete ottenere un panetto morbido ma non appiccicoso.
Avvolgere l'impasto nella pellicola e farlo riposare 20 minuti in frigo.
Preriscaldare quindi il forno a 190 gradi.
Con le mani modellare delle palline da appiattire e incidere con una forchetta (oppure dei cilindretti).
Rotolarli nello zucchero, disporli su una placca ricoperta di carta forno e cuocere per circa 10-13 minuti secondo il forno.

Quando i bordi inizieranno a dorarsi sono pronti.


Araba si raccomanda di non toccarli assolutamente finché non saranno completamente freddi perché appena sfornati sono fragili e poi perchè il sapore definitivo lo acquisteranno solo dopo aver riposato un po’.



Vecchia ricetta per nuovo contest - Mousse di Tofu ai frutti di bosco

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E dopo mesi e mesi di inattività su questo fronte, eccomi a riesumare una vecchia ricetta per partecipare a un contest molto carino.
Innanzitutto per il colore, che mi piace tanto.
E perché dà la possibilità di partecipare anche con ricette già pubblicate.
Senza nemmeno l'obbligo di ripubblicarle!!
Ma io un post ce lo faccio lo stesso.

Piccolo, fatto giusto di un paio di foto e un link, dover poter andare a ripescare la ricetta.
Facile, pratico, veloce.
C'è tempo fino al 16 Aprile!
Da Lei

Faccia tosta - Frittata (al forno) di broccoletti e prosciutto

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Succede sempre così prima di una partenza.
Che le cose lineari non fanno per me.
C’è l’euforia, certo, ma anche quella sottile vena nostalgica.
C’è l’eccitazione dei bagagli, naturalmente, ma anche l’ansia di scordarsi qualcosa.
C’è la mente già proiettata agli ideogrammi, alle pagode e alle tante ore di aereo, ma anche tutto quello che c’è da sistemare prima di partire.
La frutta sul balcone.
Il frigo.
L’acqua alle piante.
(il cambio di stagione agli armadi lo faccio prima o dopo? E l’hennè ai capelli?)
Ricarica il telefono, attiva la promozione per chiamare dall’estero.
Verifica voli, spostamenti, prenotazioni, documenti, il visto di entrata.
Email di conferma, altre di variazioni voli, ripianifica tutto, fai coincidere tutto.
Luce, gas, corrente elettrica.
Poni un freno ai non meglio specificati disturbi psicosomatici o di varia e vasta natura.
In origine, circa due settimane fa, era il mal di denti.
E tutta la tarantella delle decisioni in merito:
Vado dal dentista?
Non ci vado?
E se poi peggiora?
Ma sì passerà.
Finché, miracolosamente, come è venuto, così è passato.
Che la carie rimane, ma in realtà non fa male.
Era solo ansia…
Quindi è stata la volta di tutti gli annessi e connessi di quella simpatica carogna della colite, che per carità, è compagna fedelissima di tutto l’anno, ma in prossimità di eventi e appuntamenti importanti naturalmente pretende l’esclusiva e reclama attenzioni.
Si fa notare insomma.
E allora via di fermenti lattici e comportamenti alimentari più sani possibile (basta co sti kinder bueno)
Ma anche accurate riflessioni in merito
Mi porto solo i tubetti omeopatici di gocce e dosi uniche?
O infilo in valigia pure una scatola di buscopan?
E il gastroprotettore vogliamo lasciarlo qua?
Metti che devo prendere un oki?
Già che ci siamo mi porto pure una scatola di Imodium che tanto lo so che non lo prenderei mai, ma averlo dà sicurezza.
Infine c’è l’apoteosi dei disturbi reali, tra germi, virus e batteri, da beccarsi giusto giusto un attimo prima di varcare il gate di imbarco.
Beh, lavorare con i bambini di certo non aiuta.
Mal di gola
Raffreddore
Qualche lineetta di febbre.
Suggerimento dell’amato bene al primo starnuto: prendi l’antibiotico!
Per un raffreddore?!
Perché io sono sì quella che parte con un trolley a parte pieno solo di medicine tradizionali e rimedi naturali; garze, cerotti, termometri digitali (che quelli al mercurio sono vietati) e compresse di cloro per depurare l’acqua; cerotti antinausea, pastiglie per il mal d’auto e creme doposole per le scottature pure se deve andare al polo.
Ma sono pure quella che torna con il medesimo trolley intonso, senza aver mai usato niente neppure in caso di necessità.
Perché le medicine mica si usano così, alla leggera.
Basta averle con sé…
Ma con criterio:
Le scatolette nel bagaglio da stiva.
I foglietti illustrativi nello zaino a bordo, che metti che ti perdono la valigia, come gliele chiedi quelle medicine in un paese straniero?
……….
Matta?
Mah, forse un po’, del resto il termine si presta a varie interpretazioni.
Ipocondriaca?
Non più di tanto: parlo parlo, ma poi mi affido al massimo al miele come antibiotico naturale.
La verità è che tutto questo lavorio mentale in realtà non nasconde altro che una grande eccitazione.
Una gioia incontenibile.
Un’emozione che non trova altro modo di sgorgare se non infilandosi in cunicoli angusti e impensabili.
Prendendola molto alla larga.
Imboccando vie tortuose, solcando salite impervie, assumendo volti nuovi.
Un altro viaggio, un altro mondo da scoprire.
L’incapacità di dare tutto questo, anche dopo tanti viaggi, desolatamente per scontato.
E vivere sempre tutto come fosse la prima volta.
Il primo decollo, il primo atterraggio.
Anche dopo 40 anni di vagabondaggi.
Anche se la prima volta è stata a 3 anni.
Qualche senso di colpa, un po’ di malinconia, un velo di ansia.
Che pure per essere felici, signori, di questi tempi ci vuole una gran bella faccia tosta.


