Secondo la medicina cinese è da attribuire al fatto di dedicarsi ad attività altamente adrenaliniche una volta passate le 3 del pomeriggio.
Quando cioè la giornata dovrebbe andare in discesa, i nervi distendersi, la calma scendere sulle umane occupazioni, il mantra di pensieri positivi impadronirsi di tutto lo spirito per intero.
Peccato che io cominci a lavorare esattamente alle due del pomeriggio, sotto la canicola, dopo aver trascorso la mattinata perlopiù a correre dalla frutteria al supermercato per la spesa, o avanti e indietro per la casetta come un criceto, nel tentativo di rassettarla un po’, o ancora tra un fornello e l’altro con l’intento di formulare un menu per la cena da ritrovare pronta al rientro (e sentirmi così pensata e coccolata, perché sì, basta veramente molto poco per farsi felici!).
In un crescendo quindi di adrenalina ed energia purissima da poterci alimentare un’industria e andare avanti a sperperarle fino a sera inoltrata quando, finalmente vinta, stramazzo sul divano, completamente sfranta e mi spengo così, di botto.
Per poi risvegliarmi, altrettanto bruscamente, puntualissima alle 2 o alle 3 di notte o poco oltre (secondo i casi, o quello che ho mangiato), che per me la pratica sonno potrebbe già essere archiviata, mi potrei tranquillamente alzare, preparare il caffé, mangiare i miei biscottini integrali e dare inizio, con l’oro in bocca del "mattino", a una nuova giornata.
Questo se abitassi in cima all’Everest dovendo rendere conto, di luci e rumori, solo a me medesima.
Siccome, oltre alla presenza dell’amato bene, già da un po’ la palazzina si è riempita di vacanzieri occasionali, non posso proprio permettermi di accendere la macchinetta dell’espresso in piena notte.
Purtroppo.
E manco di armeggiare con la moka, se è per questo: che sarà pure più silenziosa, ma il fatto è che non lo sono io e come minimo mi cadrebbe dalle mani la caldaietta, farei ruzzolarenel lavandino il filtro, salterebbe quasi da solo il coperchio di plastica dal barattolo del caffé, sbatacchierei a destra e a manca il beccuccio prima di riuscire ad avvitarlo e per finire, tutta la macchinetta riempita e avvitata stretta, mi cadrebbe lunga orizzontale sul piano cottura con griglia di ghisa - e riduttore amovibile- a completare il concerto rumoristico.
(già sperimentato, ecco perché conosco perfettamente tutti di dettagli della scena).
Ma è anche vero che i rumori di notte si amplificano, tutto sembra più grande, più grave, meno tollerabile.
E insomma, tornando a bomba, è questa specie di insonnia a singhiozzo che i medici cinesi attribuiscono a uno stile di vita troppo stressante concentrato nella seconda metà della giornata.
Bisognerebbe agire solo fino all’ora di pranzo, ecco. Dopodichè sarebbe d’uopo spalmarsi all’ombra di un baobab a sorseggiare latte di cocco direttamente dalla sua noce raccolta fresca o dondolarsi piano sull’orlo di una piscina piluccando palline di melone e anguria progettando l’aperitivo in riva al mare e la cena in veranda a seguire.
Sempre spaparanzati sull’amaca, of course.
Quando invece lo stress si spalma uniformemente su tutte e 12 le ore canoniche che comporrebbero una giornata, e le attività pomeridiane consistono perlopiù nel correre dietro a un bimbetto treenne portandosi in collo la sorellina di uno, dopo aver viaggiato su due treni per raggiungerli e altri due treni per tornare a casa, la faccenda tende a complicarsi un po’.
Ma non è che la cosa rappresenti poi questo grande problema.
Almeno per me.
Perché accade così: mi sveglio di botto in piena notte.
Fresca, riposata, senza neppure una minima traccia di sonno residuo.
Al buio(questione di delicatezza nei confronti di chi divide il letto con me…) cerco di arraffare la sveglia, buttando regolarmente (ma involontariamente) giù dal comodino gli occhiali o il libro o la crema per le mani o il telecomando (…o tutte e quattro le cose insieme).
Ammacco il tasto della lucetta incorporata, guardo l’ora e mi compiaccio del fatto di avere un po’ di tempo – seppure antelucano - tutto per me.
A quel punto, constatato che sono le 2 (o le 3 o le 4, secondo i casi di cui sopra) decreto (sulla base di un personalissimo e non meglio specificato criterio) che posso accendere l’abat-jour e mi metto a leggere.
O a pensare.
O a stilare mentalmente liste di cose da fare.
O a prendere carta e penna, issarmi di malagrazia sullo schienale del letto, e annotare qualche pensiero.
Tutto qua.
Mica chissà che faccio.
Che fosse per me accenderei direttamente la televisione, mi sintonizzerei su Real Time e chi s’è visto s’è visto.
Altro che sottigliezze.
Ma dovrei dotarmi perlomeno di cuffie senza fili.
E quindi ecco, non disponendone, cerco di dare meno fastidio possibile.
Certo la grazia che mi è propria mi porta magari a sfogliare le pagine con un pelo in più di vigore.
A tirare su col naso con un filo in più di fracasso.
A volermelo soffiare, il naso.
A dover agitare il lenzuolo perché magari una zanzara mi sta ronzando intorno.
