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Sudafrica per iniziare: Laggiù, nell’emisfero dove la luna è uno smile

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Amore è...dormire abbracciati in un letto di fango...

E niente, un discorso lineare e compiuto non esce, un racconto dettagliato di cosa-come-quandoproprio non mi si articola (ancora) nel cervello: le emozioni si affastellano una sull’altra premendo confusamente senza riuscire a districarsi.
Il fatto è che in Africa niente è semplice.
Nel bene e nel male.
O forse non siamo abituati a lasciar parlare la natura, a prendere a piene mani tutto l’impeto della sua voce: i suoni sconosciuti, i silenzi che rimbombano, il vento implacabile, la pioggia torrenziale, il sole che acceca, il freddo pungente della notte.
Tutto insieme, tutto nello stesso giorno, tutto nel volgere lento delle ore.
Estremi da cui si è sopraffatti, abituati come siamo alle placide vie di mezzo.
Come per esempio a poter godere di un tramonto tutto il tempo necessario ad assaporarlo.
In Africa i tramonti,

così come le albe,

sono infuocati,

abbacinanti,

travolgenti,

ma durano lo spazio di uno scatto.
Il cielo comincia a cambiare colore già dopo le 3 del pomeriggio, le tonalità si fanno più tenui,

 l’ocra abbraccia ogni cosa,

il caldo attenua la sua morsa, l’aria diventa più respirabile e una lieve brezza anticipa le temperature rigide della notte.
Poi la palla di fuoco diventa rossa. E in mezz’ora è tutto finito, il buio inghiotte tutto.
Al mattino il contrario: timide pennellate di rosa a fendere l’orizzonte e un attimo dopo la palla di fuoco a squarciarne il velo.
Gli zulu chiamano la parte del giorno che precede l’alba “uvivi”, che significa “oscurità prima dell’alba”. E nel sottobosco dello Zululand il buio si fa ancora più intenso proprio poco prima che all’orizzonte si affaccino i primi brandelli di luce.
In Africa il buio è un muro spesso e denso, che fa male agli occhi e genera inquietudine. Nessuna piccolissima luce a interromperlo, specie in quei campi-base in cui anche il generatore di corrente viene spento alle 10 di sera e riacceso solo il mattino successivo.
Difficile, all’inizio, digerire la mancanza di luce.
Pensi a questioni pratiche (devo farmi la doccia, lavarmi i denti, mettermi a letto prima che tolgano la luce), rimani abbarbicato alle tue abitudini da animale di città.
Ma dura poco, perché già dal secondo giorno quell’assoluta oscurità ti diventa amica, ti schiude le sue porte, ti affida in ottime mani, lasciandoti con l’unica, meravigliosa compagnia di un tappeto di stelle infinito e prorompente, specie nelle notti senza luna, in cui ti sembra quasi di esserne schiacciato, di poter agguantare a manciate tutta quella polvere d’argento sparsa sopra la testa.
E la luna, laggiù nell’altro emisfero, è una specie di smile: cresce in orizzontale, dal basso.

Viene su come un sorriso che nei giorni, a mano a mano che cresce, si fa sempre più pieno e largo.
Noi siamo abituati a vederla invece crescere dal lato. Piccole differenze, cui nemmeno si fa troppo caso.
Ma lì sì, perché non c’è altro (di artificiale) da guardare, dietro cui distrarsi.
Nemmeno il libro sul comodino, che la luce non c’è e la torcia, con la sua prepotenza che squarcia quel buio assoluto, attira gli insetti (….. “e gli insetti attirano le rane e le rane attirano i serpenti”…proverbio africano).
Nemmeno i fiumi sono come quelli europei, placidi e lineari, regolari e ben definiti.
E quando lo sono, è tutta apparenza…


In Africa i fiumi sembrano respirare e pulsare allo stesso ritmo vibrante di tutta la sua terra: si gonfiano, si espandono, si arricchiscono a ogni curva di nuovi affluenti, rivoli, torrentelli,


per poi venire giù con foga, 
Waterval Boven

articolandosi in cascate
Mac Mac Falls- Blyde River Canyon

 
Lisbon Falls
 e trascinare con sé tutto ciò che incontrano, cambiando volto al paesaggio, rendendo i loro confini ancora più frastagliati e inafferrabili.
Quasi a dire che sono quello ma anche altro.
Sono fiumi ma anche laghi, pozze in cui gli animali 




vanno ad abbeverarsi...o a fare il bagno

ma anche torrenti impetuosi che lambiscono

 e modellano rocce.


Poi improvvisamente vanno in secca, lasciano spazio a imponenti distese di sabbia, 

diventano deserti aridi e inospitali, costellati di dune, battuti dai venti, evitati dagli animali.

Ma niente, lì nel paesaggio africano, si cristallizza a lungo, e domani magari è tutto diverso da oggi.
Fermarsi in una radura, aguzzare la vista, e scoprire che non è un tronco caduto, quello che giace ai piedi di un albero.


Che solo restando fermi e mettendosi in ascolto, ci si accorge di essere ospiti (non sempre graditi) di un tratto di terra densamente abitata…


Che niente lì in Africa, è solo ciò che appare..
Uno scoglio è il dorso di un ippopotamo

Una foglia è un uccello

Un ramo secco è un insetto
Un tronco abbandonato è un coccodrillo.
Un sasso un po' più grande è un "lucertolone" che scava la sua tana

Due rami che svettano su un albero sono le corna di una giraffa

Un arbusto folto e grigio è un elefante, incredibilmente silenzioso e delicato.

Spesso, strano a dirsi, invisibile.
Ma tutto, nella natura selvaggia appare “strano”.
Perché la natura selvaggia cambia le carte in tavola, sovverte regole e convinzioni troppo “umane”, abbassa la cresta di convinzioni radicate e principi assoluti.
In pratica: rivolta l’anima come un calzino. E ti cambia la vita per sempre.



Sudafrica II: aspetti pratici e curiosità

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E dopo le prime impressioni poetiche e il nostalgico quadro d’insieme fin qui tracciato, ritrovata la favella, passerei agli aspetti tera-tera del nostro viaggio (casomai dovessero interessare qualcuno), includenti i posti  in cui abbiamo dormito (o abbiamo cercato di farlo..), ciò che abbiamo fatto, quello che abbiamo visto, che se semo magnati.
Partirei dall’itineriaio, da quei 4000 km solcati (che in origine dovevano essere solo la metà…equamente distribuiti tra l’amato bene: 3960, e la sottoscritta che ha valorosamente contribuito a coprire i restanti 40 con grande gaudio e pure suprema soddisfazione…).
Dall’aeroporto di Johannesburg(dove siamo approdati dopo un giorno e mezzo di viaggio di qui e di là, fra voli, scali, soste in aeroporti e suggestivo sorvolo della piana di Giza con fortunatissimo e  del tutto casuale oblò vista Sfinge e Piramidi), prelevata la macchina da San Budget, 

ci dirigiamo subito giù verso la costa,  passando per il gelido Free State dove ci fermiamo giusto una notte (di vento sferzante e  implacabile) all’interno del Golden Gate Highlands National Park,


per poi puntare in basso, verso la Elephant Coast(e climi più miti).
Sosta di un paio di notti nel villaggio (dalle piantagioni tropicali) di St.Lucia
 (dove si può tranquillamente uscire a mangiare di sera, a patto di stare attenti agli ippopotami che, proprio al calare del buio, gironzolano indisturbati per le vie del paesello… ma ci spiegano che basta ignorarli, non avvicinarsi troppo e non mettersi a correre o fare movimenti bruschi…tutto qua!), per una serie di progetti:
- visita accurata dello spettacolare Isimangaliso Wetland Park, riserva naturale patrimonio mondiale Unesco, dal nome dolcissimo che in lingua zulu, non a torto, significa “miracolo”.
- crociera (indimenticabile) di 2 ore sul fiume a vedere usi e costumi dei signori ippopotami;

- ammirare lo spettacolare estuario del fiume che si getta nell’Oceano Indiano
- spingerci poco oltre per affondare, almeno i piedi, nella interminabile spiaggia di Cape Vidal.

Ripartiamo alla volta dello Zululand, per la sosta di una notte (ancora gelida) in una tenda all’interno dell’ Hluhluwe-Imfolozi Parke concederci, casomai non fosse già abbastanza suggestivo così, il brivido di un safari notturno, ovviamente guidato, che lì, come in ogni altra riserva, dopo le 18 non si può più usare la macchina.
 Continuiamo quindi a risalire la regione del KwaZulu-Natal, costeggiando i confini dello Swaziland (ben delineati da recinti elettrificati e cartelli che ne segnalano la frontiera e pungolano la nostra tentazione più di una volta…), per dirigerci verso la magnifica regione dello Mpumalanga (“Luogo del sole nascente”), attraversando piccoli villaggi fra distese interminabili di pini, fino ad arrivare a Nelspruit (unica, vera città “moderna” in quelle zone prevalentemente rurali), che però vediamo solo di passaggio.
La nostra meta infatti è Sabie, altro piccolo villaggio abitato da molti olandesi, come punto di appoggio per 2 notti e altri piccoli grandi progetti:
- dormire in un letto caldo e comodo, tanto per cominciare
- visitare il Blyde River Canyon con tutte le sue cascate
- gironzolare per altri minuscoli ma caratteristici centri come Lyndenburg, Pilgrim’s Rest, antico villaggio di minatori e Graskop (col mitico Herry’s Pancake, che ritroveremo con gioia pure a Dullstrom).
Espletate tutte le pratiche, mangerecce e non, ripartiamo alla volta della tappa più lunga e importante, vero fulcro di tutto sto sbattimento: il Kruger (cui sarà d’uopo dedicare apposito post), sostando nella zona meridionale per i primi 3 giorni, spostandoci poi di 150 km verso la parte centrale per le restanti 3 notti e arrivando, da lì, fino al Tropico del Capricorno ma rinunciando (un pizzico a malincuore) a toccare Punda Maria, la sua parte più estrema, ai confini con lo Zimbabwe.
Usciti dal Kruger (un po’ frastornati da 6 giorni di full immersion nella natura e soprattutto un po’ restii all’idea di riprendere contatto con la fauna umana) riattraversiamo, questa volta sul versante opposto rispetto all’andata, le bellissime montagne del Drakensberg, passando per Dullstrom e fermandoci per la notte a 150 km da Johannesburg nel piccolissimo villaggio di Waterval Boven, per vedere altre cascate ancora (e ricominciare così a familiarizzare con l’idea di dover fare rientro…).

Le location

L’abilità grandissima ed innegabile del mio previdente consorte, tocca riconoscerglielo, è stata quella di saper alternare sapientemente sistemazioni spartane ad altre un po’ più comode, così, tanto per farmi riavere un po’, dopo magari una notte passata a sentir grattare roditori sul legno del pavimento o essermi infilata sotto le coperte con felpa cappuccio e doppi calzini per il freddo.
Suggestive e accoglienti Guest Houses:
Simpatici e calorosi B&B

Caratteristiche e funzionalissime rondavel (capanne circolari con tetto in paglia, tipiche dell’architettura africana)

(alcune delle quali dotate di angoli cottura attrezzati di tutto punto, meglio di casa nostra)

Avventurose seppur confortevoli tende.

Tutto in allegra compagnia 

e generosa condivisione, 

che lì in Africa non si è mai soli, 

nemmeno quando si crede di esserlo. 

Né di sera,

né di mattina a colazione.

Né di notte in stanza (o tenda che sia),

né di giorno in un qualsiasi altro posto.
Tanto vale abituarsi.

Note tecniche e qualche suggerimento:
Tutte le sistemazioni all’interno delle riserve (ad eccezione di quelle private) vanno prenotate direttamente attraverso il sito del San Parks (South African National Parks) che li comprende quasi tutti, è molto semplice da usare e offre la possibilità di scegliersi il tipo di sistemazione fra tende, cottage e rondavel, compresa la loro ubicazione all’interno dei campi. In alta stagione non è possibile alloggiare più di 10 giorni all’interno della stessa struttura e tenete presente che alcuni alloggi in posizione strategica, per esempio vista fiume (dove vanno ad abbeverarsi gli animali) a febbraio per settembre (che è bassa stagione!) erano già tutti esauriti!!!
I campi ovviamente si scelgono secondo l’itinerario e i giorni di permanenza nelle riserve, noi ci siamo trovati molto bene allo Skukuza e all’Olifants per quando riguarda il Kruger (ma col senno di poi, in alternativa a quest’ultimo, avremmo scelto Satara o Letaba per l’altissima concentrazione di animali, almeno nel periodo in cui siamo stati noi) e al ‘Mpila Camp per l’Imfolozi (quest’ultimo però non fa parte del San Park ma dell’Ezemwelo KwaZulu-Natal Wildlife).
Belli, organizzatissimi, regole chiare, e soluzioni intelligenti: quando si cambia campo le chiavi si lasciano in un’apposita cassettina prima di andarsene così non appena si aprono i cancelli al mattino si può uscire senza dover aspettare le 7 per l’apertura della reception.
Potrebbe sembrare eccessivo dover sottostare agli orari e alle regole ferree dei campi (le cucine del ristorante chiudono alle 21:30; in alcuni campi dalle 10 alle 7 del mattino successivo non c’è corrente elettrica; alle 18 chiudono i cancelli e si riaprono alle 6 del mattino successivo, ecc), ma è molto diverso alloggiare all’interno o all’esterno delle riserve. Dormire nella savana, sentire in lontananza il ruggito di un leone o la risata di una iena, rimanere immersi in quell’ambiente giorno e notte senza soluzione di continuità anche solo per una manciata di giorni è un’esperienza che, dormendo fuori per rientrare nelle riserve solo al mattino successivo (e fare tutta la trafila dei permessi e delle code), si vive solo al 50%.
Per tutto il resto, ci sentiamo tranquillamente di segnalare:
-St. Lucia Wetland’s Guest House
-Hillwatering Country House (Sabie)
-Acra retreat Mountain View(Waterval Boven)




Le strade, la gente, la sicurezza
Sempre il lungimirante consorte prima di partire s’era accuratamente scelto le vie da percorrere alternando autostrade, statali e mulattiere. Tutte sono abbastanza ben tenute, ma è bene sapere che sulle prime, un po’ diverse dalle nostre a cominciare dall’ampiezza, vigono regole un po’ bizzarre, del tipo:
- l’autostop è abitudine costante praticata in ogni fascia di età, dal ragazzo che torna da scuola, alle signore che vanno a fare la spesa, agli uomini che devono recarsi al lavoro o a cercarne uno: non disponendo di mezzi propri, la gran parte della popolazione si sposta così, contando sulla generosità di qualcuno di passaggio e saltando da una macchina all’altra.

 In alcuni tratti addirittura esistono apposite pensiline e “punti di raccolta”. Perfino i pick-up della polizia, tanto per dare il buon esempio, raccolgono persone che viaggiano pure in piedi fino alla fermata successiva…I minibus che effettuano servizio da e per i centri più grandi non sono sufficienti a coprire le richieste e così ci si ingegna come si può.
- Molti villaggi sorgono a ridosso delle autostrade, ragione per cui non è raro incappare in frotte di bambini che giocano e passeggiano lungo la corsia d’emergenza,
 o che tornano da scuola
- si può fare inversione di marcia (sì, sull’autostrada!) in appositi tratti segnalati
- è contemplato l’attraversamento stradale, opportunamente segnalato da cartelli ma tranquillamente praticato anche in assenza di questi…
- oltre a persone non è raro veder transitare, sempre in autostrada, babbuini, mucche o altri abitanti dei luoghi.
- i limiti di velocità, per tutte le ragioni di cui sopra, ci sono parsi piuttosto alti: 120 km/h, che si riducono a 80 giusto in prossimità di villaggi abitati e scuole, ma i posti di blocco (per ragioni di controllo) e gli autovelox sono altrettanto frequenti e…variamente utilizzati (= ce provano!)… anche questo è bene saperlo.
- Nonostante le bizzarrie delle regole stradali tuttavia, fra automobilisti e soprattutto camionisti (che sono davvero tanti) vigono regole di civiltà da fare invidia ai nostri centri cittadini: a parte rarissime eccezioni, un camion si farà sempre da parte per far passare mezzi più veloci. A quel punto però va in scena tutto un bellissimo rituale di gesti che è utile conoscere: l’automobilista per ringraziare azionerà per un attimo le doppie frecce, il camion risponderà a sua volta facendo i fari, l’automobilista concluderà con un piccolo colpo di clacson.
All’inizio non capivamo tutta la pantomima, poi ci  abbiamo preso gusto e a ogni sorpasso.
 era tutta una girandola di frecce/fari/clacson/ cui andavano ad aggiungersi saluti a mano aperta e ampi sorrisi, tanto per non trascurare proprio nulla.
-Pittoresche le soste in autogrill: in una regione in cui l’89% della popolazione è nera, due mozzarelle dai tratti latini che scendono dalla macchina destano inevitabilmente curiosità. Nonostante le raccomandazioni sulla criminalità diffusa, in tutta onestà non abbiamo mai avvertito situazioni di pericolo né di diffidenza nemmeno nei centri rurali più lontani dai circuiti turistici, anzi meno che mai in questi.
 Molti sguardi curiosi, desiderio di parlare, curiosità di conoscere, disponibilità a dare indicazioni.
E soprattutto larghi sorrisi (poi, il linguaggio dello sport e soprattutto del calcio è sempre un collante universale, in ogni parte del mondo…peccato che la mia dolce metà abbia sperimentato la frustrazione dell’incontro fortuito con l’unico laziale di tutto il Sudafrica: Do you like soccer? Conosci aa Roma?e quello, candidamente, lo atterra con una sola parola: “No Roma. Lazio!” Affronto! Disonore! Mancava poco che decidesse di stabilirsi lì a fare opera di divulgazione capillare e diffusa delle regole base della tifoseria capitolina: Su forza, ripeti con me: Roma, Roma, Roma, core de sta citààààà……….”).
Valgono, in generale,  le regole di buon senso: mettere via, almeno in certi momenti,  le macchine fotografiche dismettendo al contempo anche l’aura un po’ imbarazzante e a volte fuori luogo dei turisti a ogni costo, mescolarsi (per quanto possibile) alla popolazione locale, non ostentare marsupi e borse portasoldi, evitare di mangiare per la strada (un pasto al giorno è quello cui aspira la maggior parte della popolazione di certe zone), fare a meno di prelevare in luoghi aperti grosse cifre al bancomat considerando che il prelievo minimo, lì, è di 60 rand, pari a circa 5 euro, evitare magari di dare passaggi anche se si è sempre molto tentati, specie dalla visione di donne con bambini….
Non è raro incappare nella singolare visione di esponenti di varie tribu zulu dagli outfit ben più che caratteristici: gonnellini di pelle, piedi nudi, interminabili fili di perline alle caviglie tranquillamente abbinati a camicia e giacca. Potrà capitarvi che alcuni vi chiederanno aiuto per usare il bancomat, di cui magari dispongono da poco e che non sanno utilizzare bene.
Ci siamo fermati in moltissimi autogrill “locali” e abbiamo trovato sempre bagni assolutamente puliti, corroboranti caffettoni  locali, possibilità di fare scorte di acqua e occasione di scambiare due chiacchiere. L’unica volta in cui ci siamo sentiti a disagio è stato quando, di ritorno verso Johannesburg e a pochi km dalla città, siamo incappati in un autogrill diverso dagli altri: enorme, scenografico (anche per la presenza di un’ampia vetrata da cui poter ammirare rinoceronti e bufali al pascolo),