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Le dosi sono un po’ a occhio e secondo quello che ci si trova in frigo al momento.
Il pretesto è stato quello di voler provare questa ricettaqua (grazie Fede, a te e alla tua amica di cui ho scoperto il bellissimo blog!);
il vero motivo scatenante una quintalata di broccoletti capati, lessati e consegnati a domicilio da mamma, che dopo averli mangiati semplicemente conditi con olio e limone, ripassati in padella, mischiati al macinato per le polpette, a meno di volerli impiegare come impacchi antirughe, era assolutamente necessario tirar fuori qualche altra idea.
Tra l’altro una frittata al forno non l’avevo mai cotta. Anche perché non è che mi piacciano tanto le uova…ma così conciate potrei perfino iniziare ad amarle..
E questo è quanto.

Ingredienti (per 2)
Un piatto fondo colmo di broccoletti lessati
4 uova
6-7 fettine di prosciutto di montagna
2 cucchiai di pecorino romano
1 spicchio d’aglio
Olio extravergine d’oliva
Peperoncino
Sale

Procedimento
Tagliuzzare grossolanamente i broccoletti e farli saltare in padella con aglio, olio e peperoncino.
Nel frattempo sbattere le uova con poco sale e il pecorino, quindi unirvi il prosciutto tagliato a listerelle e i broccoli. Mescolare bene e rovesciare tutto in una teglia piccola spennellata di olio.

Livellare il composto e cuocere in forno a 190° per una ventina di minuti, o comunque fino a  quando la superficie non inizierà a prendere un bel colore dorato.

Ciao, a presto! 再见

Flashback – Viaggio dall’altra parte del mondo

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Parte, a ritroso, da una valigia aperta
ma ancora solo parzialmente disfatta.
E una fila di scarpe da ginnastica stese ad asciugare.
Dagli zaini, gocciolanti, appesi per le bretelle.
E dalle innumerevoli cianfrusaglie riportate.
Dal ricordo di tutti gli input visivi, olfattivi e acustici da cui si è stati bombardati.
E dei quali poi si avverte la mancanza.
Il dialetto dai suoni aspri e sincopati della zona di Pechino e quello musicale e cantilenante di Shanghai e Hong Kong.
Suoni incomprensibili, così come tutte le scritte 
e le insegne 
e gli avvisi 
e le indicazioni stradali

