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Gli animali dei miei viaggi

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Della variegata fauna insettifera, incrociata praticamente in ogni viaggio, lungo o corto, vicino o lontano, esotico o nostrano, avevo parlato, più o meno diffusamente, qui.
Dei grandi, grandissimi (e piccoli) abitanti di savana e zone limitrofe, avevo nostalgicamente argomentato di qua
Sugli  innumerevoli e  sorprendenti incontri avvenuti nello spettacolare Zoosafari di Fasano mi ero sperticata in lodi in questa precipua occasione. 
Il leprotto scovato in una piccola buca nel terreno dei miei suoceri era diventato il protagonista di un post di auguri pasquali (e staziona ancora in fondo in fondo alla colonna di destra del qui presente spazio, insieme all’insetto stecco).
Lo scoiattolo in contemplazione mistica sul precipizio di Bryce Canyon (e come dargli torto?) era entrato, di straforo, in un altro post ancora, dedicato a  tutt’altro argomento. 
Le bellissime oche incrociate nelle campagne intorno ad Amsterdam avevano trovato spazio in un post nientedimenoche dedicato alle
donne, per la simpatica signora che si prendeva cura di loro!

Allora, per la consueta rubrica mensile di Monica, sul “Senso dei miei viaggi”, che ha per tema questa volta gli animali, ho pensato ad altri viaggi ancora, altri piccoli ma memorabili protagonisti, soggetti involontari magari di qualche foto rubata al volo: per non spaventarli, per godersi l’attimo in loro compagnia, per assaporarne in pieno la presenza magica e insperata.


Il merlotto atterrato suo malgrado nel giardino dei miei, pochi giorni prima del mio matrimonio… catapultato direttamente dal suo nido caldo, fra le coccole della mamma, alla confusione dei preparativi, tra metri di tulle, cataste di riso, palloncini da gonfiare, nastri da appendere. Ma lui, al sicuro nella sua scatoletta di cartone, pareva indifferente alla frenesia circostante e badava soprattutto che gli fossero fornite mollichine di pane a sufficienza.


Putzi, la cagnolina del ristorante che per quattro sere consecutive è stato il nostro angolino romantico nel centro di Vienna, con ottimo cibo, prezzi onesti, proprietario simpatico e gli sguardi languidi di una nuova amichetta che cenava praticamente con noi lanciando sguardi languidi e accorati al mio consorte in attesa di coccole e soprattutto saporiti bocconcini.



Le meduse, enormi e bellissime, nel porto di Trieste. Mai viste così da vicino (per fortuna..) e così grandi!



Le tre foto (tre!) vanno direttamente al blog Viaggi e Baciper la rubrica mensile di Monica.

La festa dei 35: cena strepitosa, nuove parentele….e i Bombolini! – Lumachine di mare al sugo di finocchietto

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Un menu rigorosamente stabilito, due super chef assoldati al proprio servizio (anche per il reperimento non proprio facilissimo degli ingredienti, finocchietto compreso) e la cena è servita.
Non il ristorante ma la cucina (e il barbecue) di casa.
Non presentazioni scenografiche ma moltissima sostanza.
Non le solite portate ma un scaletta di tutto rispetto seguendo solo i gusti e le inclinazioni del festeggiato offerente (con grande giubilo anche di tutti di commensali convocati).
Che così ha voluto che fosse composto il menu:
Spaghetti alle vongole (fotografati un po' rinsecchiti per una telefonata inopportuna giunta giusto un attimo prima di sedersi a  tavola...)
Orata alla brace

Scampi alla brace

Gamberoni al cognac
Cozze gratinate

Peperoni arrostiti

E infine loro, quelle lumachine il cui ricordo (molto confuso) si perde nella notte dei tempi, ma che è sempre una gioia far rivivere.
Mista a un filo di scetticismo perché ogni volta la domanda è “mi piaceranno”?
Superfluo stare lì troppo a cincischiare in domande e arrovellamenti.
È sufficiente oltrepassare tabu mentali e assaggiare la prima, dopodiché sarà molto difficile smettere e la risposta arriverà da sé.
Telefonata alla solita amica di Fano (quella delle castagnole morbide), che le signore lumachine le chiama Bombolini, o Garagol, secondo il momento, e la ricetta è fornita.
La via schiusa.
Tornare indietro praticamente impossibile, perché una volta (ri)scoperti certi sapori non se ne può più fare a meno.
Il tutto annaffiato da ottimo vino e completato da una paradisiaca millefoglie del miglior pasticciere di zona.