 superaccessoriato e ….dotato di vigilanza armata. Lì la proporzione si invertiva e le mozzarelle erano in stragrande maggioranza. Atmosfera tesa, via vai di gente indifferente, raccomandazione di chiudere bene la macchina. È evidente che zone rurali e grandi città siano molto diverse, ma proprio per questo noi ci siamo accuratamente tenuti lontani da queste ultime, non aspirando a fare reportage per esempio di posti come la township di Soweto, che più che un luogo da andare a visitare ci sembra un enorme problema con cui forse si dovrebbero fare i conti seriamente.
Stesso senso di disagio e forte imbarazzo lo abbiamo provato passando accanto agli alti muri di cinta di alcune grandi ville, immerse in villaggi rurali fatti di capanne di fango o catapecchie di lamiera, sormontati da filo spinato elettrificato. Quello che al Kruger o intorno a tutte le riserve faunistiche si usa per tenere lontano gli elefanti….a voi le conclusioni.
-La guida a sinistra, per l’amato bene, non è stata un problema nonostante l’assenza del cambio automatico: pareva che nella vita non avesse mai guidato in altro modo.
Ma per amor di cronaca va anche detto che se pure avesse incontrato difficoltà, almeno iniziali, queste sarebbero state prontamente ricacciate da urgenze più impellenti tipo una tempesta di sabbia lungo tutti i 400km iniziali da Johannesburg al Free State. Della serie: le terapie d’urto sono sempre le migliori!

I paesaggi
Viaggiare in auto scegliendosi preventivamente le strade da percorrere regala l’enorme vantaggio di impiegare bene anche tutto il tempo necessario agli spostamenti. Noi, che apparentemente ci siamo evoluti rassegnandoci al tomtom abbiamo generosamente regalato alla Budget 130€ per noleggiarne uno e poi avere cura di tenerlo ben chiuso nella sua custodia tutti e 15 i giorni, senza aprirlo mai, nemmeno per sbaglio, e facendo affidamento esclusivamente su un sistema diciamo così, lievemente più rudimentale ma pur sempre efficace:

 le cartine di Google maps portate direttamente dall’Italia!!!! e comprendenti appunti vari con gli itinerari per raggiungere ogni singolo posto che avevamo prenotato. Un po’ maniacale, me ne rendo conto, ma basta stare al gioco, vestire i panni di copilota e il divertimento è assicurato!
Di paesaggi affascinanti e suggestivi il Sudafrica ne regala a manciate:
dagli interminabili rettilinei costeggiati di pini a perdita d’occhio,

agli infiniti pascoli di bestiame
alle piantagioni profumatissime di arance dello Mpumalanga,

a tutte le gradazioni di colore delle rocce del Drakensberg

passando per mercatini di autentico artigianato



negozietti locali





rosticcerie ambulanti
In una sorta di film che scorre di continuo offrendo sempre nuovi spunti, tali che vorresti non finisse mai.
Il cibo
Carne, carne e ancora carne che è veramente buona. 
Da quella grigliata 

agli straccetti essiccati e conditi con spezie varie (Biltong).


Per il tipo si spazia dal manzo, al pollo, al vitello, passando per kudu, impala e struzzo.
Meravigliosi i curry vari, 

le zuppe, 
prevalentemente creme e vellutate a base di verdure e gli stew del giorno, succulenti stufati di carne completi di verdure cucinati in grossi pentoloni di ghisa, anche direttamente a terra, 

e che fanno piatto unico.

Prevalgono i sapori agrodolci e il piccante (peri peri); non è raro vedere le carni accompagnate da verdure ma anche frutta grigliata, specialmente papaya o mango.

Il frutto principale è la Marula, dei cui alberi sono ghiottissimi gli elefanti e che l’industria del cibo declina in ogni variante possibile, dal ghiacciolo, al liquore Amarula, una sorta di crema di Whisky molto simile al Baileys.
Fra i dolci, ottimo il Malva, una sorta di budino dalla consistenza spugnosa variamente aromatizzato.
Ogni rondavel e ogni area pic-nic, nelle riserve così come per la strada, è  dotata di braii (barbecue), vera istituzione del luogo: gli autogrill e ogni più piccolo emporio vende piccoli sacchetti di legna, così le persone arrivano, si scelgono il proprio braii e ci arrostiscono tutto ciò che vogliono a ogni ora del giorno…E poi Pancakes, 

declinati in ogni modo,

dal dolce 
al salato. 
Scones e pudding come se piovesse, 


ma anche altri dolci, negli autogrill locali, sempre all’insegna della semplicità, come per esempio quadrotti di pastafrolla 


da accompagnare a un bicchierone di caffè locale che sa sempre di spezie e di pepe in particolare.
Ma noi, si sa, viaggiamo sempre con la nostra fida moka e il fornelletto. Essendo le prese di corrente diverse rispetto alle 12 (mica una!) contemplate dall’adattatore universale di cui disponiamo, ne abbiamo dovuto comprare un altro ancora per dare vita a una centrale nucleare di questo genere:



Ma tutto, pur di avere un buon caffè! Che comunque, va detto, abbiamo trovato nei posti più impensabili e sperduti del Kruger e dell’Imfolozi a prezzi nemmeno esagerati.
Dove magari si cucina su un fuoco acceso direttamente a terra, ma su un bancone rimediato spicca una macchina per l’espresso nuova di zecca che fa un caffè da urlo…contrasti sudafricani.

Salute
Il rischio malaria prima di tutto, che esiste, è endemica ed è inutile fare finta di niente.
 Quello di fare o meno la profilassi è una scelta del tutto personale su cui non mi pronuncio.
 Va detto però che la protezione meccanica (evitare di farsi pungere dalle zanzare) è alla fine, l’unica forma efficace di prevenzione, anche se si opta per la profilassi.
Nel periodo in cui siamo stati noi, che coincideva con la fine dell’inverno e l’inizio della primavera (il 1 settembre), di zanzare ne abbiamo visto pochissime, è vero però che ce ne sono, specialmente nelle aree a vegetazione tropicale e a mano a mano che si sale verso il nord del Kruger.
Zone come St. Lucia e Sabie sono state di recente dichiarate “Malaria free” ma è bene non abbassare la guardia dal momento che poi uno non sta fisso in un posto e le zanzare nemmeno….
Il Kruger è ad alto rischio e ci sono cartelli sparsi un po’ ovunque che lo ricordano.
Esiste un numero di emergenza malaria che viene fornito all’ingresso del parco ed è attivo 24h, in caso di dubbi o di insorgere di sintomi sospetti.
Naturalmente l’attenzione deve rimanere alta anche nei mesi successivi al rientro visto che l’incubazione, a seconda dei vari ceppi malarici, va da 14 giorni fino a 6 mesi.
Prese tutte le opportune precauzioni (dormire con la zanzariera, non usare profumi, lozioni, odori che attirino gli insetti, cospargersi di repellenti che abbiano almeno il 25% di permetrina, usare pantaloni e maniche lunghi dal tramonto all’alba e via dicendo), noi abbiamo provveduto pure a cospargere i tappetini della macchina di Deet e a riciclare le piastrine di vape che usavamo di notte spargendo pure quelle in macchina…..un po’ per scherzo un po’ sul serio…che nella vita non si sa mai!

La malaria tuttavia non è l’unico problema: dove ci sono animali ci sono le zecche, ma anche lì attenzione massima e buon senso dovrebbero bastare a non rovinare il viaggio. Sorvolo su tutto ciò che riguarda morsi, punture e graffi di scimmie, roditori, altri insetti dal momento che non sono prerogativa esclusiva dell’ Africa e ognuno prenderà le precauzioni che crede.
Nota di merito:l’acqua, in Sudafrica, è sicura e potabile in tutte le strutture salvo che in alcuni campi, dove però è ben evidenziato. Noi abbiamo bevuto comunque quella in bottiglia, ma l’abbiamo usata tranquillamente per lavarci i denti e in alcuni casi non abbiamo nemmeno evitato il ghiaccio nelle bibite, ciononostante non abbiamo avuto nessuno di tutti i problemi intestinali riscontrati puntualmente in Nord Africa (Egitto, Tunisia, Marocco).

A rilento, ma con buoni propositi - Dolce di latte e ananas

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Dunque vediamo: il lavoro è ripreso (da mo); una rassettata alla casetta (più o meno) l’abbiamo data; al cambio stagione dell’armadio non ci si pensa nemmeno lontanamente (necessita di preparazione psicofisica a parte) ma in compenso almeno costumi, pareo, vestarelle leggere e ciriciolesvolazzanti le abbiamo lavate e messe via (sigh!); l’abbonamento annuale del treno con relativo salasso ce lo siamo assicurato, cos’altro rimane da fare per riprendere il tran tran quotidiano?
Ecco, forse adattarsi.
 E poi pure un po’ sovvertire le abitudini, introdurre qualche nuovo particolare, darsi una mossa, per esempio, per inserire, nel fuggi fuggi giornaliero, pure quell’oretta di ginnastica posturale prescritta da una vita e sempre rimandata.
Ma è ora di dire basta! E pure ora di affrontarla, o la mia schiena si vendicherà.
È con questo spirito di immolazione alla causa e abnegazione assoluta che, mercoledì scorso, sono andata a iscrivermi in palestra. Anzi a segnarmici.
Tanto per essere ligi ai buoni propositi con cui ogni volta ricomincia l’anno accademico (della mia vita, che come quello all’università, non parte da gennaio ma da settembre e precisamente dalla seconda metà di questo mese considerato che la prima è perlopiù dedicata ai vagabondaggi vacanzieri ).
Allora niente, (almeno l’iscrizione) è fatta, me so’ buttata, ho iniziato la mia bella ginnastica posturale con buona pace dello yoga almeno per quest’anno.
Perché s’ha da fa’ e non ce so’ santi.
La cosa poi, in tutta onestà, non è nemmeno tanto male: pensavo si procedesse a rilento (come la ripresa delle mie attività, fisiche e cerebrali, post vacanze) e invece si suda e si fatica di brutto.
E non è tanto simpatico vedersi adocchiare con ghigno sardonico e strafottente dalle altre due partecipanti al corso in questione (sì siamo solo in tre….e chi è quel pazzo che un giorno sì e uno no, per 3 volte alla settimana a metà mattina se ne sta un’ora e passa a farsi allungare muscoli e stirare vertebre da un terapista-istruttore che ti urla nelle orecchie manco fossimo al corso di ardimento dei Marines?).
Le quali tizie hanno precisamente 68 e 79 anni.
E procedono baldanzose per la loro strada, con “gambe leggermente piegate, mento al petto, braccia sollevate a croce, respirando con la pancia e tenendo le spalle basse” mentre la sottoscritta miserella già solo per memorizzare e poi coordinare tutte quante queste azioni insieme (ricacciando dentro, al contempo, la naturale riluttanza con cui mi appresto ogni volta al sacrificio…) si incarta e rischia, a ogni movimento, di perdere l’equilibrio rovinando poco elegantemente sul tatami immacolato.
Allora mentre cerco di darmi un contegno e sudo e fatico, provo anche astrarmi dalla durissima realtà pensando (tanto pe fa’ na cosa nova) alla savana, agli animali, alla loro agilità, alla respirazione (yogica) del gatto, che massaggia tutta la schiena senza tutta quella sequela imposta di tira di qua, allunga di là.
Il tutto sempre mentre le due arzille nonnette se la ridono e si sentono rinfrancate dalla mia rigidità di appena quarantenne. 
Fracica, con ogni evidenza, ma pur sempre (almeno anagraficamente) più giovane.
Prendi esempio, ciccia! - Paiono dirmi a ogni occhiata di sbieco.
Guarda come se fa, pivella anchilosata! - Sembrano commentare a ogni mia intorcigliatissima mossa.
Ma non ero quella che pratica yoga da 10 anni? Sì ma è diverso.
Qui gioca anche la componente resistenza mentale (perchè perchè perché mi trovo qui anziché seduta – tutta storta sì!- davanti al computer a commentare blog e scrivere qualcosa sul mio?!).
Riluttanza fisica (oddio me scricchiola tutto).
Voja de scappà.
E, ignorando mente, corpo, nonnette circostanti più che posso, cerco di trarre energia da qualche confortante visualizzazione: il balzo agile di una scimmia, la corsa elegante di una gazzella, i movimenti fluidi di un leone….ma la mia mentre proprio non ce la fa e in un attimo tutto quello che mi si para davanti nella visualizzazione, nonostante tutta la concentrazione di questo mondo, sono solo: 
un bradipo che ronfa beato sulla cima si un albero,
un leopardo che sbadiglia pigro e annoiato sulla riva di un fiume,
un kudu che si stiracchia dolcemente sul limitare di un bosco,
lo scorrere placido e lentissimo di un fiume….
ma soprattutto lui:
 il mio letto, il mio cuscino e le coperte che pure questa mattina al suono della sveglia non avrei mai, mai voluto abbandonare!

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Quattro ingredienti, due mosse, niente fornelli.
Abbiamo assaggiato questo dolce delizioso in una delle Guest House sudafricane (Acra Retreat), preparato dalla cuoca Veronique.

 Tutta la cena è stata superlativa (vellutata di zucca con panna acida, costolette di agnello, carote al burro), ma il dolce ci è rimasto nel cuore tanto da chiederne subito la ricetta.
Il problema era trovare la gelatina in polvere in Italia: pensare di sostituirla con pari quantità di quella in fogli mi pareva assurdo, visto che avrei dovuto metterne 10 bustine per raggiungere il peso indicato!! Ovvio che le due abbiano rese diverse, quindi non mi sono proprio arrischiata nell’impresa. Per fortuna, almeno per chi è di Roma e dintorni, ci pensa il solito Castroni: ne ha di tutti i gusti a 1,20€ (scatolette da 75 gr) e quindi già che c’ero l’ho presa anche ai frutti di bosco e all’arancia per future sperimentazioni (pigrizia permettendo)…

Sul posto ci è stato servito tagliato a quadretti e accompagnato da una pallina di gelato alla vaniglia e una spruzzata di panna montata. A casa ce lo siamo mangiato così, nature, senza orpelli ulteriori e fa sempre la sua grande figura.

Meglio prepararlo il giorno prima e tirarlo fuori dal frigo qualche minuto prima di servirlo.


Ingredienti (per uno stampo di 25x18 o per 8 stampini da budino)
1 pacco di biscotti al burro (io ho usato gli Oswego da 250 gr e ne sono avanzati un po’)
1 barattolo di ananas (tutta la polpa e 150 ml di succo)
1 lattina di latte condensato zuccherato da 375gr
1 bustina di gelatina in polvere gusto ananas (75gr)
200 ml di acqua
Burro per ungere


Procedimento
Versare la gelatina in una ciotola, unire l’acqua bollente e mescolare finché non sarà tutta sciolta, dopodichè lasciarla intiepidire.

 Nel frattempo sbriciolare grossolanamente i biscotti, ungere lo stampo di burro e cospargerlo di briciole.

Unire il succo di ananas e il latte condensato alla gelatina, quindi la polpa dell’ananas tagliata a pezzetti piccoli.
Versare il composto nello stampo, 

ricoprire tutto con i restanti biscotti sbriciolati e riporre in frigo per almeno 4-5 ore.