non sono altro che un insieme misterioso di segni grafici dal significato assolutamente oscuro.
Si va a intuito, ci si appiglia a qualche indizio, ci si affida alle mappe scaricate sul tablet che recano i toponimi anche in alfabeto latino.
Ma la Cinanon è tutta mappata e per certe zone, anche delle grandi città, ti devi arrangiare.
Poi, ogni tanto, si riconosce con sollievo, qualche icona nota.
O meno nota ma intuibile
E si accetta subito che la comunicazione, almeno verbale, con i locali è impossibile.
Allora impari a "parlare" a gesti, sguardi, sorrisi e capisci che le barriere da superare sono solo quelle mentali, perché poi il resto lo fa la disponibilità reciproca.
Nessuno, o quasi, parla inglese.
Lo sapevamo questo, ma trovarcisi è un’altra storia.
Fa aguzzare l’ingegno e regala la sensazione di un viaggio, per certi versi, ancora più selvaggio di quello nella savana del Kruger.
Nemmeno nei ristoranti, dove per mangiare ci si limita a indicare i piatti dei vicini di tavolo oppure foto che molto spesso sono solo un vago indizio di quello che sarà il piatto ordinato.
Ma scopri che (quasi sempre) è buonissimo lo stesso, e che aspettarsi una cosa e vedersene recapitare un’altra è servito a far crescere il tuo bagaglio di conoscenza.
Impari subito che l’acqua in bottiglia è la cosa più difficile da ottenere: meglio chiedere un tè, della birra, il vino.
Oppure portartela dietro dopo averla acquistata al supermercato, che tanto nessuno ci farà caso o si stupirà di questo.
Perché la parola waterè sconosciuta.
E inoltre non è proprio usanza servirla ai pasti.
Appena preso posto si verrà forniti di un bicchiere di acqua bollente, in cui poter mettere foglie essiccate, bustine, infusi portati da casa.
(ma la prima volta il dubbio che servisse per lavarcisi le mani ci ha sfiorati..)
Oppure, nei ristoranti di livello leggermente superiore, direttamente di un bicchiere di tè.
Un viaggio in Cina, in autonomia, senza guida, né la rassicurante protezione del tour di gruppo, pone subito nella consapevolezza di essere veramente soli e di doversi più che mai “adattare”.
A mangiare con le bacchette per esempio, 
perché nessun ristorante ti fornisce l’apparecchiatura cui siamo abituati: tovaglia, tovagliolo, coltello, forchetta, piatti e  bicchieri.
La mise en place sarà: un piattino, una ciotolina, un paio di bacchette a testa e il bicchiere di acqua bollente.
Ogni tanto qualche cucchiaio per le zuppe, ma di quelli cinesi, corti e larghi.
E scopri che è giusto questione di allenamento dei muscoli della mano (che all’inizio reclamano un po’), perché necessità fa virtù e in poco tempo impari a destreggiarti anche con funghi scivolosi e spaghetti di soia chilometrici.
Impari che esistono cibi diversi

lontani dal nostro palato

 a volte molto lontani
e altri sempre distanti ma assolutamente sublimi, come l’infinita varietà di Dumplings, 

i ravioli, 

realizzati in tutti i modi, 

uno più buono dell’altro.

Ti rassegni al fatto che i dolci, nella cucina locale, non esistono (a parte quelli confezionati e importati o venduti nelle catene internazionali), non nel senso in cui li intendiamo noi almeno.
E che però a non mancare mai saranno le pietanze a base di tè verde,
dal gelato
alle torte
poco zuccherine, che pochissimo appagheranno la voglia di dessert, ma apriranno scenari inaspettati…
Di palline che sembrano ghiaccio e invece sono montagne di gelatina.

Di composti che sembrano creme e invece sono salse di soia al delicato aroma di vaniglia.
Di un ammasso attraente che sembra cioccolato (e già senti salire l’acquolina) e invece è pasta di sesamo.
..ma ci si può sempre consolare con spiedini di frutta caramellata venduti a ogni angolo di strada.
Quelli sì, da picco glicemico solo a guardarli.
Si impara a mettersi in fila indiana per prendere l’autobus,

 pur trovandolo stranissimo per la fiumana di gente che ogni secondo attraversa ogni singolo angolo della città.