Manco la torta ho dovuto fare quest’anno, sollevata dal pensiero e dagli arrabattamenti di quello passato.e del resto confrontarmi con il mastro pasticciere di zona non era proprio cosa (...lo avrei ridicolizzato ;-)))))))
Insomma, una cena da re per festeggiare la boa dei 35, ma in fondo (con sorpresa svelata a inizio serata), soprattutto per dare il benvenuto e accogliere con tutti i crismi, la nuova bambina di mio fratello


….essere zia di una moto è sempre stato il mio sogno, già peraltro ampiamente appagato da tutte quelle che l'hanno preceduta e dalle altre due attuali, singolari nipoti, la preferita delle quali non può che essere questa:









Diventata così dopo un accuratissimo e meticoloso lifting che non faceva minimamente presagire un cambiamento tanto radicale, giacché prima appariva esattamente così:

(non chiedetemi come, che il carrozziere pazzo è lui..)
Quello è stato senz'altro il suo capolavoro, ma mi sento di sbilanciarmi affermando con sicurezza che dopo la personalizzazione cui l’artista dei pennelli e dei bulloni la sottoporrà, la preferita diventerà questa, non fosse altro che per il fatto di essere destinata a viaggioni come quello in programma per Capo Nord!


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Per mangiare un piatto del genere si deve essere innanzitutto molto ben disposti. E disposti a tante cose.
A tuffarcisi innanzitutto, perché piluccarla solo, una bontà simile, parrebbe quasi sacrilego.
A riporre forchetta e coltello, facendo finta che non esistano.
A prepararsi una bella scorta di tovaglioli accanto e a far comparire sulla tavola quegli stuzzicadenti che mai, in nessun caso il galateo consentirebbe e che qua invece diventano l’arma principale.
A insudiciarsi soprattutto.
E poi un po’ anche a produrre e sopportare rumori molesti mentre si assaporano uno via l’altro, come le ciliegie, come i più golosi dei cioccolatini.
Dopo, una volta scoperti, manina sul cuore, non se ne potrà più fare a meno!

Ingredienti (per circa 6 persone)
1 kgdi lumachine di mare
1 mazzetto molto abbondante di finocchietto selvatico (barbe e gambi)
1 barattolo grande di pelati schiacciati o passati al minipimer
1 bicchiere di vino bianco
1 bicchiere d’acqua
1 spicchio d’aglio
Olio extravergine d’oliva
Sale
Peperoncino

Procedimento
Lasciare spurgare le lumachine in acqua leggermente salata per un’oretta, dopodichè lavarle accuratamente sotto l’acqua corrente. Sistemarle in una pentola con acqua fredda e appena raggiunge il bollore toglierle dal fuoco e scolarle.
In un altro tegame far soffriggere l’aglio insieme a una parte di finocchietto spezzettato grossolanamente, aggiungere il pomodoro, salare con moderazione, insaporire con il peperoncino e far cuocere per una decina di minuti.
Unire quindi le lumachine, il vino e l’acqua (mamma ha utilizzato l’acqua di cottura delle lumachine filtrata), aggiungere altro finocchietto, sempre spezzettato grossolanamente e far sobbollire per circa mezz’ora.
Gustare caldissimo con crostini di pane.

Suggerimenti e considerazioni:

- munirsi di quantità sufficiente di pane perché l’intingolo sarà irresistibile
- non aver paura di eccedere con il finocchietto e prevederne quindi un mazzetto piuttosto generoso
- sarebbe bello, con quel sughetto, condirci un piatto di spaghetti, ma è molto difficile che ne avanzi un po’…


Libri, piante, parole - Pollo al limone…con tutte le erbe del nostro balcone

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Certo niente a che vedere con le copiosissime fioriture dello scorso anno.
Quella lavanda così magicamente esplosa da costringere a ripetuti rinvasi mi aveva fatto credere, per un attimo, di avere finalmente acquisito anche io un pollice verde di tutto rispetto.
O perlomeno di una qualche dignità.
Ma tempo un paio di mesi e la miserella è stramazzata portandosi appresso pure la cespugliosa che mi aveva regalato mio fratello, pure lei solo pochi mesi prima, fiorente e rigogliosa più che mai.
A fronte di valorosi caduti sul campo però il balcone si è, altrettanto magicamente, ripopolato di nuove presenze.
Un po’ casualmente acquisite, un po’ volontariamente indotte, moltissime spuntante per caso.
E così, accanto all’angolo profumato delle erbe aromatiche


si può assistere alla crescita miracolosa di nuove, fragilissime, piantine di lavanda, proprio laddove alcuni mesi fa avevo distrattamente conficcato manciate di semi di Belle di notte (che chissà quale mai sarà il loro nome botanico), raccolte durante le mie passeggiate, quando ero ancora convinta che pure quest’anno la primavera sarebbe arrivata.