Quaranta dolcetti per te - Tortine di yogurt al malto farcite di crema al formaggio e cappuccino d’orzo

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Sembrava non dovessero arrivare mai, che uno il traguardo della cifra tonda (e di questa in particolare) lo vede sempre molto lontano.
Sembrava che dovesse scucirci solo un baffetto, il fatto di compierne 40, ma in effetti qualche rodimento in più lo procura, che non è più come dire “ne ho 30 …e rotti”.
E fa una bella differenza, altro che cavoli (lo so, ti capisco, ci sono passata….).
Poi cominci a farti delle domande quando i ragazzini ti danno del lei.
Quando per leggere un carattere molto piccolo ti tocca stendere le braccia allontanandolo il più possibile.
Quando ogni due tre mesi di piscina ti tocca passare serate romantiche sul divano tu e la macchinetta dell’areosol.
Sembrava che il tempo non scorresse mai, che uno si guarda indietro (e pure davanti) e ha sempre mille progetti, tremila idee, settemila cose in sospeso, ventimila sogni nel cassetto, mentre il tempo inesorabile passa e, quando si è molto impegnati, l’animella sua, passa pure più veloce.
Sembrava ieri che dovevamo compierne io 18 e tu 17 e ci sentivamo il mondo in pugno, la storia tutta da scrivere, i sogni ancora tutti da accarezzare, compresi quelli impossibili.
Adesso il mondo ce lo giriamo in lungo e in largo, un paio di sogni li abbiamo realizzati, qualcun altro lo abbiamo accantonato per sempre, ma tanti nuovi ne coltiviamo.
Eppure siamo sempre noi: cambiati, cresciuti/uguali, sempre quelli.
Venti, trenta, quaranta, che differenza vuoi che faccia?
Una cosa fondamentale in fondo l’abbiamo capita, tanto da averne fatto il nostro mantra:
che La vita va presa a mozzichi.
Allargata anziché allungata.
Goduta, vissuta, respirata a fondo.
Bevuta a grandi sorsi, mangiata a piene mani, che tante cose te le toglie, ma tantissime altre te ne dà.
Se solo le sai vedere.
Per esempio, avresti mai pensato un giorno di poter essere chiamato “Er secco”?
O di incontrare sul tuo cammino un rarissimo Tasso del miele?
O di nutrirti a frutta e verdura (e perfino minestroni, trovandoli addirittura buoni!!!)  anziché solo a sfizietti sottolio e 4 zompi in pentola?
Sono conquiste preziose queste!
E regali della vita.
Per quelli concreti, da soppesare e scartare, devi aspettare stasera, insieme alle candeline da soffiare (e ti conviene allenare il fiato, che sai quanto io odi le candeline a numeri…), ma intanto:

Buon 40° compleanno Amore Mio
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Quando si parte da un’idea e se ne realizza tutta un’altra (smadonnando giusto un pochetto per la mancata riuscita della prima).
Quando se ne esce (dopo dura e prolungata lotta intestina di sentimenti contrastanti) comunque moderatamente soddisfatte che forse forse niente è perduto e sta a vedè che sforno pure na cosa nova.
Quando perfino la scelta di una teglia si rivela sbagliata ed è l’ennesimo piccolo dettaglio andato storto che però, aggiunto a tutte le altre quisquiglie non riuscite, è capace, lui da solo, di farti venire voglia di gettare via tutto.
Poi per fortuna ti trattienti e metti in moto la fantasia.
In origine doveva essere semplicemente un ciambellone.
Poi un dolce quadrato.
Poi sono diventate delle tortine.
Poi ancora delle tortine arricchite con del cappuccino d’orzo.
Quasi da ultimo delle tortine farcite di una buonissima crema formaggiosa e speziata.
Infine proprio, dei dolcetti molto buoni di cui segnarsi la ricetta per poterli rifare quanto prima….



Ingredienti
Per circa 8 tortine (stampo rettangolare di 30x20)
2 vasetti di yogurt al malto
3 vasetti di farina 00
2 vasetti di zucchero di canna
1 vasetto di amido di mais
1 vasetto di olio di semi
3 uova
1 bustina di lievito
1 bustina di vanillina
1 pizzico di sale
2 dita di latte (io a ridotto contenuto di lattosio)

Per la bagna
½ bicchiere di latte (io a ridotto contenuto di lattosio)
2 cucchiaini di orzo solubile
2 cucchiaini di zucchero

Per la crema al formaggio
175 gr di formaggio cremoso (io senza lattosio)
5 cucchiai di zucchero a velo
1 generosa presa di cannella

Procedimento
Sono partita dalla base di una torta allo yogurt, preparandola nel modo classico (dopo aver acceso il forno e oliato e infarinato lo stampo, sbatto le uova con lo zucchero e un pizzico di sale, aggiungo i due yogurt, l’olio, la vanillina e progressivamente la farina e l’amido setacciati. Infine unisco il lievito sciolto in due dita di latte, verso nello stampo e cuocio per 30 minuti precisi – non uno di più- a 180°).
Da questo punto in poi ho lavorato di fantasia: fatto raffreddare la torta (che avendo utilizzato uno stampo troppo largo, era venuta alta poco più di una sottiletta…) e usato un coppapasta per ricavarne dei dischetti da tagliare successivamente a metà.
Ho bagnato le due metà con un po’ di cappuccino d’orzo, quindi le ho farcite con la crema ottenuta lavorando il formaggio, lo zucchero a velo e la cannella e aggiustando di sapore – più cannella o più zucchero- a mano a mano che mescolavo.

Ho sistemato le tortine su un vassoio, le ho cosparse di zucchero a velo e conservate in frigo, coperte da pellicola, fino al momento di servirle.

L’allieva che supera il maestro - Involtini di pollo alla crema di formaggio, pomodori secchi e noci

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La vita in questa piccola casetta scorre, pur negli esigui spazi della stessa, tra mille insidie e pericoli costanti.
È che nella nostra (pure lei piccola) famiglia ci si “diverte” (se fa pe dì) davvero con poco.
O meglio, la sottoscritta, suo malgrado, si è dovuta rassegnare nel corso degli anni a trascurabili scherzi, piccoli tranelli, innocue trappole disseminate un po’ ovunque sui brevi percorsi, al solo scopo di suscitare una vacua ilarità e soddisfare così lo spirito burlone dell’amatissimo bene.
Si spazia quindi dalle luci accese e spente a rapidissima intermittenza, intorno alle 5 del mattino; ai bicchieri di acqua gelata tirati nella doccia mentre l’altr(A) si sta rilassando sotto un getto che scorre a una temperatura prossima ai 50°; fino all’abitudine di incollare ritagli di giornale sul ritratto di Giacomo Leopardi appeso in camera da letto.
Cui io ovviamente tengo moltissimo.
Ora è la volta del faccione sorridente di Flavio Insinna che ha preso il posto del visetto emaciato del sommo poeta.
Non posso svegliarmi ogni mattina con la faccia di quello sfigato davanti agli occhi: almeno Insinna ride!” è stata la giustificazione del mio consorte a questo affronto.
Ma fino al mese scorso il volto del povero Leopardi troneggiava su un mezzo busto femminile, fasciato in un abito di paillettes,  con tanto di tracollina di strass: tra le due opzioni, non saprei quale scegliere.
Nel tempo dunque, volendo schivare scherzi innocui e soprattutto sopravvivere a quelli più pesanti (tipo entrare al buio in camera e sentirmi afferrare una caviglia da sotto il letto…) senza rischiare di rimanerci stecchita ogni volta, ho dovuto imparare a difendermi.
Prevenire qualche mossa, affinare le tecniche, affilare le armi.
Le idee a volte, nella fervidissima immaginazione del burlone di casa, nascono anche così, da un pezzo di carta stagnola appallottolata prima di essere buttata al secchio, sua naturale destinazione.
Almeno nelle case normali.
Qui invece prontamente infilata nella maglietta dell’altr(A), che sarei io.
Questo gesto innocente è capace, qui in questa casetta, di dare la stura a tutta una serie di vendette trasversali e raffinatissimi piani di attacco.
È così che quella palla di carta stagnola ha gironzolato per casa tutta la seconda metà di settembre senza trovare pace (e io con lei…).
Una volta me la ritrovavo sotto il cuscino.
E allora gliela infilavo nella tasca del pigiama quando al mattino glielo ripiegavo.
Un’altra volta me la ritrovavo nell’anfratto più recondito della mia borsa mentre andavo al lavoro
E allora, tornata a casa, gliela nascondevo nel taschino di una camicia.
Poi me la ritrovavo sotto la tazza capovolta della colazione.
Allora gliela sistemavo nel portapranzo insieme al riso (sperando che magari gli venisse in mente di farla finita e buttarla lì in ufficio).
Mai nessuno dei due che cedesse. Nessuno che dichiarasse la vittoria dell’altro.
E sta palla di stagnola che continuava a girare, coprendo chilometri e distanze.
Arrivando anche fino a Roma, per poi tornare indietro.
Finché.
10 ottobre, giovedì, giorno del suo compleanno.
 Niente regali al momento, perché i festeggiamenti sono rimandati a sabato.
Eh ma le candeline si soffiano nel giorno designato, che quelle mica possono aspettare.
E un piccolo regalino può anche anticipare quello vero.
Prendo la scatolina di un anello, la dimensione perfetta.
La avvolgo con cura, in una carta bella e raffinata.
Scelgo un nastrino dorato, lo stiro in mille riccioli.
Gli faccio trovare il pacchettino sul tavolo, accompagnato da un biglietto sentito e perfino toccante.
Lo apre fremente di curiosità, quasi commosso per questo anticipo di festa.
Pensa a un cioccolatino, a una cosa piccola ma simbolica, non gli viene in mente altro.
E la scatolina svela generosa il suo contenuto: la palla di carta stagnola!!!
Tenuta opportunamente ferma per una settimana, in modo che lui se ne dimenticasse, che non ci pensasse più.
Non può che farsi una risata, lui, il genio degli scherzi, e arrendersi all’evidenza.
M’hai fregato”, ammette sportivamente.
E la palla di stagnola, finalmente, finisce al secchio.
Ahhhhh le soddisfazioni della vita!

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Un semplice appunto, su una rivista settimanale, il richiamo-lampo a questi involtini di pollo semplici e veloci.
E altrettanto semplicemente e velocemente li ho preparati qualche giorno fa per cena. Sfidando l’avversione dell’amato bene per i formaggi spalmabili (a meno che non siano trasformati in creme dolci per farcire torte e tortine), la sua repulsione per i pomodori a pezzi, la tendenza a storcere il naso davanti a pietanze salate anche solo minimamente tendenti al dolce.
Ecco, non ce n’era una che gli potesse andare bene in questo piatto (una piccola vendetta trasversale pur questa...), ma l’ho buttata sulla sfida da quiz: “indovina cosa c’è dentro? Solo 4 ingredienti, via al tempo!”. E così distraendolo fino alla fine s’è mangiato tutto mostrando anche di apprezzarlo particolarmente. Poi proprio quando mancavano un paio di bocconi e i due ingredienti più importanti da scovare, ha capitolato: “mi arrendo”, costringendomi a svelargli contemporaneamente la presenza di formaggio e pomodori.
Ora che me lo hai detto ce lo sento il formaggio…mentre su questi avrei scommesso che fossero peperoni”……..ovviamente.


Ingredienti (x2)
300 gr petti di pollo
2 cucchiai di formaggio spalmabile (io senza lattosio)
6 pomodori secchi sottolio
6 noci
1 bicchierino di marsala semisecco
1 spicchio d’aglio
Olio extravergine d’oliva
Sale
Pepe

Procedimento
Battere leggermente i petti di pollo e privarli delle parti grasse. Lavorare con una forchetta il formaggio insieme ai pomodori ben sgocciolati e ai gherigli di noci, entrambi tritati al coltello.
Spalmare quindi ogni fetta di carne con il composto e arrotolarla fermando il tutto con uno stecchino o due.

Scaldare dell’olio in una padella insieme allo spicchio d’aglio leggermente schiacciato. Unire gli involtini e farli rosolare bene su ogni lato; sfumarli quindi con il marsala, 

alzando per qualche secondo la fiamma, quindi riabbassare, aggiustare di sale e pepe, coprire la padella e lasciare cuocere ancora per una decina di minuti o quindici secondo la grandezza degli involtini.
Irrorare abbondantemente di salsina!!

N.B.: abbiate cura che vi rimanga un cucchiaino di composto da poter aggiungere in padella insieme al marsala mentre sfumate affinché si ottenga una cremina da sballo!





Sudafrica III: Il Kruger, “lo stato degli animali”

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“Guardare la vita è uno spettacolo infinitamente affascinante ed effimero, persino nella brutale poesia della catena alimentare, dove la vita appare così precaria eppure pulsa con potenza in ogni forma e colore”
(Lawrence Anthony, L’uomo che parlava agli elefanti)


Prima di questo avevo fatto solo un altro safari nella mia vita.
In un altro luogo, insieme ad altre persone, in un tempo molto limitato: un giorno e mezzo appena, pochissimo, praticamente niente per capire a fondo di cosa si tratti realmente.
Safari in lingua bantu-swahili significa viaggio.
Un tipo di viaggio però che non tende verso una meta, ma trova compimento in sé, nel suo farsi, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro.
Immersi in una condizione del tutto nuova e sconosciuta

“Avevano scoperto una nuova vena, ricca di quegli elementi preziosi che sono lo spazio e il tempo. Due tesori di cui, lì attorno, c’era una quantità che un uomo non avrebbe potuto utilizzare in una dozzina di vite. […] Al cospetto di tanto spazio e tempo, qualsiasi sforzo era banale”
(Wilbur Smith, “Il destino del leone”)


Riluttanti, inizialmente, all’idea di questo apparente vuoto assoluto.
Vuoto di impegni e di obiettivi.
Di mete da raggiungere e di compiti da assolvere.
Pieno invece di ore vuote, di spazi infiniti, di Tempo.
Safari significa sveglie prima dell’alba e 8-10 ore incollati a un sedile.
Potendo scendere solo in appositi spazi.
A proprio rischio e pericolo.

Perché lì l’uomo non conta niente: non è il suo spazio quello, è lo stato degli animali e lui, una volta tanto, deve attenersi alle loro regole, rispettandone i luoghi, gli istinti, le abitudini.

“…un territorio bruno si estendeva ampio e placido verso distanze smisurate, non deturpato dai graffi dell’uomo: tranquillo e dignitoso nella sua immensità”
 (Wilbur Smith, “Il destino del leone”)

All’uomo non rimane che diventare un tutt’uno con la sua automobile, per una volta realizza il suo sogno tecnologico: nel parco può esistere e muoversi, solo grazie a quattro ruote e una scocca metallica tutto intorno. Da solo, nella savana, non può aggirarsi.
Tanto che diventa curioso perfino poggiare i piedi a terra in quei pochi luoghi in cui è consentito farlo. Ci si sente quasi a disagio, come se si stesse profanando un luogo, ignorando un divieto, tradendo la fiducia di chi vive lì.
Tutto ciò che si deve fare una volta avviato il motore è scegliersi il percorso su un indispensabile mappa e mantenersi a una velocità, imposta, di 50km orari.
Non di più, sennò, dal nulla, ci si trova un ranger alle calcagna.
E la multa è assicurata.
Il che significa che per coprire una distanza anche breve si possono impiegare mezz’ore.
Ore intere se si scelgono tratti sterrati.
Tutto questo equivale a lunghissimi momenti di noia, di immobilità totale, di grande caldo, di spallamento cosmico.
Perché la mente proprio si rifiuta, abituati come siamo a “fare”.
Ad ottenere perché si è pagato, perché si è lì, perché ce lo meritiamo.
Gli animali non seguono queste logiche.
Non devono farsi vedere.
Semplicemente, vivono, lì in quel loro stato, la propria vita.
Fatta di caccia e di difesa, di scoperta e di accoppiamento, di fughe e di sensi sempre in allerta.
Indifferenti a noi strane creature, metà testa/metà sedile, che siamo lì, per vederli e osservarli.

“ In natura tutti gli essere viventi sono continuamente coscienti di ciò che accade, pronti a fuggire o a combattere in un istante. È una vita che pulsa, eternamente vigile, che assorbe ogni minimo dettaglio di ciò che la circonda, che valuta in continuazione il grado di sicurezza e di pericolo di ogni situazione. È sapere dove poter stare e dove no, è un’incessante analisi delle informazioni istintuali, così cruciali per la sopravvivenza”.
(Lawrence Anthony, L’uomo che parlava agli elefanti)

Un safari quindi è un’attesa lunga, una speranza vibrante di impazienza e una scoperta lenta, lentissima: nulla è dovuto.
Possono passare anche un paio d’ore senza che nulla accada, senza che anche un minuscolo sprone spinga a persistere in quel viaggio così strano, senza garanzie.
Poi, di colpo, accade.

Che una famiglia di zebre attraversi la strada.

Che un gruppo di babbuini si metta a cercare un riparo per la notte.

Che un branco di elefanti voglia passare dall’altra parte e la matriarca sbarri il passaggio a qualsiasi intruso finché non è passato l’ultimo cucciolo.

(e che poi decida di riposarsi proprio lì, in mezzo a quella che per lei non è "la strada" ma solo un altro pezzo di savana)

Che ci si affacci da un ponte e si scoprano tre tartarughe stese al sole

Che si aguzzi la vista e insieme a una scaletta di ippopotami si scopra una famiglia di coccodrilli tutto intorno


Che si alzino gli occhi al cielo abbagliati da un collare di piume candide
Che si riconosca proprio Pumba, in quel curioso essere a quattro zampe che sta venendo verso di noi
O che si pensi a un tenero peluche guardando quell'ammasso di peli neri e argentati trotterellare in mezzo all'erba (salvo scoprire poi che si tratta del famoso tasso del miele, da cui perfino i leoni, per non avere guai, preferiscono tenersi alla larga...)