Un formicaio umano in moto perpetuo che però vive di regole molto precise e incontrovertibili: davanti alle fermate ci si comporta civilmente!
A capire la segnaletica davanti alle porte della metropolitana: 

ci si dispone su due file parallele ai lati e in mezzo si lascia il posto per quelli che devono scendere.
Salvo poi scoprire a proprie spese che queste regole valgono solo per la salita, mentre al momento dell’arresto del mezzo bisogna aver cura di non trovarsi mai davanti alla porta inutilmente: si verrà trascinati inesorabilmente fuori dalla suddetta fiumana pressante e sgomitante
(allora diventa obbligatorio darsi regole personali: se ci perdiamo ci vediamo là)
Passeggiare nei parchi e scoprire che sono pieni, di giorno così come di sera col buio, di persone che in gruppo





o da sole


praticano Tai Chi,
si allenano con le spade, 

ripassano passi di danza 

o semplicemente eseguono coreografie sulle note dolci emesse da un piccolo, gracchiante, stereo portatile, stile anni ‘80.

Stupirsi di come le uniche due facce bianche in un mare di visi gialli passino assolutamente inosservate. 
Nessuno sembra far caso a noi due.
E si ha la sensazione di essere naturalmente parte integrante di tutto il consesso.
Imparare che non sempre le strade si possono attraversare e se la cartina indica di andare dritto per una certa via può essere che si debba fare tutto un percorso a ostacoli per passare da un punto all’altro, pur vicinissimi: ci sono sottopassaggi, sopraelevate, 

passerelle pedonali che uniscono un grattacielo all’altro.

Si scoprono presto i tortuosi percorsi in metropolitana: prendo la rossa, scendo a quella fermata poi cambio con la blu.
Ma magari all’inizio non sai che sotto alla metropolitana c’è una città parallela fatta di negozi, fast food, supermercati e lunghe, lunghissime, interminabili vie che collegano una stazione all’altra.
Passi da un mezzo di trasporto ipertecnologico,

ad altri decisamente più vecchiotti

tradizionali

o semplicemente pratici

(non si vedono tutti, ma i passeggeri sono 5!)
Da un paesaggio fatto di grattacieli che sfidano la forza di gravità, 
abbarbicati come sono, anche sulle pendici di una montagna,

alle case di lamiera di un villaggio di pescatori

da opere ingegneristiche sempre più ambiziose

a giardini fatti di laghetti e pagode

dalla poesia di strade millenarie
alla fascinazione di moderni parchi giochi, parimenti intramontabili nella loro magia.

Da un tetto di eteree lanterne

ad ammassi scintillanti di luci al neon
dove sembra sempre capodanno.
Ti diverti a curiosare nei coloratissimi e straripanti negozi di cineserie (non per niente) 

e a scoprire che sono proprio le cose più inutili, più assurde, più impensabili ad andare per la maggiore.
Comprese macchinine telecomandate che camminano in verticale sui muri e uccellini di plastica che cinguettano da dentro una gabbia.
Che anche la moda, a volte, ha qualche piccolo particolare discutibile.

Forse un po' eccessivo


magari lievemente kitsch


Che, all'opposto della abitazioni,  i fiori
e le piante
crescono in in orizzontale...su piani verticali!
Che le funivie passano a strapiombo sul mare,
 e fanno anche loro, percorsi lunghissimi e tortuosi.
Ci si inebria del profumo di incenso davanti ai templi 

E si rimane incantati davanti alla magnificenza delle loro statue.