La curiosità di vedere spuntare prima o poi, tra tanto verde anche qualche fiorellino, mi fa lanciare in amorose disquisizioni con i nuovi nati, forte del fatto che da qualche parte ho letto che alle piante si deve parlare!
Ed è così che impegnate conversazioni con teneri virgulti come interlocutori, hanno preso il posto dei lunghi monologhi chiarificatori e rassicuranti con la me stessa in cerca di risposte sui massimi sistemi, mentre rifaccio il letto-mi preparo la colazione-spolvero la libreria-passo l’aspirapolvere-preparo la cena….
E devo dire che è perfino più divertente e rincuorante, considerato che alla fine (a differenza della me stessa inquieta) quelli a  un certo punto paiono pure rispondermi, decidendo, così di punto in bianco, di partorire un piccolo fiorellino, spiegare una nuova fogliolina, far cicciare un tenero germoglietto.
A darmi le maggiori soddisfazioni ovviamente, a parte il sempiterno rosmarino, ormai incontrastato re di tutto il blacone, per altezza e diametro del vaso, 

è il gelsomino vero, autentico made in Sicily (qui visibile sullo scranno bianco, svettante sul resto), sopravvissuto imperterrito a tempeste monsoniche e scrosci di pioggia, ondate di freddo e secchiate di umidità (“Bravo amore della casa, così si fa, non dar retta a tutte quelle piantine spiritose tipo quella fetente della tua amica romana, la Menta, che fa la finta tonta, pare rinsecchirsi e poi a ondate rispunta in enormi cespugli infestanti che ci costringono a sradicarla e rinvasarla continuamente. Tu lasciala stare, vai tranquillo per la tua strada continuando a mettere foglie e, magari, sempre al tuo buon cuore, anche qualche fiorellino profumato….”).
Poi ci sono le piantine aromatiche nuove arrivate come il timo limone e il prezzemolo, 
con le quali, data anche la finalità pratica per la quale hanno trovato ospitalità qui da noi (mica gratis!), intrattengo conversazioni su toni lievemente più alti riguardanti per lo più la cucina, le loro potenzialità, gli abbinamenti migliori, le idee nuove, qualche sapore da sperimentare (“Aò e ‘namo quanto ce mettete a venì’ su? Se entro un paio di settimane non crescete a dovere io vi sradico esattamente come ho fatto col vostro collega Sedano  l’anno scorso…Tu poi, cara Salvia, non mi piaci proprio così tutta rinsecchita e sofferente, che mi fai pure sfigurare ogni santa volta che vado dai suoceri e loro tutti tronfi mi fanno orgogliosamente notare le loro belle fogliolone di salvia, larghe a momenti quanto un fazzoletto, da impastellare e fare fritte. Con te al massimo posso farci un vasetto di aromi secchi per l’inverno e non è certo questo lo scopo di stare qui ad annaffiarti, parlarti, rincuorarti ogni sera!”)
Finché, in un raptus delirante, decido di sradicarne intere manciate qui e là e schiaffarle tutte insieme, tutte in una volta, in un tegame con pezzi di pollo, uno spicchio d’aglio, mezza cipolla tritata e un paio di fette di limone con tutta la buccia....
Naturalmente sempre continuando a conversare, amorevolmente, del più e del meno.
Ad assistermi in tutto ciò un libro proprio bello

da tenere sul comodino e da andare a consultare ogni tanto.


Anche da meditare per certi versi, considerate le riflessioni iniziali di Martino, l’Autore:
Non sono io che curo l’orto, è l’orto che cura me. Cura il mio fisico, dandomi cose buone da mangiare, e cura la mia mente, rilassandomi, perché quando ci si occupa di una pianta il cervello si svuota di tutto per riempirsi solo di lei. L’orto mi cura e mi coltiva. Mi ha educato all'attesa e alla pazienza”.
Ma soprattutto da seguire alla lettera e studiare passo passo, visto il rassicurante sottotitolo che fa inevitabilmente da sprone...
Agile, sintetico, facile da consultare all'occorrenza perché suddiviso in schede dedicata ognuna a una singola pianta in cui sono indicati il terriccio migliore, le cure da tributarle, le attenzioni di cui necessita e gli impieghi che se ne possono fare.
La seconda metà infatti è composta da un ricettario di tutto rispetto che esalta l’utilizzo di prodotti appena raccolti, dal giardino come dal…balcone.
Finora mi sono limitata a modeste piantine aromatiche, ma l’idea che si possano coltivare dei peperoni in una bottiglia di plastica legata a testa in giù o i pomodori in una cassettina di legno dalle dimensioni minime mi fa amare il mio minuscolo balconcino ancora di più.
Certo a quel punto, con piante del genere, più che semplici monologhi mi converrà tenere direttamente lunghi e articolati comizi….