Una scarica di adrenalina senza uguali, un’emozione che stordisce.
E tutto acquista un senso nuovo: l’attesa, la smania, l’insofferenza svaniscono in un lampo al cospetto di due occhi con lunghe ciglia, sovrastanti un becco adunco


Di piume che sembrano velluto

Di una buffa cresta
di un elegante mantello a pois

Di una mamma con il suo cucciolo


di un cucciolo da solo

di due splendidi antilopi impegnate in uno scornamento


 ..o della pacifica convivenza di altre con delle piccole scimmiette






Oppure si rimane affascinati dallo sguardo saggio di un bisonte

da quello malinconico di un babbuino


da quello minaccioso di una iena

da tutte le striature e le forme strane di nyala e impala





E anche i sensi si acuiscono: scoprire con sorpresa che gli elefanti, questi antichi giganti che solcano il pianeta da tempo immemore, comunicano attraverso brontolii dello stomaco, anche a distanza notevole e rimanere incantati al suono di una “voce” che sembra salire su dalla viscere della terra e riempire di sé tutto lo spazio circostante.
Ammutolire davanti allo spettacolo della natura, alle movenze aggraziate di un leopardo




in uno strano contrasto con lo scricciolo che ha appena attraversato la strada

Esiste la possibilità di un safari a piedi, in gruppi di 8 persone, in compagnia di due ranger armati.
L’unico modo per poggiare i piedi nel territorio degli animali.

La diffidenza è tanta, un timore reverenziale porta a seguire alla lettera tutte le regole che i ranger impartiscono prima di mettersi in marcia: “abiti scuri o neutri, niente profumi, restare in silenzio, camminare in fila indiana e tutti compatti, non rimanere indietro per alcun motivo, non mettersi a correre né fare movimenti bruschi al cospetto di qualche animale…..”

E sentire sotto i piedi, dentro la pancia e su fino al cuore, le vibrazioni di un branco di zebre che, spaventato, inizia a correre.
La terra attutisce il suono dello scalpiccio degli zoccoli, che però vibra potente in ogni fibra del corpo.
Non sentire più con le orecchie ma con tutto il corpo.
Non vedere una sagoma ma percepirne la presenza.
Sentirsi, per un breve attimo, davvero parte infinitesima di un tutto.



“Ogni cosa, nella natura selvaggia, è in sintonia con ciò che la circonda, conscia del proprio destino e in totale armonia con il pianeta. La loro attenzione è completamente rivolta verso l’esterno. Gli umani, invece, tendono troppo spesso a concentrarsi sulla loro vita interiore, rimuginando e ingigantendo problemi su cui gli animali non sprecherebbero un millisecondo della loro energia”.


(Lawrence Anthony, L’uomo che parlava agli elefanti)


Nota: Lawrence Anthony, autore del libro da cui è tratta la maggior parte delle citazioni di questo post, è stato, oltre che documentarista e profondo conoscitore degli elefanti, anche il fondatore della Earth Organization e della Riserva privata di Thula Thula nello Zululand. Lui è morto nel 2012, ma la riserva esiste ancora, sia come lodge esclusivo in cui poter alloggiare, sia soprattutto come parco naturale in cui da anni trovano ospitalità elefanti "difficili" che lui salvò dal destino di essere abbattuti.
Consiglio un giro tra queste pagine, per saperne di più, oltre ovviamente alla lettura dei suoi libri, di cui soltanto uno è stato finora tradotto in italiano

L’umore di oggi - Ciambellone con amaretti e mele

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Il solito copione ogni anno.
All’inizio ufficiale dell’inverno, che per la sottoscritta coincide (almeno mentalmente), con il ritorno all’ora solare (benché la persistente manica corta e l’infradito a oltranza non aiutino a crederlo proprio fino in fondo), si assiste, nel giorno che precede la fine dell’orario legale, alla consultazione frenetica e spasmodica di tutti gli orologi di casa, per conoscere l’ora esatta.
Questo non perché non si sia capito bene il meccanismo (di per sé lapalissiano) del mettere gli orologi un’ora indietro, quanto per il fatto che l’amato bene (non si sa bene per quale oscuro motivo) decida di compiere la delicata operazione già dal giorno prima.
Generalmente senza avvisarmi.
E solo dietro minaccia quest’anno ha evitato di farlo anche con la MIA sveglia, il MIO orologio, i MIEI cellulari (che fanno da soli, come qualsiasi altro dispositivo elettronico, ma lui sarebbe capace, nella concitazione del momento, di portare il suo indispensabile contributo anche lì).
Salvo guardarmi con compatimento quando tutto tronfio annuncia: “Io per domani sono già a posto”, lasciando intendere che chissà quali catastrofiche conseguenze potrebbe avere il non aver seguito il suo esempio e rimesso gli orologi…il giorno prima!
Scusa” – ribatto io nell’illusorio tentativo di instillargli un briciolo di poesia nell’animo forgiato, provato, inaridito da anni di addestramenti militare “cosa c’è di meglio che alzarsi alle 10 (minimo) come ogni domenica mattina, guardare l’orologio e (solo a quel punto) togliersi la soddisfazione di rimetterlo indietro di un’ora sapendo così che la mattinata del dì di festa, una volta tanto, non sarà andata a farsi friggere proprio del tutto?
Ma a niente valgono queste allusioni poetiche (che lui molto semplicemente chiama “autopreseperilculo”), salvo poi sbagliarsi (perché anche i pragmatici falliscono!!) a puntare la radiosveglia….
Oggi, lunedì, ore 5.30.
 Un suono acuto, stridulo, impossibile da ignorare ci arresta il sonno, i sogni e pure i battiti cardiaci per un fugace attimo, trascinandoci violentemente fuori da quella condizione (semi)beata che precede il risveglio,
quando apri un occhio ma ancora non sei del tutto cosciente,
quando capisci che ti devi alzare ma ancora non hai la piena lucidità per smadonnare a dovere,
quando nascondi la faccia sotto il cuscino concedendoti ancora cinque minuti pensando a quanto sarebbe bello invece continuare a dormire per tutto il giorno.
Ma stamattina niente di tutto ciò: passaggio sogno/veglia in un nanosecondo e guadagno della posizione eretta a colpi di reni che solo quando rinsavisci capisci che potresti anche esserti strappato qualche muscolo.
Alla faccia della ginnastica posturale e dell’ “alzatevi sempre molto lentamente, girandovi prima su un fianco e restando qualche attimo così…” .
Come no.
Ma il movimento inconsulto è stato istintivo, anche perché quella specie di allarme antiaereo a  intermittenza continua a suonare (e tu ancora non capisci nemmeno perfettamente se nel frattempo ti sei svegliato o stai facendo solo un bruttissimo sogno).
Imperterrito, fracassando i timpani, squarciando il silenzio dell’alba, che al confronto pure il continuo abbaiare del cane del piano di sotto passa inosservato.
Riducendo brutalmente al silenzio tutti gli uccellini che dagli alberi avevano preso allegramente a cinguettare salutando il nuovo giorno.
Poi vedi lui, che armeggia (maldestramente) con la radiosveglia, quella che di solito elargisce note e musichette non sempre gradite ma che comunque è tenuta a un volume così basso che tante volte (per fortuna) manco la sento.
Perchè poi io in realtà odio la radiosveglia con tutto il suo corredo musicale, che la radio mica lo sa di che umore sono quella mattina per potermi mettere la musica giusta.
E mica lo sa che un ritmo sbagliato, non in linea con l’umore del momento, rischia di farmi alzare con il piede pure quello sbagliato e rimanere in assetto di guerra per tutte le restanti ore della giornata (figuriamoci una semplice sirena stridula come quella di oggi!).
Infatti per non correre rischi io sono quella che nei rarissimi casi in cui deve svegliarsi prima dell’amato bene usa una sveglietta dei cinesi che ha pure la luce incorporata e che si avvale di un tradizionalissimo cicalino dal suono discreto ma efficace.
Abbastanza acuto ma non del tutto assordante.
Neutro e senza rischi.
Questo nelle eccezioni.
Di norma invece sono quella che si avvale della sveglia umana (puntata un’ora dopo la sua, quando sta con un piede già fuori la porta, la valigetta in mano e il treno che fischia in lontananza...) dispensatrice di bacetti, lievi carezze e paroline dolci il tutto rigorosamente senza profumo, perché il dopobarba di primissima mattina a me fa venire la nausea….
(del resto può sempre metterselo dopo avermi svegliata e se non fa in tempo perchè è tardi pazienza, questione di priorità)
Sono una tipa viziata io. E magari un filo esigente (po' esse).
Ragione di più per pretendere di sapere all’istante il motivo percui nessuna delle mie due sveglie abituali questa mattina abbia funzionato e al loro posto mi ritrovi invece questa specie di raglio asmatico sparato a tutto volume.
ma che…?! ’mannagg…!! mavaff...!!! ecco no, allora: ho sbagliato pulsante!” (ma va?) quando ho regolato tutti gli orologi IERI MATTINA ho anche puntato direttamente la sveglia (mi pare ovvio), ma ho azionato il bip anziché la radio…
L’importanza  e l’utilità di portarsi avanti….
Ergo, nonostante il brusco risveglio, l’umore di oggi è un misto di:
Soddisfazione.
Gaudio.
Gratitudine nei confronti della vita.
Perché c’è sempre una giustizia, a questo mondo.
E pure la radiosveglia si è voluta vendicare!!!

;-)

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Questo dolce l’ho visto fare a La prova del cuoco una settimana fa (ma io ho aggiunto le mele). Questa volta però mi sono ricordata che la ricetta si poteva trovare facilmente anche in interne e mi sono risparmiata di stenografarla al volo come mio solito…
Veloce è veloce, niente da dire, se non fosse per tutte le ciotole e ciotoline che servono all’uopo. Sarà che personalmente odio la pratica di montare le chiare a neve e i tuorli da un’altra parte: perché è tempo in più e perché sono già due ciotole diverse da dover lavare poi.
Ma a parte questi dettagli tecnici…la torta è buona, molto soffice e con il sapore netto del marsala. A mio parere l’aggiunta delle mele le conferisce decisamente una marcia in più interrompendo l’effetto “mappazza” di un po’ tutte le torte da merenda o colazione eccezion fatta per quelle allo yogurt che risultano sempre estremamente morbide e umide.
-Ho ridotto lo zucchero di 50 gr e per i miei gusti era già abbastanza dolce così
- Gli amaretti in superficie tendono a bruciacchiarsi, quindi eviterei di metterceli e li butterei tutti all’interno
- Per la cottura sono stati sufficienti 35 minuti anziché i 60 dichiarati dall’autrice ma è vero che ogni forno è diverso dall’altro.


Ingredienti (per uno stampo da 24 cm)
 4 uova intere
 250g di zucchero semolato (io solo 200)
 150g di farina 00
 150 g di fecola
 ½ bicchiere di olio di mais
 ½ bicchiere di marsala
1 piccola mela golden tagliata a fettine sottili
Succo di limone
 1 bustina di lievito per dolci
 15 amaretti (circa 50 gr)
Un pizzico di sale

Procedimento
Sbucciare e tagliare la mela a fettine quindi spruzzarla di succo di limone per non farla annerire. Montare gli albumi a neve con il pizzico di sale, sbattere i tuorli con lo zucchero, quindi aggiungere il marsala e l’olio e successivamente la farina e la fecola mescolate prima con il lievito. Da ultimo incorporare delicatamente le chiare montate a neve. Mettere sulla base della teglia imburrata e infarinata, metà dell’impasto, spolverare con una parte degli amaretti tritati grossolanamente  e aggiungere i pezzetti di mela,
 coprire con altro impasto e terminare con i restanti amaretti (oppure metterli tutti direttamente nell’impasto ed evitare quest’ultimo passaggio).


Infornare a 160° per 35-40 minuti e come al solito affidarsi alla prova stecchino!

Gli alberi e i fiori dei miei viaggi

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Quando ho letto l’argomento di questo mese, della rubrica di Monica, mi sono venuti in mente, a valanga, un’infinità di immagini di fiori e alberi scattate durante i viaggi.
Da quelli più recenti, come gli immensi baobab africani, a quelli più lontani nel tempo, come le foreste di mangrovie di cui sono solcate le coste dell’Oceano indiano (tanto per rimanere sempre in tema e non cambiare latitudine..); dalle bellissime piantagioni di agave, alle distese di lavanda o ai campi di girasoli sparsi qui e là per il mondo.
Per non parlare dei fiori esotici: la Polinesia, con le sue ghirlande di tiarè, offriva spunti a volontà.
Così come il mercato di fiori di Amsterdam o tutte le bellissime ninfee di cui sono punteggiati gli specchi d’acqua dell’Isola Martana sul lago di Bolsena.
Poi però mi sono soffermata su altri particolari, sull’immagine un po’ stridente, un po’ affascinante della natura ingabbiata, di tutti quei giardini (o intere piantagioni) “artificiali” che per un motivo o per l’altro sono stati creati all’interno di edifici di cemento.
E che crescono e prosperano lì dentro, al chiuso, lontani dal sole e dall’aria, o potendo usufruire di questi due elementi solo protendendosi, annaspando verso l’alto, in uno spettacolo triste e affascinante nello stesso tempo.

1)      Il giardino tropicale all’interno della stazione ferroviaria di Atocha a Madrid, costruito sotto la volta di (poco)vetro e (tanto)acciaio che un tempo sormontava i binari. Ora la stazione vera e propria è leggermente spostata, mentre il giardino, costituito da oltre 500 specie di piante e abitato da nutrite colonie di tartarughe acquatiche, costituisce una bella piazza coperta su cui affacciano bar, ristoranti e negozietti vari. La temperatura è mantenuta  costante a 24°(l'umidità si fa sentire) e  una studiata illuminazione bianca e gialla ha la funzione di simulare (sigh!) le radiazioni solari.



2)      Il viale di palme all’interno dello sfarzoso aeroporto di Dubai





3)      Alberi schierati, conficcati nel cemento,racchiusi all'interno di un cortile di Siviglia







Le 3 foto partecipano alla rubricaIl senso dei miei viaggi  del blog Viaggi e baci.

Dall'Abc, con tutto il cuore, semplicemente - Ricciola al cartoccio

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Invitare a cena Gabriele significa dare sfogo a tutte le più riposte perversioni in tema gastronomico.
Abbattere ogni più tenace tabù culinario.
Sconfinare verso lidi di indicibile peccaminosità.
E mentre per tutti i giorni della settimana, compresi quelli prima e dopo le feste comandate, si sta attenti a bilanciare i nutrimenti, soppesare le calorie, bandire i grassi, soffocare sul nascere ogni velleità cibaria che sconfini nell'anche-solo-vagamente-poco-sano, quando c’è lui ogni regola viene abbattuta.
Cadono le difese.
Si rompono gli indugi.
Sprofondano gli argini.
Così, in un crescendo di grassi esclusivamente saturi e contenuti ricercatamente ipercolesterolemizzanti, s’è partiti timidamente col furbissimo pollo semifritto dell’Arabafelice(spacciato indebitamente per fettina panata proprio a lui che della materia è un fine purista - ma ha apprezzato-), transitando, poco più audacemente per un quarto di cinghialeda lui medesimo fornito, fino ad arrivare alle vette di una leggerissima, quasi evanescenteamatricianaold stylecondita solo di puro e autentico grasso di guanciale come gusto e tradizione comandano.
E io, fanatica della mia cucina senza grassi-senza burro-senza niente, fautrice dell’utilizzo esclusivo dell’olio extravergine d’oliva e nemica giurata di ogni vago accenno a un grasso minimamente diverso, in questi piatti robusti e corposi non mi ero, prima del suo arrivo ormai abituale in casa nostra, mai cimentata.
Tanto che l’amato bene, fierissimo trasteverino da sette generazioni, ne aveva ben donde di dirmi che forse era il caso che prima di lanciarmi in sofismi e arzigololamenti speziati e orientaleggianti imparassi a cucinare le basi, l’Abc, le fondamenta della vera cucina romana.
La quale, bontà mia, conosco davvero poco o niente.
Stavolta quindi, a sostegno della necessità di intraprendere seriamente approfonditi studi in materia, Lui aveva richiesto la pasta alla carbonara.
Nientedimeno.
Che ce vo?
Ma si sa invece che i piatti più insidiosi sono proprio quelli apparentemente più facili...
Difatti, dopo aver tentato inutilmente di svignarmela, convincendo l'irremovibile amato bene a ripiegare su quella famosa versione light e ben riuscita della pasta in questione, mi sono messa di buona lena a cercare, studiare, informarmi, apprendere, rubare segreti, carpire trucchetti.
Trovandomi davanti una marea di versioni, ognuna ovviamente spacciata per quella “autentica”.
Con sottigliezze apparentemente di pochissimo conto come:
- guanciale o pancetta (è nell'amatriciana che ci vuole esclusivamente il guanciale, ma provate a vedere se per la carbonara esiste uguale certezza assoluta…)
- cipolla sì/cipolla no
- quanti tuorli e quante uova intere
Un’unica certezza mi derivava dalle scarsissime esperienze passate: no panna e no latte, la cremina si fa solo con uova e pecorino, tutto lì.
Peccato per un piccolo dettaglio: me non piacciono le uova. 
Non ne sopporto l’odore, mi stomaca vederne l’albume (che mi fa pensare a una gallina col raffreddore), a malapena tollero la vista di una frittata che mangio solo se bruciacchiata, a riprova che l’uovo sia stracotto, neutralizzato, quasi evaporato.
Come si può dunque cucinare una cosa partendo dal presupposto che se ne aborrisca proprio l' ingrediente principale?
Come se dicessi: domani cucino la trippa e la sola vista di quella pezza bianca e porosa mi faccia tremar le gambe.
Ecco a me questo effetto non lo fa la trippa ma lo fanno le uova utilizzate crude.
E nella carbonara si sa, sta tutto lì: nella velocità con cui si amalgamano la pasta appena scolata, la pancetta appena rosolata, il pepe appena macinato, con tutto quell’odore, inconfondibilmente marcescente di uovo (che deve rapprendersi appena e solo con l'ausilio del calore della pasta...quindi crudo, dai, parlamose chiaro!), che sale su dal fondo del tegame.
Morale? M’è venuta una schifezza.
Almeno per gli standard cui ambiziosamente tendevo e tutte le mie aspettative e i buonissimi propositi.
Eppure ce l’avevo messa tutta.
L'aspetto poi non era nemmeno così negativo

Ma è bastato il tempo di impiattarla per farla rinsecchire un po', asciugare troppo e tutto il resto era slegato: i sapori distanti, l'armonia del piatto persa nei meandri di tutte le elucubrazioni per realizzarlo....
Troppo tecnicismo e poco cuore forse.
Sta di fatto che, in ogni caso,se la so' magnata lo stesso.
Ma ora è una sfida aperta. Che prima o poi vincerò (stay tuned), a costo di andare a lezione da un romano verace per farmela insegnare (sempre perchè le cose io per bene o...).
La cena in questione, comunque, ha dato come frutti meravigliosamente graditi i doni in natura con cui si è presentato l'ospite di riguardo, Gabriele per l'appunto:
-3 bellissime penne di fagiano per la sottoscritta come ricordo di una battuta di caccia
- un vassoio di golosissime minipaste
ma soprattutto......

una ricciola e un piccolo tonnetto pescati solo poche ore prima da suo padre.
Profumo intenso di mare, di estate, di buonissimo.
E qui proprio tanto, tantissimo cuore, puro amore e assoluta dedizione nel cucinarla...per un risultato che parlava da solo: altro che carbonara!!!
E per la cucina romana pazienza, c'è sempre Trastevere...