Fino poi a scoprire che in fondo tutto il mondo è paese.
Che anche lontano, anche dall’altra parte del mondo, magari in  modo leggermente diverso 


e solo poco più acrobatico del nostro, 
si stendono i panni,
ci si sposa

magari in modo più scenografico e colorato



e si vanno a  fare le foto prima del pranzo con i parenti

Ti porti dietro come al solito un pezzo di casa

E prendi il caffè davanti a un panorama di mare e grattacieli
E scopri che durante ogni singolo momento di questo viaggio non hai smesso di assorbire, incamerare, rubare con gli occhi.
Assaporando ogni suono, ogni colore, ogni raggio laser che parte costantemente dalla sommità dei grattacieli, manco fosse il passatempo più divertente del mondo.
Uno scalo lunghissimo a Francoforte sulla via del ritorno, che anche le 13 ore di volo precedenti diventano relative.
Il rifiuto di rimanere chiusi in aeroporto, pur essendo l'alba, ma col fuso orario è notte da 18 ore e la fame si fa sentire. 
Il treno per il centro, 
giusto il tempo di una boccata d'aria, un bretzel 
e un panino con il wurstel.
Poi, l'ennesimo portellone che si richiude

E via, un altro viaggio è andato.



Pechino: due cuori e un Hutong

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Pensare a Pechino come a una città romantica era l’ultima cosa che mi aspettassi.
Eppure io l’ho percepita esattamente così.
Una città immensa, con cui già dall’aereo, e molto prima che tocchi terra, inizi a prendere le misure, cercando di abbracciarne i confini e perdendoti invece nei  suoi agglomerati di palazzi e immensi quartieri periferici, che la pista d'atterraggio pare esserne stata inghiottita.
Pur sconfinata però alla fine il suo cuore è racchiuso in una pianta ordinata e schematica al centro della quale svetta la smisurata Piazza Tian’anmén racchiusa (si fa per dire) fra i due imponenti complessi della Città proibita, ben isolata dal resto della città da un fossato largo 52 metri
e del Mausoleo del Presidente Mao.
Una buona mezza giornata per visitare la prima. La solennità del sito, residenza degli imperatori Ming e Qing,  interdetto ai comuni cittadini per ben 500 anni (ecco perché “proibita”!), fino alla fondazione della Repubblica, è evidente già nello schieramento delle guardie all’entrata,

davanti alla imponente Porta della Pace Celeste su cui campeggia un enorme ritratto di Mao Zedong.
Appena dentro si ha la sensazione di trovarsi nel film di Bertolucci e di vedere spuntare da un momento all’altro la sagoma del piccolo imperatore,

 suggestionati forse, anche dai nomi dolci ed evocativi di tutti gli edifici che la compongono: il Palazzo dell’Armonia Suprema (e a seguire quelli dell’Armonia Protetta e Perfetta); quello del Nutrimento dello Spirito, fino ad arrivare al complesso dei 10 piccoli templi buddisti, con il loro Padiglione della Pioggia dei Fiori e quello delle Nuvole profumate.
Davvero un tuffo nel passato, immersi in questa residenza degli imperatori che solo girandola a piedi rivela il senso vero del suo nome: le distanze sono abissali, è propria una città nella città.

Una volta fuori, diversi controlli di metal detector attendono i visitatori prima di poter accedere alla Piazza simbolo di Beijing e una volta oltrepassatali tutti, al suo interno si è comunque circondati di polizia, guardie di vario genere, e militari addestrati a marciare in modo da compiere esattamente 108 passi al minuto della lunghezza di 75 cm ciascuno….tanto per non lasciare proprio nulla al caso.

Non si sono panchine, a evitare che ci si fermi troppo a lungo.
Molto difficile invece accedere al Mausoleo, per le enormi file che si snodano davanti all’entrata, specie dalle 8 alle 12 quando espongono la salma del presidente.

Ci accontentiamo di vedere la struttura da fuori e girandole le spalle ci accorgiamo che Piazza Tian’anmén è talmente grande e lunga che da dove ci troviamo riusciamo a malapena a scorgere la sagoma della dirimpettaia Città Proibita!