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Ingredienti (per 4)
Un pollo in pezzi
½ bicchiere di vino bianco
2 spicchi d’aglio
Mezza cipolla dorata
2 fette spesse di un limone bio con tutta la buccia
Una decina di foglie di salvia
Due rametti di timo limone
Un rametto di rosmarino
2 foglie di alloro
Olio extravergine d’oliva
Peperoncino in grani
Sale


Procedimento
Lavare il pollo e togliere gran parte della pelle (per un risultato più leggero o se, come la sottoscritta, non la si ama molto…).
Tamponarlo con carta da cucina e mettere da parte. Disporre in un largo tegame tutte le erbette spezzettate con le mani, gli spicchi d’aglio tagliati a metà e la cipolla tagliata grossolanamente.
Aggiungere l’olio e far scaldare il tutto molto dolcemente. Non appena l’olio sarà caldo e il contenuto inizierà a sfrigolare, unire i pezzi di pollo e farli rosolare bene, su ogni lato, sempre a fuoco moderato. Sfumare con il vino, alzare per qualche secondo la fiamma per far evaporare, quindi salare, aggiungere il peperoncino in grani e le fette di limone e portare a cottura a tegame semicoperto.

Il motivo? - Melanzane ripiene di carne alle olive

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Chissà da quanti anni stavano lì.
A osservare e magari ridere delle umane stupidità e degli attimi di follia.
Come quelli che li hanno portati a essere segati in tanti pezzi, da personaggi in tuta e caschetto, armati di rombanti motoseghe.
Arrampicati come scimmie, sospesi come uccelli maldestri e senza ali, imbragati come stuntman sprezzanti del pericolo.
E loro sempre lì, a guardare fino all’ultima pigna, l’ultimo ramo, l’ultimo ago verde e lussureggiante.
Con tutti gli anelli dei loro lunghi anni, scolpiti all’interno del lungo fusto e tristemente evidenti nei pezzi caricati a mano a mano sui camion.
Mica in una sola volta, che quei due fetenti erano proprio alti, e il loro tronchi davvero larghissimi, così ampi che per abbracciarli alla base, per esempio, ci volevano almeno 3 persone.
Abbattere due pini marittimi nell’arco di una stessa giornata richiede impegno e fatica.
Strada sbarrata, divieto di sosta per le macchine, permesso da richiedere per poter rientrare a casa propria, svariati uomini-scimmia appesi per la vita e abbarbicati a ogni ramo prima di reciderlo a colpi di motosega...
Solo uno dei due era malato, l’altro dava solo fastidio, con le sue radici che rialzavano il posto auto di due condomini e tutti quegli aghi che si ostinavano a cadere ogni volta che venivano colpiti da folate di vento.
E poi c’era quella polverina gialla che a ogni primavera invadeva tutti gli appartamenti, andandosi a posare impertinente su mensole, mobili, oggetti e pavimenti.
Visibile e fastidiosa, mica come quella sottile e discreta dell'inquinamento, quel particolato lì che perlomeno è invisibile e occhio non vede cuore non duole.
Per non parlare delle pigne, che ultimamente nemmeno cadevano più, prese di mira da chi, con l’occhio lungo dell’affarista improvvisato, passava giornate a razziarle per ricavarne pinoli da vendere a caro prezzo.
Ma ecco, se non ci fossero state queste risolutive figure, le miserelle avrebbero continuato a  schiantarsi al suolo, come da che mondo è mondo le pigne sono solite fare, rischiando però di ammaccare il tettino di qualche suv nuovo di zecca dimorante sotto la sua ombra… o la nuca scoperta di qualche imbecille, ovviamente in rigoroso ordine di importanza.
Ma c’era anche la questione spinosa delle processionarie, quei raccapriccianti bruchetti pelosi che procedono attaccati tutti in fila indiana: pericolo grandissimo di fronte al quale l’abbattimento di due alberi deve essere sembrato l’unico rimedio possibile
(ma meno male che gli antichi non la pensavano come noi, altrimenti i pini nemmeno li avremmo mai conosciuti!).
Scartabellando l’archivio infinito delle mie foto, alla voce “casetta” ho trovato miracolosamente due immagini che li ritraggono entrambi, scattate chissà quando, immediatamente dopo un temporale.