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Dice che le due regole fondamentali per gustare bene il pesce (a parte che sia fresco, meglio ancora se appena pescato…) siano: lavarlo bene e cuocerlo poco.
Io ne aggiungerei una terza, che è quella di condirlo pochissimo, quasi niente, per non confonderne il sapore, perché questo esploda nelle narici e poi in bocca all’apertura del cartoccio e quando si assapora il primo boccone.
Un’estasi, una poesia: il mare dentro!

Ingredienti (per 2 persone)
1 ricciola freschissima di circa 7-800 gr
1 rametto di rosmarino
1 spicchio d’aglio piccolo
1 fettina di limone (ovviamente bio) con tutta la buccia
Un accenno di sale
Un accenno di pepe
Un filo d’olio extravergine d’oliva

Procedimento
Praticare sulla ricciola un taglio lungo la pancia partendo dalla base della testa: eviscerarla con cura e sciacquarla sotto l’acqua corrente, quindi metterla per qualche minuto a scolare “a pancia in giù”.
Nel frattempo lavare il rametto di rosmarino, sbucciare lo spicchio d’aglio e  dividerlo a metà, scegliere la teglia in cui sistemarla e accendere il forno a 180°.
Tamponare leggermente la ricciola con della carta da cucina e praticarle 2-3 taglietti trasversali su un fianco, condirla all’interno con il sale, il pepe, l’aglio, il rametto di rosmarino e la fetta di limone. 

Sistemarla su un rettangolo di carta forno, cospargerla con un filo (ma proprio un filo) d’olio, coprirla con un altro rettangolo di carta forno e chiuderla alle due estremità come se fosse una caramella.


Cuocere in forno per 20-25 minuti al massimo, non di più.


Aggiornamenti ginnici – Crostata di amarene

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La situazione in palestra, dall’inizio del corso a oggi, si è evoluta ed affinata.
Da che prima eravamo solo in 3 a ballare l’Hully Gully…no! a scriccare e tirare muscoli e tendini per (tentare di) guadagnare una regolare ed armonica postura che ci faccia (in cuor mio) magari allungare pure un pochetto, ma soprattutto far passare qualche dolore e (già che ci siamo) acquisire un’andatura lievemente più aggraziata, adesso siamo una nutrita schiera di ben 8 (otto!) bipedi comprensivi pure di due esponenti di sesso maschile.
Un tale operato di ernia e un altro che appare e scompare saltando la maggior parte delle lezioni, ma comunque, a modo suo, c’è.
L’età media continua ad aggirarsi sulla settantina, ma questo passa il convento e del resto considerata la pista che mi lasciano gli arzilli avventori della palestra, con problemi e non, la cosa mi conviene pure, che diversamente farei davvero (se possibile) una ben più magra figura….
Movimenti lentissimi, posizioni tenute molto a lungo, silenzio ovattato, musica dolce e rilassante, il ritmo del respiro a guidare ogni cosa.
In pratica: una noia indicibile, uno schianto d’anima e d’orpelli senza eguali, ma l’obiettivo benessere è tutto ciò che conta e noi siamo lì per quello!
Questo tuttavia solo nei giorni di lunedì e mercoledì, perché la questione si è evoluta anche per ciò che concerne gli aspetti pratici.
Il torturatore ufficiale ha dovuto abdicare in favore di un’altra posturologa che però svolge il suo corso solo nei giorni dispari ad eccezione del venerdì, così ci è stata magnanimamente offerta la possibilità di sostituire quest’ultima lezione con un'altra di ginnastica funzionale.
Che fino a venerdì scorso, per l’appunto, non sapevo nemmeno cosa fosse.
Non che ora l’abbia capito pienamente, ma perlomeno comincio ad averne una vaghissima idea.
Lì la faccenda è completamente diversa: tanto per cominciare tocca svegliarsi un’ora prima e trovarsi lì alle 9 spaccate per quella sorta di risveglio muscolare da attuare (con una certa premura) quando quello mentale ancora manco ha iniziato a  compiersi.
Ma poi.
Una masnada di gente.
Un turbinio di voci e tenute ginniche di provenienza e stile tra i più disparati.
Tra pinocchietti e tutine rosa.
Bermuda bianchi e cargo variopinti.
Colori sgargianti.
Tessuti hi-tech.
Outfit degni di Carla Gozzi.
Musica (da discoteca) sparata a tutto volume.
Luci al neon, che non sai se fuori è estate o inverno, giorno o notte, caldo o freddo.
I segni del cuscino ancora sulla faccia, la testa ancora ovattata di sonno.
Ma poco importa, siamo lì per allenarci, noi!
E intorno tutto un gran vociare, di gente perfettamente sveglia, pronta, scattante.
A rimanere invariati sono: l’età dei protagonisti e la mia riluttanza.
La schiera di nonnette e nonnetti che affolla quell’orario lì ha dell’incredibile e mostra, tutta compatta, la fascia maggioritaria di cui si compone la cittadinanza del nostro piccolo comprensorio.
Arrivo io: tuta larga e lenta, maglietta informe (a maniche lunghe e accolllatissima, non sia mai),  calzini a pois gialli e blu se va bene, o con pinguini e cuoricini quando mi sento particolarmente ispirata
(a yoga basta una specie di pigiamino bianco, è evidente che i completini stilosi da palestra non facciano per me…e a dirla tutta è proprio il concetto di palestra in sé ad appartenermi poco…).
Mi tolgo le Nike -unica concessione al tollerabile- e guadagno il posticino più remoto in fondo alla sala arrancando maldestramente sul tatami, finché un azzimato signore in calzoncini da ciclista mi informa che l’ultima fila è riservata agli uomini – qui presenti in numero di 3!-….ragione per cui cambio rotta e mi risolvo a raggiungere la parete di lato, pronta, stavolta, a difendere la mia postazione con le unghie e con i denti, che io, lì davanti agli specchi e a tiro di istruttore manco morta.
Ma il problema in realtà nemmeno si pone, affollatissime come sono le avanguardie dello schieramento di atleti.
Le signore presenti premono e spingono per disporsi tutte insieme in prima linea, lasciando le retrovie ai signori uomini e, d’ora in poi, alle sciatte malvestite come la sottoscritta.
Nell’attesa che si cominci, mi guardo intorno: cosciotte strizzate in attillatissimi pantacollant (oh scusate: fuson, ehm volevo dire: leggins!),  magliettine superattillate a fasciare anelli di pance in esubero, canottierine striminzite con bretelle che si incrociano sulla schiena, piedi nudi che mostrano orgogliosi unghie fresche di french (e pazienza per l’alluce valgo o il piede a martello o i duroni sui talloni).
A completare il tutto: bracialletti, anelli, orecchini che tintinnano e sbrilluccicanonell’ambiente fumoso del garage travestito da palestra.
Si aprono le danze, cominciano i saltelli, gli allungamenti, i piegamenti: di sotto di sopra di lato.
Poi via, “prendiamo i pesetti!”, urla l’invasato che ci guida.
Io rimango attacca al muro, che pure se non li prendo sti pesetti e vabbè, in fondo so quella della posturale io, prestata alla ginnastica funzionale solo il venerdì, mica posso farli proprio tutti tutti  sti movimenti inconsulti.
Ma non finisco di articolare il pensiero che la mia amichetta, pure lei di posturale (di anni 69, con pregressa doppia frattura di due vertebre…) mi raggiunge tutta fiera con due attrezzi di un bel colore viola da 1 kgl’uno: “li ho presi anche per te, sennò quelli leggeri finiscono!!”.
Dolce.
Ringrazio commossa e ari-via, si riprende a saltellare, sempre a ritmo di musica, fino a che, passati un paio di minuti appena, mi fermo, mi blocco, mi rifiuto di proseguire: sudaticcia, appiccicaticcia, rossa in viso, boccheggiante per l’affanno, mentre intorno a me, a parte il signore in tenuta da ciclista che smadonna per un crampo (…ehehehe), ogni singola matura signora continua indifferente a zompettare del tutto immune, pare, a tutto lo sbattimento in atto.
Non solo: trovano, non è dato di capire dove, pure la forza di chiacchierare tra loro!!
Spettegolano, perdendosi in rivoli di suggestivi racconti di vita quotidiana dominati da personaggi chiave come aa giornalara, aa mercantina, er pizzicarolo;  informano noi altri su cosa hanno preparato per cena e sui gusti difficili dei rispettivi (immagino minimo 50enni) pargoli , si interrogano retoricamente ma ad alta voce (solo lievemente intervallata da un respiro poco più affannoso) sulle azioni che devono compiere una volta usciti (si spera vivi) di lì: devo annà in banca, speriamo che nun c’è troppa fila!
E l’altra di rimando: vengo co te, tanto devo passà pure ar mercato
E via di questo, sincopato passo.
Mentre io l’unica azione che riesco a formulare per il futuro prossimo è quella di stravaccarmi sul primo sedile utile fosse pure il nudo tatami, allo scopo, perlomeno, di riprendere fiato.
Pure all’istruttore devo fare leggermente pena, quando, con discrezione, si premura di urlarmi:
“Luna, attenta a non inciampare sui pesetti!!!”
(ce manca solo questo!)
O quando, ricordandosi della mia situazione cervicale (o forse più che altro vedendomi fortemente in ambasce, oltre che allibita) dalla parete a specchi, sempre a gran voce mi informa che (tanto pe  fa i vaghi):
“Luna, tu questo esercizio non lo puoi fare, lascia perde!”
(che si sappia, una volta di più, quanto so’ impedita!)
Ma il culmine, tutta la faccenda, lo raggiunge a fine lezione, quando sempre l’istruttore si avvicina per chiedermi com’è andata.
(stavolta con una lieve nota di dolcezza nella voce, senza ironia, nel timore magari di un prossimo mancamento..)
Rispondo sinceramente che il confronto è stato….frustrante? no, di più: devastante!
E lui, magnanimo, decide di rincarare la dose, che le terapie d’urto si sa, sono sempre le migliori.
Serafico mi indica una signora che si deterge lievemente il sudore dalla fronte mentre svolazza, leggiadra verso le docce: “sai quanti anni c’ha quella?”
No e manco lo vojo sapè , sarei tentata di rispondere.
87
Ecco.

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 Questa è la crostata che prepara mio suocero. La sua particolarità è quella di essere piuttosto alta e di avere la consistenza morbida di un ciambellone ma col sapore inconfondibile della pasta frolla....
Lui la cuoce direttamente sulla leccarda, ma in uno stampo da 26 cmdi diametro acquista una forma lievemente più aggraziata e trasportabile..
Ottima anche la soluzione di riempirla con metà marmellata ai frutti di bosco e metà di fragole.

Ingredienti
300 gr di farina setacciata
150 gr di burro
130 gr di zucchero
2 tuorli
1 uovo intero
la scorza grattugiata di ½ limone
1 pizzico di sale
1 barattolo di marmellata di amarene
1 uovo diluito con poca acqua per spennellare la superficie della pasta

Procedimento
Lavorare il burro freddo con la farina, fino a che non si formano tutte briciole. Aggiungere quindi lo zucchero, i tuorli, l’uovo, la scorza del limone e il sale, lavorando con cura ma il più velocemente possibile.
 Se l’impasto sarà lavorato più del necessario tenderà a sgretolarsi: in questo caso diluirlo con un goccio (piccolissimo!) di acqua fredda. Ricavare dall’impasto un panetto e lasciarlo riposare almeno mezz'ora in frigorifero avvolto in un panno. Trascorso questo tempo dividerla in due parti uguali da tirare in due sfoglie, spolverizzandole con un po’ di farina. Imburrare una teglia da crostata, stendervi dentro la sfoglia facendola aderire bene sul fondo e ai lati, quindi ricoprirla uniformemente con la confettura. Tagliare la seconda sfoglia a striscioline piuttosto spesse e disporle incrociate sulla crostata. Con i ritagli di pasta formare un bordo da disporre tutto intorno alla crostata, quindi spennellare, sia il bordo sia le striscioline, con l’uovo diluito e battuto. Infornare a 180°  (preriscaldato). La crostata sarà cotta non appena le striscioline inizieranno a dorarsi. Sfornare e lasciarla raffreddare bene prima di disporla su un vassoio e servirla.


Always On – Tofu piccante con verdure

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Che in questa casa si sia lievemente restii a ogni forma di innovazione tecnologica e aggiornamento specie informatico è cosa ormai risaputa.
Dal tomtom (il nostro e pure quello noleggiato a caro prezzo in Sudafrica) lasciato a far la muffa nel cruscotto della macchina, ai modelli di cellulare dei tempi dei famosi Checco e Nina (che chi erano poi me lo dovrebbero spiegà..), i nostri corredi tecnologici, personali e della casetta, costituiscono davvero un’accrocco di antichità degno di nota e meritevole di studio.
E se per caso vi siete dimenticati di come sia fatto un televisore col tubo catodico, provate a venire nel nostro salotto….
Arrendersi al nuovo che avanza, piegarsi alle logiche dell’era contemporanea, accettare la portata di tutte queste novità è davvero difficile per due nostalgici, conservatori, criticoni come noi.
Del resto io sono sempre quella che pensa si sarebbe trovata perfettamente a suo agio nell’800 e possibilmente nella  prima metà.
Fra carrozze e lampioni a olio.
Ombrellini parasole e mutandoni di merletto.
Melodrammi e maniche a sbuffo.
Duelli e nei finti.
E si badi che tra i due io sarei quella minimamente più propensa a provare.
Se non altro curiosa.
A volte caparbiamente decisa perlomeno a tentare di capire.
Che mica si può stare sempre 10 passi indietro e trovarsi a non poter partecipare a una discussione per mancanza di conoscenze specifiche e oggettivi dati di riscontro.
Ragione per cui al quarantesimo dell’amato bene ho deciso di lanciarmi in un doppio carpiato all'indietro, nel baratro dell’attualità, regalandogli nientedimeno che…un e-book reader!
Mica cavoli.
Lui è ancora lì che ringrazia a denti stretti, smadonnando intimamente per essere ora costretto pure a usarlo (davanti al mio sorriso sadico travestito di dolcezza che tradotto in parole equivarrebbe semplicemente a mo’ vojo proprio vedè come te metti) e rigirandoselo incerto tra le mani mentre costernato, scuotendo il capo, sfiora il display per voltare pagine virtuali e senza manco la necessità di umettarsi le dita!
Ma siccome quella che voleva provarlo era io (lasciandomi aperta la porta per poter tornare indietro alla mia odorosa e frusciante carta stampata), quale strategia migliore che spingere lui a farlo per primo, spiattellandoglielo lì come prezioso regalo di compleanno?
Sempre per tutte queste ragioni del resto mi sarei arresa, ormai tre anni or sono, al desiderio di un diario virtuale come il qui presente bloghetto
(oltre che per la necessaria dose di esibizionismo insita nella smania di possederne uno….che tutto il resto viene dopo, daje su…).
Ma la tecnologia non è statica, non ti dà il tempo di abituarti, non rimane lì a farsi conoscere intimamente fin nei minimi recessi e fino a possederne ogni più riposto segreto.
Cambia alla velocità della luce, si evolve, ti costringe a stare sempre sul filo del rasoio, sempre in allerta, sempre dietro alle novità, alle evoluzioni di cose che già ti parevano molto avanti…e invece il giorno dopo sono già superate.
E a quel punto non hai più scampo.
Sei in balia degli eventi e delle altrui evoluzioni.
In attesa che diventino pure le tue.
Così da Blogger passi a Google Più.
Da Google Più a Bloglovin.
Da Bloglovin a Ricercadiricette.
Da Ricercadiricette a Tribu Golosa, che pure quello dovrebbe essere molto carino, se solo avessi il tempo necessario (oltre semplicemente a iscriverti) pure a fermarti per capire bene di cosa si tratti
(che mica penserai veramente di poter rimanere fuori dai circuiti di un aggregatore di blogs?!)
E poi ci sarebbe Pinterstest.
Ma volendo anche Twitter.
E perché non Linkedin?
E nel frattempo hai smesso da tempo di mandare ricette a quel sito con cui le condividevi: ti piacerebbe tanto ma richiede tempo. Compila il modulo, riduci la foto, invia tutti e due…no, nun se po’ fa’.
E hai smesso di condividere altrove pure i racconti di viaggio.
Che pure lì ti ci vuole il tempo di adattare il racconto, e inviarlo, e scegliere le foto.
Via passiamo ad altro.
Fino ad approdare a quel mostro sacro che è Facebook.
Il mitico, universale, irrinunciabile, onnicomprensivo FacciaLibro.
Solo per provare, eh?
Manco si trattasse di questione di vita o di morte.
Nell’uno e nell’altro caso.
Che se ce l’hai vivi, se non ce l’hai campi lo stesso, eppure a un certo punto ti viene l’impellenza, la necessità, il fiato corto di provare.
Salvo sentirti divorare dall’ansia subito dopo aver fatto clic su “Crea profilo”.
Perchè poi è tutto un turbinio di azioni, di decisioni rapide, di contatti immediati.
Il vortice.
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Hai una nuova richiesta di amicizia: accetti? Oddio che devo fa’??
(ma poi scopri  l’opzione “Non ora” , che ti permette di rinviare l’ardua decisione, concedendoti, se non altro, il tempo di riflettere bene senza passare per cafona…che certe decisioni vanno ponderate, mica buttate a casaccio).
Ansia.
Stress.
Sudori freddi.
E il blog?
Quel semplice, lineare (più o meno), abbordabile diarietto virtuale da cui tutto era partito, che già è difficile da gestire di per sé fra crea post-scegli le foto-facci un collage-impara a metterci sopra quelle belle didascalie che vedi in giro e che ancora non sai come se fa
…e che ora si sta perdendo in centomila altri rivoli difficili, impossibili da gestire tutti insieme?
E tutti quegli altri blog che prima seguivi con tanta attenzione, meditando parola per parola, specialmente quelli dagli autori un po’ grafomani come te che prima di una ricetta scrivono storie appassionanti di vita o di niente, ma sempre bellissime, e ora invece leggi a scappar via perché il tempo è sempre pochissimo e devi scegliere se fermarti su una pagina o correre come una pallina impazzita da un posto (sempre virtuale) a un altro, che TU a un certo punto hai deciso di ritenere indispensabili?
 