Non per niente è la piazza pubblica più grande del mondo con i suoi 440.000 metri quadrati.
Ma forse sarà anche colpa dello smog, evidente nell’alone denso che sembra circondare il sole già alle 10 di mattina…

Gli Hutong invece sono i vicoli storici (in gran parte andati distrutti nel fervore ideologico degli anni 50 e 60 e successivamente recuperati) dove sorgono le antiche case a corte, molte delle quali oggi trasformate in b&b e piccoli hotel dal fascino irresistibile.
Quasi tutti, secondo i principi del Feng Shui, corrono da est a ovest, in modo che la porta principale delle case sia rivolta a sud e ci si assicuri in questo modo l’esposizione al sole e la protezione dalle forze negative provenienti da nord.
Una di questa era la “nostra”, piccola oasi di pace all’interno di un microcosmo pullulante di mezzi e persone.

Incredibile come nel gioco di casette e cortili che si snodano uno dentro l’altro non arrivi nemmeno l’eco di tutto il trambusto esterno.

Un letto tradizionale cinese, 
la veranda tutta per noi.

(per chi volesse farci un pensierino: Courtyard 7, No. 7 Qian GulouYuan Lane, Dongcheng District, Beijing; www.courtyard7.com; volendo, per 220 yuan – approssimativamente 25 euro – vengono a prendervi direttamente in aeroporto e come primissimo impatto con la città e con la folla degli hutong , specie se, come nel nostro caso, questo avviene di sabato pomeriggio, è una soluzione straconsigliata! Verrà a prendervi con la macchina, un tizio che si esprimerà a gesti, non parlando mezza parola di inglese, ma sarà in grado di condurvi sani e salvi fin dentro il cuore pulsante dell’hutong principale, scaricandovi armi e bagagli in un angoletto in cui avrete l’impressione di essere stati catapultati in un formicaio impazzito dove non c’è neanche lo spazio per cadere, ma dove entro pochi minuti correrà a prelevarvi un addetto della reception per condurvi fuori dalla bolgia infernale… perchè in certi punti si arriva solo a piedi!)
Tutto intorno, oltre il muro del cortile: negozietti alternativi, che vendono di tutto, dai peluche giganti al formaggio mongolo.
Localini in cui mangiare, piccole caffetterie, bancarelle di studenti che il sabato e la domenica vendono abiti usati, oggetti fatti a mano, cinture, cappelli, sculture di latta e fiori all’uncinetto.
E poi gli adesivi: interi pannelli di adesivi (dai personaggi dei cartoni animati ai disegni stilizzati) che paiono riscuotete un successo senza pari tra bambini e adulti.
L’hutong più famoso è Nan Luo Gu Xiang, “Vicolo Sud del Gong e del Tamburo” , teatro, dal pomeriggio fino a sera inoltrata, di uno struscio continuo di giovani che passeggiano, mangiano, fotografano, si divertono a curiosare fra bancarelle e negozietti.
A rendere romantica l’atmosfera di Pechino è innanzitutto la sua aria antica, la tradizione che trasuda da ogni oggetto e l’impronta delle dinastie che l’hanno dominata che traspare da ogni particolare architettonico.
Il senso di pericolo o disagio nel camminare in una città sconosciuta e tanto distante dalla nostra cultura non ci sfiora nemmeno alle 11 di sera, con l’illuminazione scarsa quando, calcolando male le abissali distanze, camminiamo per oltre un’ora per tornare all’ovile.
Romantici sono gli innumerevoli parchi di cui è disseminata (e peccato per il clima) e in cui si rivela piacevole trascorrere anche un’intera giornata, semplicemente passeggiando o ascoltando una canzone dopo l’altra, perché tante persone in questa città paiono amare la musica e ascoltarla da piccole radioline portatili, in un’allegra condivisione e commistione di note.
Altro che auricolari e Mp3!
Basta una visita al Parco Beihai, in gran parte occupato dal “Mare del Nord”, ossia un lago ghiacciato in inverno e punteggiato di fiori di loto in estate, per rendersene conto.
Oppure è sufficiente decidere di andare a visitare l’imperdibile Parco del Tempio del Cielo