A volerla ammazzare, la zanzara, assestandole un colpo secco, con l’infradito, sul muro dove si è incautamente posata, la fetente.
A voler cambiare posizione girandomi con un (piccolo) colpo di reni.
Ad accostare la finestra spalancata per metà solo allungando un piede (e mica è colpa mia se quella prende troppa velocità e sbatte sull’altra anta chiusa).
È che di notte tutti i rumori si amplificano, come dicevamo.
Del resto, pure il saccoccio inerte che mi russa accanto, sdraiato in diagonale sul letto (almeno fino a quando non viene richiamato all’ordine da uno qualsiasi dei rumoretti di cui sopra) non è che lo faccia col silenziatore incorporato.
Io allora che dovrei dire?
Eppure ecco, per quieto vivere, sopporto, me tapina.
Che poi, dopo un po’, un’oretta o due diciamo, mi torna il sonno, eh?
Mica resto sveglia fino alle 6 e mezzo che mi devo alzare.
Mi coccolo, mi incoraggio, mi conforto, mi rassicuro.
E piano piano, con dolcezza, scivolo nuovamente nel sonno.
Abbandonando a terra il libro, ributtando giù tutto dal comodino per spegnere nuovamente la luce, ri-scalciando giusto un po’ per rannicchiarmi e trovare la posizione perfetta.
Urtando contro il saccoccio-che-russa-come-un-trattore-smarmittato, magari solo perché LUI è finito tutto dalla mia parte.
Mica perché sono un po’ intruppona.
Ma che fastidio quando, un’ora prima della mia, suona la sveglia del russatore professionista!
Un po’ di delicatezza, in certi casi, davvero non guasterebbe…..
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Viviana lo chiama anche “superpanellone gigante in versione light” e io la ricetta di questa stramba farinata tosco-ligure-sicula l’ho presa da lei, perché l’idea che nell’impasto ci fosse anche il prezzemolo a ricordare le panelle palermitane mi stuzzicava proprio tanto. Ero curiosa inoltre di capire come un intruglio molto liquido potesse addensarsi e prendere una forma compatta solo in cottura. Motivo per il quale ho passato i 40 minuti necessari al compimento del miracolo in contemplazione estatica del forno, accucciata davanti al suo sportello, in barba al caldo.
Eppure avviene. Certo una cosa fondamentale va detta, a scanso di ogni equivoco: la farinata, o cecina, ligure o toscana, non è roba proprio semplicissima da fare, come in molti casi invece è scritto: pochi ingredienti, schiaffi tutto in teglia e via.
Mancopegnente.
Gli ingredienti sono pochi, su questo non ci piove: farina di ceci, acqua, sale e (in questo caso) una manciatina di erbette.
La fase della cottura però è molto delicata e la questione sta tutta lì: i tempi sono solo indicativi, dipende dai forni e dalle teglie che si usano (e per essere proprio bravi se ne dovrebbe usare una di rame!) ma come prima volta e senza mai averla mangiata sul posto, credo di potermi accontentare. Soprattutto perché, su suggerimento dell’autrice della ricetta, quel prezzemolo nell’impasto mi ha ricordato questo paradisiaco, per niente light, panino qua sotto:
Lettrici ligure e toscane all’appello: Voi, la cecina/farinata, come la fate??
Ingredienti
250 gr di farina di ceci
750 gr di acqua
75gr (io ho ridotto a 50) di olio extravergine d’oliva
2 rametti di rosmarino
1 ciuffo di prezzemolo
Sale
Pepe
1 etto di speck
Procedimento
Calcolare innanzitutto un lungo tempo di riposo dell’”impasto”, perciò, al mattino appena svegli disporre in una ciotola capiente la farina di ceci, unire a mano a mano l’acqua mescolando con una frusta per evitare che si formino grumi, poi aggiungere il sale, e i due rametti interi di rosmarino.
Coprire il recipiente e lasciare riposare fino a sera.
Se vorrete andare a sbirciare ogni tanto, sappiate che la mistura, dopo un po' che riposa, apparirà così:
Un’oretta prima di cena preriscaldare il forno a 200°.
Unire al composto di acqua e ceci l’olio e il prezzemolo tritato, mescolare bene e versarlo su una placca da forno ben oliata.
Considerate che è liquido,
quindi la teglia dovrà rimanere perfettamente in orizzontale nel forno e per questo ne va usata una che non si pieghi o deformi durante la cottura!
Staccare gli aghi dai due rametti di rosmarino e sparpagliarli qui e là, quindi infornare per ¾ d’ora circa o almeno fino a quando la superficie non risulterà ben dorata e i lati inizieranno a bruciacchiarsi.
E poi ecco, nel mio caso l'ho tagliata a rettangoli che ho disposto su un piatto alternandoli a fette di speck il cui grasso si è un po' sciolto a contatto con il calore e...che ve lo dico affà?!
N.B.:
- siccome, diceche va mangiata caldissima, io l’ho tagliata (o perlomeno ho cercato di farlo) non appena ho estratto la teglia dal forno: non fate questo errore! Armatevi di un briciolo di pazienza e aspettate che la miserella si rilassi un po’ a temperatura ambiente prima di smembrarla.
- sorvegliate costantemente la cottura, specie nelle ultimissime fasi: io l’ho persa di vista un attimo e zac, a momenti buttavo via tutto!
- ho letto che il forno andrebbe anche a 240°, ma nel mio già a 200 ho rischiato di brutto.