(dal web)

Fermatelo sto mondo: voglio scendere!!!!!!
(almeno ogni tanto)

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Il tofu, ancora quel blocchetto di gesso insapore e incolore che tanto mi affascina.
Era restio l’amato bene, eppure stavolta al piatto ha concesso un larghissimo 7 e ½! (sì perché lui è quello che dà i voti ai piatti e poi, se passano la sufficienza chiede di rifarli…ma quando io non ho voglia di rifarli gli dico che in realtà quel piatto aveva strappato a malapena un 5 meno meno…..).
Qualche piccola variazione per mancanza di ingredienti( tipo i funghi shiitake), un po’ di pazienza per tagliuzzare tutte le verdure, però il tofu così conciato è proprio interessante: sfizioso e saporito.
Ma è ora che mi evolva pure qua e che mi compri un wok!


Ingredienti (per due)
250 gr di tofu
4 cucchiai di olio di semi
1 cucchiaio di radice di zenzero grattugiata
3 spicchi d’aglio pestati (io ne ho messi due interi)
4 cipollotti affettati (io solo 2)
1 piccolo cespo di broccoli siciliani
1 carota tagliata a julienne
1 peperone giallo tagliato a listarelle
250 gr di funghi shiitake (io ho usato champignon)

Per la marinata:
5 cucchiai di brodo vegetale
2 cucchiaini di fecola
2 cucchiai di salsa di soia
1 cucchiaio di zucchero (io l’ho omesso!)
½ cucchiaino di peperoncino in polvere

Procedimento
Sciacquare il tofu, sgocciolarlo e tagliarlo a cubetti, quindi metterlo in una ciotola, unire tutti gli ingredienti della marinata, mescolare con cura e lasciarlo riposare per almeno 20 minuti (io l’ho lasciato un paio d’ore..).

Nel frattempo preparare le verdure lavandole, mondandole e tagliandole.
Scaldare due cucchiai di olio nel wok e cuocervi il tofu con la marinata finché non sarà dorato e (lievemente) croccante (occorreranno circa 10 minuti a fiamma sostenuta, avendo cura di girare delicatamente).

Toglierlo dal wok e metterlo da parte.
Scaldare quindi l’olio rimasto e soffriggervi l’aglio, i cipollotti e lo zenzero per pochi secondi.
Unire tutte le verdure

 e cuocere, mescolando, per qualche minuto.
Rimettere il tofu nel wok e scaldarlo. Servire subito accompagnando a piacere con del riso bianco.


L’intortamento facile – Gratin di indivia riccia

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Ne è passata di acqua sotto i ponti, dai tempi in cui l’abitante unico e sovrano della qui presente casetta era l’amato bene.
E ne sono cambiate di abitudini.
E di stili di vita.
E di peso corporeo
E di gusti.
In origine erano tristissime e solitarie cenette (a orari variabili) sbracati sul divano (con il valore aggiunto dei piedi a martello sul tavolinetto antistante), prevalentemente a base di surgelati, sottoli, crackers, wurstel e pochissimo altro.
Magari vaschette intere di gelato, mezze stecche di cioccolato o avanzi di torta dei pranzi della domenica, come consolazione post-prandiale.
Un inutile dominio assoluto sul telecomando (perché se non te lo devi guadagnare che gusto c’è?), le finestre malinconicamente sigillate, il letto desolatamente e perennemente sfatto (che tanto poi ci rivado a dormire, che lo faccio a fa’?).
Poi sono arrivata io e la singletudine, con tutte le sue amenità, ha preso la porta di casa per dare nuova vita e una sferzata di energia a tutte quelle sue (insane) abitudini ormai radicate.
E mica è stato facile, eh?
E riduci progressivamente il suo spazio nell’armadio, facendo sparire ad arte, un giorno quella felpa inguardabile, un altro giorno quel maglione informe, un altro ancora quei cargo inutili, per far posto alle cinquanta(mila) sfumature di tutti i MIEI maglioni e vestitini e gonne e pantaloni.
E convincilo a buttare via gli anfibi, tutte le scarpe da ginnastica più vecchie, le ciabatte a forma di orso, e tutto il (suo) superfluo per far spazio a tutta la gamma di colori MIEI tacchi 5-9-12, degli stivali e delle infradito, delle sneakers e delle ballerine che non porto ma che potrei sempre aver voglia a un certo punto di avere.
E produciti in giochi di prestigio per far volatilizzare una volta per tutte la playstation insieme a tutti i suoi joystick per far posto alle MIE borse (e borsette e zainetti e sacche per il mare -almeno 3!- e pochette e shopping e…vuoi non avere una clutch rosso ciliegia di riserva di questi tempi?!)
E ammucchia tutti i suoi effetti personali in un'unica antina del mobiletto del bagno per prendere possesso delle restanti 3 (che mica c’ha i sieri antirughe, la gamma completa dei lucidalabbra e degli smalti coordinati e i flaconi di olio di mandorla lui: a che gli serve tanto spazio?).
E spronalo a comprarsi un portatile per poi prenderne completamente possesso quando si rompe il tuo.
E inducilo a portare tutti i libri già letti a casa dei suoi per far spazio esclusivamente ai MIEI che, vuoi mettere? Tra cucina e letteratura, ne beneficia anche lui, mica no.
Insomma, rosicchia spazio di qua, allargati di là,  ecco che la casetta è diventata quel che è ora: splendido esempio di convivenza civile e assolutamente democratica.
Dove vigono regole ferree e tabelle di marcia unanimemente stabilite.
Dove le finestre si tengono aperte (un pochetto) anche di notte, anche con zero gradi fuori, perché di un ricambio di ossigeno c’è sempre bisogno!
Dove a Natale si fa l’albero ma anche il presepe che mica perché c’è poco spazio bisogna per forza rinunciarci.
Ma il campo in cui si è esplicata la maggior fatica (e raccolte le maggiori soddisfazioni) è, senza dubbio, quello alimentare.
Dove  il mangiar sano non è solo sbandierato a ogni piè sospinto, ma anche tenacemente perseguito, che qua mica si gioca.
Abbiamo iniziato a familiarizzare con la frutta, questa misconosciuta, per poi passare a introdurre progressivamente le verdure, procedendo per grandi categorie secondo le stagioni: crucifere e solanacee in testa, che le patate sì, ma valeva la pena promuovere anche la conoscenza di pomodori e melanzane…
Ed ecco quindi che piano piano, con pazienza (mia) ed eroico sprezzo del pericolo nell’affrontare ogni volta un nuovo sapore (lui) siamo arrivati a toccare vette inimmaginabili.
Perfino associando dolce e salato, che pareva quassi peccato anche solo nominargliela, una stranezza del genere.
Abbiamo sdoganato invece l’arista con le mele
È giunto a considerare buono, dopo le prime perplessità, perfino il tofu, in tutte le sue declinazioni, dolci e salate.
Una sola cosa non mi era riuscita, prima di qualche giorno fa, di fargli assaggiare: la cicoria!
Per puntiglio, credo, non altro.
È amara.
È “filamentosa”.
Si attorciglia ai denti.
Sa di terra.
Decido di procedere a modo mio.
Lo osservo attentamente una sera mentre mangia estasiato, declamandone l’incredibile bontà, questo gratin di indivia riccia.
Ci riprovo una settimana più tardi, aggiungendoci più pangrattato, facendo abbrustolire meglio la crosticina sopra, esaltandolo con un pizzico in più di peperoncino che a lui piace tanto.
Poi lo guardo mangiare di gusto.
“ti piace?”
“buonissimo”
“meglio questo o quello della scorsa settimana?
“ oh non c’è paragone: questo sicuramente!”
“bene: ti informo che ti sei appena mangiato un piatto di cicoria”
…E anche questa è fatta, gente!

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Va da sé dunque che questo gratin può essere, indifferentemente, di indivia o di cicoria. Io, essendo integralista e dovendo promuovere uno specifico sapore, l’ho fatto più semplice possibile, ma naturalmente lo si può arricchire con parmigiano, olive nere, un po’ di cipolla….l’importante è sempre svelare il tutto a cose fatte!

Ingredienti
1 cespo di indivia riccia
Qualche cucchiaio di passata di pomodoro
Pangrattato
Olio extravergine d’oliva
Sale
Peperoncino (facoltativo)

Procedimento
Mondare l’insalata eliminando le foglie più esterne e lavarla bene. Portare a bollore una pentola di acqua, e sbollentare l’indivia per qualche minuto (più o meno quando inserendo una forchetta nelle coste più dure questa non incontrerà una grande resistenza), quindi scolarla bene.
Prelevare piccole porzioni di insalata e strizzarla bene con le mani; disporla su un tagliere e sminuzzarla grossolanamente. Oliare una teglia e cospargerla di pangrattato. Condire l’indivia con olio, sale e peperoncino, quindi disporla nella teglia su un unico strato. Aggiungere qualche cucchiaiata sparsa di passata di pomodoro, cospargere tutto di pangrattato, finire con un giro d’olio e infornare a 180° per una decina di minuti e altri 5 infunzione grill.



Un papiro per amico – Mousse au chocolat

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Deve essere stata la cicoria
Una vendetta tardiva e trasversale per ribadire il concetto che chi decide cosa e quando mangiare non sono io.
Del resto, sarebbe pure giusto.
A sembrarmi un filo scorrette o perlomeno inique sono la premura eccessiva e l’attenzione maniacale che l’amato bene rivolge a quella (potenzialmente) magnifica (se solo avesse tempo e modo d’esprimersi appieno) pianta di papiro che staziona sul balcone di ingresso della nostra casetta (in cui sì: si accede dal balcone…).
Mentre le restanti ospiti verdi, dimoranti in vasi più o meno grandi, più o meno evidenti, non le guarda manco di striscio e, se interrogato in merito, fatica pure a elencarne un paio fra quelle in nostro possesso, per il papiro pare aver sviluppato una vera e propria passione.
Insana, bizzarra, a tratti oscura, ma pur sempre passione.
E mentre dichiara apertamente la sua avversione per le due piantine di rose reputandole inutili perché, a suo dire “fanno uno/due fiori mezza volta all’anno– corrispondenti a quelle uniche due volte cioè in cui si degna di guardarle…-  e poi rimangono i rovi vuoti e rinsecchiti  a occupare solo spazio”; o guarda con aria di sufficienza il rigoglioso cespuglio di “belle di notte” nato da una manciata di semini raccolti la scorsa primavera e buttati distrattamente nel vaso, il papiro è stato, fin da subito, (drammaticamente) affar suo.
Se ne è impossessato d’ufficio dedicandogli, dal momento in cui ha iniziato a cacciar foglie, la massima attenzione.
Osservandolo, studiandolo, andando perfino nella palude che costeggia la spiaggia a prendere lunghe canne di bambu cui ancorare i suoi lunghissimi e delicati steli.
Sarà che lui, in quell’angolo di balcone dove sta il papiro, va a fumare.
D’estate e d’inverno, col gelo e con l’afa.
E quindi si ritrovano puntualmente lì, lui e il papiro, loro due soli, e al massimo l’ululato del vento come sottofondo.
Essendo la frequentazione tutt’altro che sporadica dunque, deve essersi sviluppato, tra i due, un amore viscerale.
Di quelli profondi e tormentati però. Appassionati e possessivi.
Una relazione simbiotica di empatia e scambio reciproco.
Lui un po’ di fumo di sigaretta, quello una contropartita di ossigeno, alla luce del giorno, o un refolo di anidride carbonica sul calar della sera, in un rapporto, di mutuo soccorso, davvero unico ed esclusivo.
Siccome però l’amore non è privo di contraddizioni e segue logiche tutte sue, spesso inafferrabili dall’umana ragione, capita di punto in bianco, a cadenza (ho notato) più o meno semestrale, che il miserello (quello verde, tra i due) si veda recidere, uno dopo l’altro, tutti i suoi lunghissimi e magnifici steli, ritrovandosi, al termine del trattamento, raso al suolo e dotato, a quel punto, solo di una manciatina di zeppi spelacchiati.
Il fatto viene giustificato, ogni volta, con motivazioni fra le più fantasiose e disparate:
-così cresce più folto
-così si rinforza
- le foglie erano tutte ingiallite
- era ora di dargli una bella spuntata
Ora: dalle scarsissime nozioni botaniche in mio possesso e dal basso del mio pollice che più nero non si potrebbe, so che quando il papiro mette una nuova foglia, parallelamente se ne ingiallisce una vecchia (o viceversa insomma, ma il risultato è lo stesso..), in un ricambio continuo che avviene naturalmente  e senza bisogno di interventi di sorta.
Di norma.
Qua, già dopo pochissimi giorni di permanenza nella nostra famiglia, lo sfigatello aveva capito che questo suo naturale processo di ricambio avrebbe dovuto svolgerlo con prudenza.
E soprattutto di nascosto.
Agire con furbizia.
Senza farsi vedere, senza dare troppo nell’occhio, insomma.
Infatti porello non l’ho mai visto cacciare una sola fogliolina gialla: o per ogni vecchia foglia che muore, prontamente lui ne ricaccia due, tanto per controbilanciare l’affronto.
E a quelle che stanno per cadere non permette di ingiallirsi prima: le mummifica direttamente fino a che non stramazzano senza aver cambiato colore, che la prudenza non è mai troppa.
Ma il vento della scorsa settimana, il freddo improvviso, l’acqua a catinelle, devono averlo tradito e indotto a commettere un’imprudenza e a cacciarne ben tre di foglie gialle. Tutte in una volta.
Particolare fatale che è immediatamente balzato agli occhi del suo integerrimo e sollecito amico fumatore: “Oddio!!!!cos’è quel colorino giallognolo che intravedo sulla punta di una delle tue foglie? Cielo un segnale di sofferenza! Ma non preoccuparti amico mio, ci penso io. Ora ti taglio tutto! Tutto, eh? Non ti lascio nemmeno uno stelo, così ricresci bello forte”.
Ed è così che il papiro del nostro balcone è costretto a vivere in uno stato di perenne “ri-crescita” come un dannato nell’inferno dantesco che ripete eternamente il proprio castigo.
Lui non cresce: ri-cresce.
Non si sviluppa: sta attento a come si muove.
Non fa ingiallire le sue foglie come tutte le piante: le ingoia, pur di sfuggire al talebano che si occupa, amorevolmente, di lui.
Poi torno a casa io.
Torrente di parole, racconti della giornata, progetti per il fine settimana e, in mezzo al fiume, la butta lì, la confessione della sua marachella: “ah senti, poi ho tagliato il papiro, che s’era tutto ingiallito”.
Tutto?
“Sì, sì, t’assicuro: proprio tutto giallo, allora ho dovuto tagliarlo, mica potevo lasciarlo così”.
Certo.
Una domanda esistenziale sorgerebbe spontanea:
Amore, perché non smetti di fumare (e di occuparti del papiro, o anche solo di quest’ultima cosa)?!


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Tanto per stare leggeri in attesa delle grandi mangiate delle feste. Ma in realtà la mousse, a modo suo, leggera lo è: solo (dell’ottimo) cioccolato, uova (freschissime), qualche cucchiaio d’acqua, un po’ di olio di gomito….e la sua inconfondibile sofficità, per una coccola davvero unica, che consola, eh?
Anche in casi come il sopraccitato.

Ingredienti (per 4)
200 gr di cioccolato fondente (almeno 75% di cacao)
4 uova intere
60 gr di zucchero
½ bicchiere d’acqua
1 bustina di vanillina (o i semi di mezza bacca di vaniglia)

Procedimento
Spezzettare il cioccolato, metterlo in un pentolino sovrapposto a un altro contenente acqua che però non arrivi a toccare il fondo del primo recipiente e porre tutto su fuoco basso per far sì che sì che il cioccolato si sciolga lentamente.
Quando sarà completamente fuso aggiungere la vaniglia e, progressivamente lo zucchero mescolando con una paletta di legno fino a incorporarlo del tutto.
Separare i tuorli dagli albumi e unire i primi al composto di cioccolato continuando a mescolare sempre nello stesso senso.
Unire quindi anche l’acqua (a temperatura ambiente) ancora mescolando.
Montare gli albumi a neve ferma con un pizzico di sale, quindi aggiungerli al cioccolato con movimenti circolari dal basso verso l’alto per incorporarli lentamente senza sgonfiarli.
Disporre in quattro coppette e riporre in frigo per almeno 4 ore prima di servire.