comprensivo di tanti altri edifici dai nomi evocativi come il Padiglione del Macello degli animali, il Tempio della preghiera per un buon raccolto, il Muro dell’Eco e via dicendo.
E poi sono i nomi dolci e armoniosi con i quali viene indicato ogni luogo e ogni oggetto.
Non semplici nomi, ma vere e proprie definizioni in cui entrano in gioco qualità e caratteristiche ben precise.
Evidenti e significativi soprattutto nel caso dei templi buddisti, taoisti e confuciani.
Il nostro primo impatto con la pratica della fede buddista è quello all’interno dello splendido Tempio dei Lama, il più famoso dei templi buddisti tibetani che sorgono al di fuori del Tibet, luogo di culto ancora attivo e fortemente suggestivo soprattutto capitandoci di domenica quando è pieno di gente che viene a pregare, e tributare offerte in incenso, mele, biscotti, bottiglie d’acqua deposte con fervore davanti alle varie statue, dislocate nei diversi templi che, gradualmente, conducono a quello finale, con una statua di Buddha, alta 18 metri, scolpita in un blocco unico di legno di sandalo.
Davanti all’imponenza e alla ricchezza di questi templi pare un po’ impallidire il vicino Tempio di Confucio, che è comunque interessante visitare, se non altro per il confronto.
Altra intera giornata richiede la visita accurata di quel luogo bucolico che è il Palazzo d’estate, residenza estiva per l’appunto, della corte imperiale.
Noi ce lo siamo girato in lungo e il largo, senza trascurarne nemmeno un angolo, scarpinando tutto il giorno per circumnavigare il Lago Kunming,
(in cui è attraccataperfino una barca di marmo 
e si estende un glorioso ponte a 17 archi)
 e andando su e giù per la Collinadella Longevità (...di chi sopravvive alla fatica di scalarla tutta)

disseminata di templi buddisti, 

per raggiungere i quali tocca mettere in conto pure ripide scalinate

 e lunghi ma fascinosissimi corridoi in legno.

La vista da lassù in ogni caso ripaga di ogni sacrificio!
L’unico aspetto che forse stride leggermente con tutto questo romanticismo e l'aura altamente scenografica è forse quello che pare essere lo sport nazionale di questo popolo, indifferentemente praticato da uomini e donne in qualsiasi luogo e circostanza si trovino: lo sputo a terra!
Veri e propri allenamenti preceduti anche da sonore pratiche espettoranti che costringono a guardarsi le spalle mentre si cammina e insegnano a essere lesti nello schivare e soprattutto nel decidere da che parte spostarsi...perché potrebbe essere quella sbagliata! 
Ma è questione di cultura, e dopo qualche attimo di perplessità ne prendiamo atto.
Tutti i nostri spostamenti li abbiamo fatti in metropolitana, facile e comoda da prendere, a parte dover passare al metal detector zaini e borse ogni volta che vi si accede.
L’unico caso in cui ci siamo affidati a una macchina con autista è stato (a parte all’arrivo, concordato via mail) quando siamo andati a visitare la Grande Muraglia

scegliendo il sito di Mutianyù (anziché quello più turistico e frequentato di Badàling) a 90 km dalla città e le Tombe dei Ming, escursione di un’intera giornata con un tizio (ovviamente cinese) estremamente discreto col quale, a parte cenni di saluti col capo, a ogni fermata, scambiavamo informazioni pratiche ed essenziali tipo “ci rivediamo fra 3 ore”, non a parole ma indicando il tempo sul quadrante dell’orologio.
Più tanti sorrisi e svariati cenni di assenso, come quello rivolto al nostro stupore di fronte allo stadio a forma di nido di rondine, tanto per confermarci che “sì sì, non v’agitate: è proprio lui!
A parte suggestivi siti storici e bucolici prati in fiore però, Beijing offre anche importanti esperienze gastronomiche ai confini della realtà, per vivere le quali basta recarsi nella parte nuova della città, oltrepassare l’occidentalissimo Mall at Oriental Plaza, imboccare decisi la Wangfujing Dajie, la via più alla moda della città, per poi lasciarsela quasi subito alle spalle puntando dritti verso la porta di legno oltre la quale si innalzano fumi e odori dei più vari.
L’odore del chòu dòufu, letteralmente “tofu puzzolente” (una varietà di tofu paragonabile – tanto per avere un’idea - al nostro gorgonzola, ma dall’odore molto, molto più acre) che sfrigola sulle piastre, unito alla visione di spiedini di cavallucci marine, stelle di mare, serpentelli, cicale e altri non meglio specificati insetti, 