Note: si può sostituire la vaniglia con la punta di un cucchiaino di peperoncino in polvere e il bicchiere d’acqua con una miscela di acqua appunto e del liquore preferito (rum, amaretto, strega, maraschino, ecc).

Falling in love - Spadellata di verdure alla curcuma

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Ormai è ufficiale: non posso più farne a meno.
Come del caffè appena sveglia o del pigiama di Mafalda con le stelle fosforescenti; del lucidalabbra da mattina a sera o della pila di libri sul comodino; dell’acquisto compulsivo di riviste di cucina o del cioccolato fondente all’85%….(e potrei continuare, spaziando, per molto).
La palestra (e le sue signore del venerdì) è entrata a far parte delle mie giornate e della mia vita in modo così profondo e capillare, da sentirne prepotentemente la mancanza quando per un motivo o per l’altro (mannaggia!) di tanto in tanto sono costretta a saltare una lezione.
In quegli sporadici casi in cui ciò avviene (mio assoluto malgrado, lo giuro: manina-sul-cuore-anche-se-incrocio-è-lo-stesso), mi mancano le chiacchierate a cielo aperto così come le confidenze intime e inconfessabili che si consumano nel sottobosco pullulante degli spogliatoi.
L’allegria scanzonata e lo spargimento di saggezza (oltre che di sangue copiose sudate) con cui si eseguono esercizi e movimenti.
Tutti i consigli e gli incoraggiamenti a non mollare e sperare così, un giorno non molto lontano, di arrivare pure io, pivellina, ai loro livelli di scioltezza e agilità.
Nun te preoccupà, è tutta questione d’allenamento -  mi rassicurano bonarie.
Arrivando perfino a  rimproverarmi e a sottopormi ad accurato interrogatorio dopo ogni singola assenza.
Tanto che adesso come adesso potrei saltare con una certa leggerezza d’animo un’ora di posturale, ma di funzionale no! Mai: a fare sega il venerdì ci penso due volte, che sennò, oltre ai miei personali sensi di colpa devo sorbirmi pure i rimproveri delle nonnette, severissime e integerrime personal trainers de noantri.
Istruttore fatte da parte, che a questa ce penzamo noi!- paiono apostrofare il legittimo deputato al delicato compito, ormai defraudato del suo ruolo, almeno per ciò che concerne la sottoscritta.
Ma questa si chiama costanza, signori.
Forza di volontà, abitudine al sacrificio e loro sono lì, sempre pronte a infondermele, ricordarmele, farmele fissare bene in mente.
Sostenendomi, incoraggiandomi, spingendomi a non mollare. Mai.
Per questo le adoro: sono ormai perdutamente innamorata del loro entusiasmo e della loro vitalità.
Affascinata dalla caparbietà con cui si mettono de tigna a fare gli esercizi.
Tutti, nessuno escluso.
Perché non c'è limite alla flessibilità, manco a 80 anni (e oltre).
L’ora di palestra sul fare dell’alba oltretutto (a parte la difficoltà di aprire gli occhi al mondo con la prospettiva di catapultarsi subito in quella realtà di fatica: “eh ma la pigrizia la vinci, bella mia!” risolvono secche e rapide le mie tutors) ha il vantaggio di garantire uno stop forzato pure a ogni sorta di paturnia con la quale dovesse mai capitare (e capita!) di alzarsi dal letto.
È infatti ufficialmente riconosciuto (da comprovata esperienza sul campo) che anche iniziando la giornata col piede storto, preda di istinti bellicosi (er primo che me dice qualcosa me lo magno e se insiste je meno pure!) e un tale rodimento di chiccherone che al confronto la sindrome premestruale è allegria allo stato puro, basta scambiare quattro chiacchiere con le nonnette in questione che ogni problema viene ridimensionato; ogni traccia di nervosismo neutralizzata; qualsiasi accenno di marmatrone sciolto come neve al sole.
A volte non serve nemmeno interagire, basta farsi ascoltatore disponibile, amichetta accondiscendente, cassa di risonanza di perle di saggezza e amenità per trarre beneficio.
Assecondarle.
Lasciarle fare insomma.
Accettando di diventare la loro pupilla, sistemandosi bene sotto l'ala protettrice che hanno dispiegato per me, che del resto: a chi non piacciono coccole e attenzioni?
Sì, magari un filo rudimentali e una ‘nticchia travolgenti...e poi lievemente esigenti, un po' impegnative, ecco, ma pur sempre, concettualmente, coccole.
Anche perchè in tutta onestà "la scelta", di fronte a tanto ardore e tale impeto, viene necessariamente con sé…in maniera diplomatica e democratica.
Guarda e impara come se fa, ciccia.
Il durissimo corso dunque ha inizio già negli spogliatoi (dove per inciso io entro giusto per posare il giubbotto, che in palestra ci arrivo già dotata di tuta, per quanto discutibile..).
Basta varcare la soglia per trovarsi immersi in un mondo fatto, oltre che del frastuono di voci che si accavallano, di pizzi e merletti, di bretelline sottili e triangolini striminziti, di stoffe lucide e tessuti preziosi, altro che mutandoni della nonna e false credenze simili!
Lezione numero 1:
in palestra ce se viene acchittate.
Dotate di un certo stile, anche (…o solo) nell’intimo invisibile.
Con la cartuccia della seduzione sempre in tasca, che nella vita nun se sa mai.
E soprattutto: ci si cambia sul posto, che la tuta (come i pinocchietti o i leggins e tutte le altre svariate tenute ginniche prescelte) è affare da riservare solo al microcosmo dedicato all’allenamento.
Altro che solo cotone o microfibra che non-stressa-non-stringe-non-strappa, possibilmente senza cuciture a vista.
A 20 come a 80 anni, dalla taglia 38 alla 56, la questione non cambia e le regole rimangono invariate, tanto vale fissarsele bene in mente e soprattutto applicarle.
Capito tutto, Ciccia, che te presenti in palestra con la tracolla di lana cotta a forma di gufo?!
(ahhhh se sapessero del pigiama di mafalda e della mia passione per tutto, indistintamente, il campionario di Oysho).
Esaurite le chiacchiere (non un attimo prima! e il tempo che ci vuole ad espletare la pratica è a totale discrezione loro, mica dell'orologio o dell'istruttore che insieme agli altri 2 malcapitati e invisibili signori uomini attendono fiduciosi che si possa iniziare...) finalmente, si va.
E quando dopo svariati richiami all’ordine, superando il chiacchiericcio, il tutor ufficiale (ma solo sulla carta) riesce, sgolandosi, a impartire qualche indicazione, si assiste a tutta quella sequela di commenti di approvazione (o meno) rispetto all’esercizio, tanto che la sua libertà di scelta ne esce, sotto velatissime minacce, ampiamente limitata: prova a facce fa’ quell’esercizio lì e sei un uomo finito, paiono saettare gli sguardi delle tizie.
Non solo: le nonnette, in un delirante scambio di ruoli, per qualche breve attimo si fanno personal trainers pure dello stesso maestro, controllandolo passo passo e redarguendolo aspramente se per caso all’ordine di “tenete la pancia in dentro, sollevate le braccia, piegatevi leggermente sulle ginocchia” una di queste cose lui, nella foga di mostrare come se fa, trascura di metterle in pratica “ah le braccia vanno tenute così? E perché allora tu le tieni così basse?!!”.
Ma con le signore palestrate funziona così: non ci si può distrarre un attimo, non si passa inosservati, nemmeno se si è istruttori, nulla può sfuggir loro, nun se scappa.
Dopo il riscaldamento si passa al rutilante e affascinante mondo degli attrezzi, dove ogni volta è una scoperta, un macrocosmo di nuove conoscenze che si aprono, un tripudio di esperienze formative che si profilano all’orizzonte (quando finalmente si arriverà a padroneggiarne pure le tecniche senza conseguenze troppo gravi).
E dopo palloni giganti, pesetti colorati, corde cui appendersi variamente per le braccia o per le gambe, bacchette di legno o di ferro con cui rischiare ogni volta ferite lacerocontuse secondo la distrazione di chi ci capita di fianco, a un certo punto fanno il loro ingresso i miei preferiti: gli elastici!
Ed è qui che si consuma la seconda lezione di vita, quando una algida ma conturbante signora dichiara sicura:
lo sapevo che si facevano gli elastici: quando mi guarda capisco subito le sue intenzioni”.
E a questo punto crollano inesorabili tutte le mie convinzioni e teorie sulla linearità del pensiero maschile (rispetto agli arzigogolamenti di quello femminile) e degli (eventuali) messaggi in codice.
Del corpo come degli occhi.
Faccio un rapido punto della situazione: la tizia staziona esattamente davanti all’istruttore e in linea con la porzione di parete, dietro di lei,  su cui sono appesi gli elastici.
Avrei scommesso, nella mia ignoranza di matricola ancora da forgiare, che lui, molto semplicemente, ne stesse formulando uno del tipo: “mo che je faccio fa a questi stamattina? Vedemo un po’…se questa se leva e me fa’ vedè la parete…ah sì, ecco: gli elastici, eccoli lì!”.
Ma evidentemente sbagliavo e per fortuna c’è chi mi riporta sulla retta via.
Lezione numero 2:
L’istruttore ha le sue preferite e con quelle comunica in esclusiva, col pensiero o con lo sguardo, prima ancora di articolare concetti o di profferir parola!
(Capito, pivellì? Tu, pe arrivà a sti livelli, minimo vent’anni d’allenamento: fisico e psicologico, ricordate!...che “ preferite”  mica ce se diventa così!)
Come al solito, nella corsa ad accaparrarsi l’attrezzo, io rimango in disparte, aspettando che gli eventi (o la mia solita amichetta di posturale) decidano per me e con la speranza di diventare ancora più trasparente nell’attesa, sollevandomi così dall’obbligo di cimentarmi pure io.
Che curiosa di tutto sì, ma se si potesse sperimentare senza faticare troppo sarebbe pure meglio.
L’attesa non dura a lungo e con due begli elastici per me e per lei, l’amichetta di cui sopra mi sussurra complice e perentoria: “se se deve fa a coppia te vieni con me!”.
Nessuna possibilità di replica, ma tanto nell’inconsapevolezza di ciò che sta per accadere, per me fa lo stesso.
Ingenuotta che non sono altro...
Qualcuna infatti deve averci sentito e prende in mano la situazione, con un sottile inganno (perché - Lezione numero 3- in amore e in guerra, e da oggi pure in palestra, tutto è permesso, signori):
No, no, non è a coppia: se fa’ da soli! - ci informa una tipa dall’aria (molto) tosta.
Ma non appena l’amichetta di posturale si allontana, l’altra afferra sicura il mio elastico e mi trascina (letteralmente) davanti alla pareti a specchi ordinando: “viè, viè co me!
Ed è così che al posto della mia amichetta alta (se fa pe dì) come me, di corporatura abbastanza simile alla mia (etto in più etto in meno) e dalla facciotta dolce e rassicurante, mi ritrovo improvvisamente in sorte una specie di valchiria dalle forme giunoniche.
Una vichinga alta una spanna più di me, dai muscoli guizzanti, le braccia e le gambe formose, che di rassicurante (a parte gli occhiali e un largo sorriso, quello sì) ha davvero poco.
Ora, sul perché mi si litighino per fare coppia in esercizi con l’ausilio di attrezzi, andrebbe aperta una discussione e affrontato uno studio serio, ma la mia imbranataggine e il mio mollicciume devono giocare sicuramente un ruolo significativo nella selezione naturale.
“Intrecciate i vostri elastici e via: una tira da un lato, l’altra da quello opposto”
A parte tutte le mie difficoltà oggettive nell'individuare destra e sinistra in tempi rapidi (e senza fare mentalmente la prova-scrittura che mi suggerisce, senza ombra di dubbio, almeno la destra) la mia occupazione più urgente in realtà al momento è solo quella di ancorarmi saldamente a terra per evitare di venir trascinata ritmicamente da parte a parte, che la tizia di forza ne ha da vendere e ha deciso di profonderla tutta in questo esercizio qui.
Perfino il torturatore ufficiale ha un attimo di esitazione, vedendoci, e si premura di suggerire alla mia compagna di elastici: “Puoi andare anche più pianonon è che la devi ammazzà per forza!
Ma la frase mi suona di poco conforto e semmai più lievemente sinistra per quella libertà di scelta implicita che contiene...
Trovo, non si sa come, il modo per arginare la forza bruta della sorridente signora pregando che il tutto finisca prima possibile quand’ecco che nell’aria risuona una frustata, lo schiocco secco di un elastico che ha ceduto.
Che faccia parte dell’allenamento?
Siamo passati alle maniere (ancora più) forti e direttamente alle punizioni corporali?
Ma tiro un sospiro di sollievo vedendo che no, è solo una sventuratella come me (più di me, stavolta!) alla quale oltre che una tipa giunonica è toccata in sorte un’ imbranatona che s’è lasciata sfuggire l’elastico e gliel’ha fatto atterrare direttamente su una spalla….
Porella!
E siccome nella vita tutto è sempre estremamente relativo, posso dire che stavolta, con la (mia personale) nonnetta gigante che ancora è lì che s’affanna a tirare e saltare indifferente alla tragedia appena consumatasi, mentre la malcapitata presa a frustate corre a mettere del ghiaccio sulla parte (e io continuo a scavare la mia buca sul tatami per tenermi saldamente ancorata a terra), beh signori, mi è andata proprio di lusso!

Nota: vista la mole di aneddoti degni di nota che la palestra offre a ogni nuova lezione, il presente blog ha deciso di dedicarle un'apposita sezione, quindi da oggi, oltre alle "Cronache dalla casetta" troverà posto, nell'indice delle categorie, anche l'etichetta: "Notizie dalla palestra"....omaggio, doveroso, alle mie tutors!


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Tutto in padella a crudo: niente soffritti e niente spargimenti inutili di grassi.
 Si cuoce da solo in una mezz’oretta circa (avendo cura di lasciare le verdure un po’ croccanti) e costituisce un contorno ricco e piacevolmente colorato, oltre che salutare per tutte le proprietà benefiche della curcuma: antinfiammatorie, antiossidanti, immunostimolanti……


Ingredienti (per 4)
3 peperoni (giallo verde e rosso)
1 patata
1 finocchio
1 cipolla dorata
1 pomodoro
1 cucchiaino colmo di curcuma
½ bicchiere d’acqua
Basilico secco
Peperoncino
Sale
Olio extravergine d’oliva

Procedimento
Lavare e mondare i peperoni e il finocchio, tagliarle i primi a losanghe e il secondo a fettine non troppo sottili quindi metterli in una padella capiente insieme anche alla patate sbucciata e ridotta a dadini, alla cipolla affettata e al pomodoro a cubetti. Condire con olio, abbondante basilico secco, curcuma, sale e peperoncino. Aggiungere l’acqua e porre su fuoco moderato, semicoperto per circa mezz’ora controllando che le verdure non asciughino troppo (in quel caso stemperare gradualmente con un mestolo di acqua calda).







A Natale puoi - "Pizza" di polenta integrale con spinaci

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È passato un po’ in sordina ma è avvenuto.
L’acchittamento completo della casetta si è consumato, regolarmente, nel giorno deputato.
Fra le solite sbuffate e i consueti affanni, che a me il natale piace tanto, ma prepararlo è una tale fatica...
E la sera dell’8 dicembre, festa dell’Immacolata, c’è stata la prima accensione ufficiale di tutte quante le candele (con scorta di due pacchi da 500 dell’Ikea) sparse in ogni dove.
Albero (quest’anno corto, smilzo e un po’ stortino) e presepe come da copione, ma con qualche variante

Pigne, campanelline, babbi natale, renne, pupazzi di neve, stelle e angioletti vari sparsi più o meno in ogni anfratto ma con qualche novità.

Un trenino che corre sul muretto del camino





Una fatina con la sua casetta che osserva tutto curiosa

E poi quello che, per esempio, fino all’anno scorso era appeso all’albero ora si ritrova sulla parete del camino

sul pomello di qualche sportello

o sulle chiavi di qualche anta


Vecchie cose 

e qualche cospicua new entry.
Come la "Stella del deserto", 

regalo di mamma, lasciata appesa sul cancelletto una domenica mattina al pari dellepizzette qualche tempo fa (che per un attimo ci aveva anche illusi che fossero ancora una volta pizzette!)
Le immancabili mollettine con i babbi natale molleggiati, che anziché stare sull’albero quest’anno hanno trovato più degna collocazione… in bagno e precisamente:
 sul portaspazzolino

 e sul dispenser del sapone

Anche l’uomo ghianda ha avuto al sua calzetta, 

pure quella, al pari della sedia, molto più grande di lui, come si conviene a un esserino magico che può cavarsela benissimo da solo anche in queste situazioni difficili.
Gli angioletti arrampicatori sono sempre gli stessi,

cicciotti 

e giocherelloni

ma fra i rami dell’alberello compare una nuova mollettina con minipresepe dentro un cuore di legno

così come un soddisfatto e sornione babbo natale che brinda con la coca cola

Il presepe grande è sempre dentro il camino, con gli stessi personaggi ma quest’anno senza i cumuli di neve delle stagioni passate, bensì lasciato con un più ordinato pavimento di sola paglia.
I vecchi pastori al loro posto

Così come mamma e figlia che vanno ad approvvigionarsi di acqua direttamente alla fonte 

(che quest’anno, a differenza di quello passato, si vede e si sente perfino!)
Ma con la new entry dei due angioletti che si calano direttamente dalla canna fumaria

Vecchi biglietti d’auguri sul mobile della tv

I fiocchi di neve, 

regalo prezioso di una dolcissima amica, appesi alla finestra
E quest’anno anche i vestiti di babbo natale stesi ad asciugare, 

che ogni tanto pure lui ha bisogno di fermarsi, farsi un doccia, un riposino, il bucato prima di riprendere tutti i suoi giri frenetici.
Ma la vera novità di quest'anno sono le luci, che l’amato bene sembra non voler smettere di appendere in giro per casa.
Nell’intento di ricreare l’atmosfera di una casa bostoniana è ancora lì da 15 giorni che armeggia con scala, fili da pesca, nastro carta, pinze e interruttori per appendere ghirlande luminose e serpentelli di luce 

(deve essere una sorta di rivalsa sull'increscioso incidente di percorso dell'anno passato, quando il presepe era immerso nella semioscurità e la fontanella era rimasta a secco...).
L’effetto serale della casetta dunque, una volta accesi l’albero, il presepe, le candele sul camino e tutte le altre lucine e lucette è il seguente


E già solo per questo, per quanto mi riguarda, Natale potrebbe durare pure tutto l’anno.
Estate compresa.
 
(Grazie Leanne <3)
  
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Un giornalino trimestrale pescato al volo in un supermercato, una confezione di polenta integrale in dispensa, il freddo ad accompagnarne la voglia, qualche piccola variazione, un aggiustatine di qua, una modifica di là e il piatto è servito….

Ingredienti (per 4 persone)
Una confezione (330 gr) di polenta integrale istantanea
300 gr di spinaci freschi
1,3 lt di brodo vegetale
2 rametti di rosmarino (facoltativo)
Scorza grattugiata di mezzo limone
Noce moscata
Parmigiano
Una manciata di pinoli
Olio extravergine d’oliva
Sale
Pepe macinato sul momento

Procedimento
Far bollire il brodo vegetale e versarci a pioggia la polenta rimestando bene con una frusta per evitare che si formino grumi. Farla addensare (basteranno anche solo 3-4 minuti), quindi toglierla dal fuoco e unire gli spinaci tritati grossolanamente, la scorza di limone e un po’ di noce moscata grattugiata.
Aggiustare di sale se necessario, quindi disporre la polenta su una placca ricoperta di carta forno leggermente oliata. 

Allargare la polenta aiutandosi con il dorso di un cucchiaio inumidito, quindi spolverizzarla di parmigiano, distribuirvi sopra gli aghi di rosmarino tritati, il pepe e i pinoli.

Cospargere di olio e infornare in funzione grill per una decina di minuti.

Note:
-         la ricetta originale suggeriva di disporre sulla polenta anche 5-6 spicchi d’aglio tagliati a metà ma io ne ho fatto volentieri a meno.
-         la buccia di limone è una mia personale aggiunta e ci sta benissimo
-         del rosmarino si può anche fare a meno
-         la ricetta prevedeva di amalgamare la polenta con un cucchiaio di burro una volta tolta dal fuoco e prima di metterla in teglia ma ho omesso allegramente questo passaggio.



Frammenti, immagini…..Auguri!

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Felicità.


E una sottile malinconia.


Il natale fantasmagorico che vorrei.


E quello, dolce e semplice, che è.


I natali che sono stati.


E quello che non sarà mai.


I sogni sotto l’albero


E i desideri autentici


Che in fondo basterebbe davvero poco


Per esempio che rimanesse, tutto, esattamente così com’è.




V’è un solo eroismo al mondo:
vedere il mondo com’è e amarlo.
(
Romain Rolland, Al di sopra della mischia)

A tutti,

BuonNatale!

Il sacro dei miei viaggi

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Tra i preparativi per le feste e l’espletamento ( di una parte ) delle stesse stava quasi per passare in cavalleria l’appuntamento con la rubrica mensile di Monica su Il Senso dei Miei Viaggi.
Tema per niente facile, quello di questo mese. Inizialmente pensavo di avere le idee chiarissime, poi a mano a mano che cercavo le tre foto mi rendevo conto che il mio luogo sacro ricorrente, in cui più percepisco il sacro, sono i cimiteri.
Avrei potuto cavarmela così e postare le foto di 3 luoghi (per me) sacri per eccellenza, ma poi ho preferito non essere monotematica, sceglierne solo uno e fare un piccolo sforzo in più.
A nulla è valsa la richiesta di aiuto all’amato bene che alla domanda: quali sono per te 3 luoghi sacri per eccellenza che ti vengono in mente? Così, nell’ordine, avrebbe risposto:
Stadio Olimpico
Trigoria
Sciarpa daa Roma
Trasformando quest’ultimo da oggetto a luogo: particolare nemmeno tanto strano considerando che la medesima in casa nostra è appesa al lampadario della camera da letto …
Va da sé che ho dovuto, necessariamente, cavarmela da sola.
Ho pensato al cimitero ebraico di Praga, luogo in cui il sacro piomba addosso come un pugno nello stomaco. Alla natura incontaminata del Sudafrica, alle chiesette sperdute in campagna, agli animali, a certi volti di uomini e di donne.
Poi ho fatto una sintesi e ho così concluso:




1)     Arlington National Cemetery, a Washington

240 ettari, fra colline e tratti in pianura, disseminati di croci e stele bianche a perdita d’occhio.
Difficile non avvertire il sacro in un luogo come questo. Le tombe di 175.000 soldati e quella di John Fitzgerald Kennedy e di sua moglie Jackie su cui arde una fiamma perpetua.



2)      L’eremo delle carceri appena fuori Assisi


 con il suo bosco di lecci secolari e faggi, le grotte, il silenzio, la forza prorompente di un luogo che impone un faccia a faccia con se stessi, specie d’inverno, con la neve, quando non c’è nessuno.

3)      Le processioni pasquali del venerdì santo in Spagna

 suggestive, molto sentite, nonostante il forte richiamo turistico, perfino vagamente inquietanti nello sfilare degli uomini incappucciati.


DuemilaQuattordici...

Tra Marche e Umbria: capodanno di cuore e di pancia

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Avendo (quasi) chiuso l’anno con la bella scampagnata sudafricana, e avendone in programma per il 2014 una di poco meno impegnativa nella terra dagli occhi a mandorla, per capodanno abbiamo pensato a una tranquilla gitarella nostrana fra borghi e belle mangiate, presepi artistici e suggestivi panorami.
Tutto inter nos, come è nell'uso della nostra forastica e sottilmente sociopatica minuscola famiglia di inguaribili solitari…
Dice: ma che viaggiate soli?...pure a capodanno?!
No: io con lui, lui con me, ci pare già abbastanza….
E così partiamo, rigorosamente "da soli", esattamente il 31 mattina, verso una regione che conosciamo pochissimo, ma che sappiamo già, dai racconti e dalle letture, che ci piacerà moltissimo.

Dopo la neve sul Gran Sasso, ci gustiamo un panorama marino che fa a cazzotti col freddo pungente ma ci proietta direttamente alla prossima estate.
Quella terrazza in pietra che è Torre di Palme ci incanta e fa sognare.

Un giro per i vicoli



la sosta breve per un panino,
E siamo a Fermo



Approdiamo in un  piccolo agriturismo, sperduto nelle campagne intorno alla città, dove fervono i preparativi per il cenone di capodanno.
L’appartamento è di quelli delle bambole, con mobili vecchi e tendine fiorate che fanno venir voglia di trasferirsi subito.

Il ristorante ospita appena una cinquantina di coperti, l’atmosfera è calda, accogliente, curata ma informale. 

Senza musica sparata nelle orecchie, nessun televisore a stabilire contatti col mondo esterno, la simpatia dei due ragazzi che servono ai tavoli e del cuoco che ogni tanto esce a sincerarsi che tutto vada per il meglio.
Cibo e vino scorrono senza sosta nelle tre ore che ci separano dal nuovo anno: 

sapori nuovi, 

inaspettati, 
che ci inebriano e  ci conquistano, 

per concludere con un paradisiaco dolce al pistacchio, 

gli auguri di mezzanotte e un giro di tombola corale con le mandorle per coprire i numeri e un bicchierino di grappa invecchiata a sigillare tutti i brindisi fatti fin lì.

Il conto ci lascia a bocca aperta: dalle nostre parti, per 45 euro, a momenti si mangia a malapena una pizza infrasettimanale.
L’alba del nuovo anno è all’insegna della colazione più spartana nel "nostro" piccolo appartamento, 

per poi riprendere il viaggio e fare tappa a Recanati, luogo di pura poesia.

Incanto

Raccoglimento

Nutrimento per lo spirito

Difficile staccarsi da un posto simile

Si riparte ancora e nonostante il Natale appena trascorso abbia fruttato alla sottoscritta l’arrivo del tanto agognato tablet e allo stato attuale dunque si viaggi dotati di quest’ultimo, dello smartphone e di un intonso tomtom conservato premurosamente nel cruscotto della macchina, noi, imperterriti, ci si ostina a orientarsi ancora così:



Gubbioè la prossima meta e tutte le attenzioni sono per quell’albero 

tutto luccicoso, che lo sovrasta e che per fotografarlo nella sua interezza devi piazzarti con le quattro frecce sulla corsia di emergenza della statale…(perdendo il secondo cappello dell'anno per scendere al volo dalla macchina e scattare una foto pure indecente!)
Oltre a quello un incantevole presepe, che inizia dalle rive del fiume, 

per poi dislocarsi lungo i vicoli del centro, fatto di personaggi a grandezza umana.

Ce lo gustiamo appieno nella desolazione del 2 gennaio, quando la cittadina si è completamente svuotata, i negozi sono ancora chiusi e per le strade incontriamo giusto manichini, 

attrezzi di qualche vita fa e abiti d’epoca, in una suggestione senza fine.

Su albergo e ristorante di questa tappa meglio sorvolare, che mica sempre dice bene, nonostante si scelga in base ai giudizi di tripadvisor, oltre che al fiuto personale (magari appannato dai fumi dell'alcol..)
Ma ci rifacciamo abbondantemente nell’ultima tappa, che è Spoleto.

 Capitiamo per caso in un ristorante che ci ripaga in un attimo della piccola delusione eugubina e scopriamo così, tra tutte le altre cose, due dolci della tradizione che ci conquistano al primo assaggio:

crescionda e attorta inaugurano il nuovo taccuino di appunti del 2014, perché non sia mai che si ricapiti da quelle parti e si trascuri di riassaggiare prelibatezze simili: meglio appuntarsene i nomi, che non si sa mai.

La via del ritorno è dolce e lenta: non c’è fretta di tornare a casa e la tappa è a Viterbo, per una sosta come al solito gastronomica ma anche la scoperta di un luogo in cui tornare quanto prima.
Meta di una eventuale, futura tre giorni a zonzo per l’Italia, duecentocinquantesimo proposito per il 2014.
Sempre muniti di cartina stradale ovviamente ;-)


Qualche indirizzo:
-Agriturismo Fiore di campo, Contrada Montone, 124 -  Fermo
- Hotel dei Duchi, viale G. Matteotti, 4 – Spoleto
- Ristorante Il Pentagramma, via Tommaso Martani, 4 – Spoleto
- Trattoria Tre Re, via Macel Gattesco, 3 - Viterbo


Tutte chiacchiere! – Filetto di maiale al pepe rosa (e yogurt)

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Gira voce che l’attuale soprannome della sottoscritta, da qualche tempo a questa parte, sia nientedimenoche


Kenshiro

Che non è Ken (nome) e Shiro (cognome) per la facile assonanza con l’etereo e inciucioso due cuori nella pallavolo, dove quest’ultimo costituiva l’oggetto dell’amore non corrisposto della piagnucolosa Mila.
Ma è proprio Kenshiro tutto attaccato(traslitterazione e traduzione libera di 北斗の拳 Hokuto no Ken)
(dal web)
meglio noto come il più incazzoso guerriero di tutti i tempi, esponente di spicco della “Divina scuola di Hokuto” che, oltre ad avere una fidanzata pure lei abbastanza problematica (tale Julia, membro di punta dei Sacri Guerrieri di Nanto la quale, pur essendo nata sotto la “Misericordiosa stella dell’amore Materno” fa una misera finaccia tra la prima e la seconda serie del kolossal, lasciando a bocca asciutta i 120-130mila spasimanti, tra fratelli, cugini, amici stretti ed ex vicini di casa che la bramavano manco fosse l’ultima donna rimasta sulla faccia della terra…o giusto per fa un dispetto a Ken!) trova agio, nel silenzio postapocalittico, di dare libero sfogo a tutte le più sottili arti antiche di combattimento.
L’eletto si muove infatti in un mondo desolatamente vuoto e altamente inospitale, annientato dall’olocausto nucleare che però ha lasciato intonsa la razza umana e nello specifico, manco a dirlo, solo una manciata di poveri derelitti e masnade intere invece di malintenzionati e bulletti della situazione.
Lui, belloccio ipermuscoloso dall’aria sufficientemente truce (e l’aspetto vagamente trucido, con pettorali in bellamostra), 64° successore della suddetta accademia, se ne va in giro, sguardo torvo, denti stretti, mente lucida, braghette di cotone e camicia sbottonata che a un certo punto esplode nell’incapacità di trattenere tanto bendidio, a prendere animosamente di petto tutti quelli che incontra sul suo cammino.
E se non li incontra li va a cercare.
E se quelli se ne stanno tranquilli per conto loro perché magari manco lo hanno visto lui va lì e li stuzzica fino a che non ci scappa, per forza di cose, daje e daje, la rissa.
Stanandoli, attaccando briga (anche perché in un mondo vuoto e devastato che altro c’hai da fa’?), per poi maciullarli con le tecniche segrete della scuola di cui solo lui, naturalmente, è a conoscenza.
Perché Ken (per gli amici), l’uomo dalle sette stelle (dell’Orsa), non guarda in faccia a nessuno.
Parrebbe insomma, che la titolare del qui presente blog abbia iniziato l’anno con la reputazione lievemente appannata da questo poco lusinghiero nomignolo per ragioni, peraltro, del tutto oscure.
Mica solo perchè una risponde a monosillabi, fulmina con lo sguardo l’amato bene (e tutte le altre genti) al solo sentirsi rivolgere la parola, prenderebbe volentieri la via di un eremo sul cucuzzolo del monte più alto della terra pur di leccarsi insondabili ferite  in completa solitudine, deve per forza essere paragonata a quell’attaccabrighe un po’ esaltato del guerriero Ken.
Per quanto detentore di una fama e di una carriera di tutto rispetto.
Effettivamente, convengo che una leggera animosità ammanta attualmente il mio spirito.
Una sottile vena polemica caratterizza ogni mia (scarna) parola.
Un’appena accennato rodimento di chiccherone sostiene ogni mia azione.
Che siano poi mere questioni ormonali, oscuri motivi intrinseci, non meglio specificate ragioni puramente caratteriali…’mbè: mo che volemo fa’?!
In casi come questi vale la regola del “lasciamola stà che prima o poi je passa”.
Il che funzionerebbe pure se la saggia decisione non fosse trasgredita da occasionali interventi materni volti a ricondurre l’attaccabrighe (che poi sarei io) a più miti consigli e contestualmente a difendere l’amato bene da una moglie, da lei generata, perennemente sul piede di guerra.
Dall’aria tenera e conciliante ma in realtà con la schiuma alla bocca peggio di un cane rabbioso.
“Non puoi comportarti così, smettila di tormentare quel poraccio!”
Non sapendo che io, in tali situazioni, del poraccio, come di chiunque altro mi capiti a tiro, a momenti manco mi accorgo, presa come sono da tutte le mie paturnie e malevoli pensierini sparsi.
"Il poraccio" ormai lo sa, ne è avvezzo e sfodera le sue personali tecniche di difesa: sopporta pazientemente, evita di rivolgermi la parola, e gaio e  leggermente strafottente gira per casa canticchiando

Mai, mai scorderai
l'attimo, la terra che tremò.
L'aria s'incendiò e poi silenzio.
E gli avvoltoi sulle case sopra la città, senza pietà.
Chi mai fermerà la follia che nelle strade va?
Chi mai spezzerà le nostre catene?
Chi da quest'incubo nero ci risveglierà, chi mai potrà?
Ken, sei tu fantastico guerriero
sceso come un fulmine dal cielo.
Ken, sei tu il nostro condottiero...

Per ogni evenienza, cliccare di seguito


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A me il filetto non piace, come non mi piace in generale la carne e in particolare quella dai tagli alti. Il fatto però che sia di maiale, che si senta prepotentemente il sapore buonissimo e aromatico del pepe rosa, che a un certo punto sopraggiunga il latte a stemperare il tutto mi ha fatto quasi innamorare di questo piatto.
E con lo yogurt al posto della panna è pure “light”!

Ingredienti (per 2)
5-6 medaglioni di filetto di maiale (circa 400 gr di peso)
½ bicchiere di latteù
2 cucchiai di yogurt bianco
1 pugno di bacche di pepe rosa
I rametto di rosmarino (facoltativo)
1 spicchio d’aglio
Sale
Olio extravergine d’oliva

Procedimento
In una padella dai bordi alti far scaldare l’olio con dentro l’aglio e il rametto di rosmarino. Unire la carne e farla rosolare bene da entrambi i lati, sfumare con il latte, unire il pepe rosa e abbassare la fiamma lasciando cuocere per una decina di minuti. Aggiustare di sale e poco prima di togliere dal fuoco aggiungere lo yogurt mantecando il tutto. Servire subito, caldissimo.

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