inizialmente non aiuterà a lasciarsi andare ad assaggi, 
ma superato lo stupore iniziale, e preso il coraggio a quattro mani, è possibile lanciarsi, gomito a gomito con i cinesi del posto, in esperimenti che regaleranno grande soddisfazione ed estremo piacere:

dalla versione light degli involtini primavera, alle palle di pasta cresciuta con ripieno misterioso ma succulento; dagli spiedini di montone cosparsi di mille spezie al gelato al tè (verde, al gelsomino, alla menta) venduto a ogni angolo di strada passando attraverso gli immancabili spiedini di frutta caramellata

 e tante, tantissime altre prelibatezze.

Lo stesso fascino non lo rivestirà (almeno per noi) il mercato notturno di Donghuamén, versione ripulita e più turistica del primo.
Per il resto, seduti comodamente in localini spartani e dal fascino, diciamo così, un po’ retrò, dove con 7 euro in due mangi, bene e a sazietà, abbiamo provato, di volta in volta, l’ebbrezza di:

- quelli che a posteriori sono stati decretati come li mejo ravioli di tutto il viaggio, presso un tizio di cui purtroppo non ricordiamo il nome:
una cuccumella enorme di ravioli, da sfamare un esercito, al costo irrisorio di 1 euro e 50! Saporiti, succulenti, brodosi e dal ripieno indimenticabile.

- spaghettoni fatti a mano di Lanzhou, che sono spaghetti di soia solo molto più spessi, conditi variamente (nel nostro caso con gamberi, pollo e bambu)

- la specialità del posto, ovvero l’anatra dalla pechinese servita con una serie di ammennicoli vari come cipolla fresca, cetrioli e carote a julienne, più una salsa densa di colore marrone scuro dal sapore piuttosto impegnativo e una pila di sottilissime “piadine” in cui arrotolare il tutto.
 L’anatra è squisita, si scioglie in bocca e ha un sapore veramente gustoso, di tutto il resto si può tranquillamente fare a meno.

- un misto di funghi cinesi che, a parte la difficoltà di prenderli su con le bacchette, abbiamo trovato buonissimi

- e poi zuppe varie

- e  noodles di vario e  vasto genere come se piovesse
Ma non solo: anche la scoperta di un negozietto di questo tipo,

con conseguente assaggio di biscotti 

e tortine scelte puntando il dito a caso.

 E menomale che i cinesi non mangiano dolci! Ma scopriamo subito che niente qua è come sembra e anche i biscotti, anche le tortine sono dolci solo in apparenza: ripiene perlopiù di frutta, secca e fresca, pasta di sesamo, semi vari, di zuccheroso conserveranno giusto un lontano sentore e l’aspetto ingannevole.
Pechino è sicuramente molto più economica per mangiare rispetto a Shanghai, dove i prezzi si alzano anche se di poco e soprattutto a Hong Kong dove i costi si avvicinano molto a quelli occidentali.
 Sei giorni vissuti molto intensamente attimo dopo attimo e terminati con un viaggio in metro verso l’aeroporto nazionale e un volo prenotato con la China Eastern Airlines, compagnia che, dopo la duplice esperienza, ci sentiamo assolutamente di consigliare: puntuale ed efficiente, aerei enormi e supercomodi (i cui passeggeri erano perlopiù uomini d’affari in viaggio di lavoro), anche per una tratta così breve e soprattutto: la sorpresa di vedersi servire un pasto completo anche se nello spazio temporale di nemmeno due ore di volo. Noodles ovviamente…e perfino un cornetto gelato (sorta di cuore di panna cinese) prima di atterrare!!
Destinazione Shanghai….e un’altra avventura ci aspetta!




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