Il pino malato è visibile qui sul lato destro della foto, proprio sotto l’angolo del balcone ed esattamente dove l’arcobaleno sembra andare a conficcarsi.
L’altro, quello sano, appariva così dal mio balcone.


È proprio vero, come dice Giulia, che “non ci vuole niente a distruggere la bellezza” e soprattutto non si fa nemmeno la fatica di andare a cercare pretesti minimamente più convincenti.
Anche perché esistono davvero motivazioni valide per decidere così, di punto in bianco, di abbattere due alberi che stavano lì da chissà quanto tempo?

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Ingredienti (per 4)

4 melanzane viola lunghe
600 gr di macinato di manzo
3 fette di pane raffermo ammollato
2 uova intere + 1 tuorlo
1 manciata di olive taggiasche snocciolate e tritate
1 ciuffo di prezzemolo
Parmigiano
Pomodorini
Pangrattato
olio extravergine d'oliva
sale


Procedimento
Lavare e asciugare le melanzane, quindi togliere il picciolo, tagliarle a metà nel senso della lunghezza e svuotarle delicatamente di una parte di polpa creando una cavità. Salarle e oliarle leggermente.
Tagliuzzare la polpa ottenuta e unirla alla carne macinata insieme alla mollica del pane ben strizzata, le uova, il parmigiano, un po’ di sale, il prezzemolo tritato e le olive snocciolate e sminuzzate.

Riempire le mezze melanzane con il composto di carne e disporle in una teglia ben oliata o ricoperta di carta forno. Cospargerle di pangrattato, un filo d’olio, fettine di pomodoro e cuocerle in forno a 200° per circa un’ora, un’ora e venti, regolandosi secondo il tipo di forno: affondando la forchetta nella melanzana questa deve risultare morbida. Terminare con gli ultimi 5 minuti in funzione grill.

Le grandi aspirazioni della vita – Riso in bianco con zucchine e patè di cipolle rosse

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Contare su almeno tre giorni di fila di caldo e sole.
Riuscire a immergere più del polpaccio nell’acqua sempre troppo fredda del mare.
Trascorrere un’intera giornata in spiaggia mangiando insalata di riso sotto l’ombrellone e appennicandosidi santa ragione prima del caffè – sempre troppo bruciato – delle 4 allo stabilimento.
Svegliarsi la mattina con gli odori di cucina della signora del piano di sotto.
Vedere Linea blu il sabato pomeriggio sbracati sul letto e sentire, dalla sua musichetta, che è proprio arrivata l’estate.
Mangiare minigelati la sera sul balcone illudendosi che, essendo mini, non facciano ingrassare troppo.
Schivare gli assalti di tutti quelli che “sabato veniamo al mare lì da voi: vediamoci!” mentre nella nostra incomprensibile stranezza, dopo una settimana frenetica passata a incrociarsi di sfuggita una mezz’ora scarsa la sera, il sabato lo difendiamo strenuamente come l’angolino di pace tutto per noi e l’ultimo dei nostri desideri sarebbe di passarlo insieme a qualcuno, soprattutto se accompagnato da marmocchi!
Camminare a lungo sulla riva e poi fermarsi a fumare-parlare-progettare sugli scogli in mezzo ai pescatori e ai granchi che ne abitano gli anfratti.
Fare il conto alla rovescia per il Sudafrica, e proiettarsi già in una nuova, ambiziosa impresa per i mesi a venire.
Trovare il tempo per spuntare la lista di tutte le cose molto importanti, e quelle fondamentali, da fare prima di partire.
Mangiare una pizza all’aperto dai nostri amici pizzettari, nello scenario del posto magico in cui ci siamo sposati.
Tornare a fare colazione, almeno una volta a settimana, dal tizio che fa il mejo caffé di tutto il circondario da accompagnare rigorosamente all’altrettanto impareggiabile cornetto ai frutti di bosco.
Mettere su divano e poltrona il telo con le conchiglie e soprattutto quello con il Sole abbracciato alla Luna.
Cenare sotto il gazebo dai miei e sulla veranda vista mare dai suoceri.
Andare al mare di domenica pomeriggio, quando la spiaggia comincia a svuotarsi (e la statale a intasarsi) armati solo di un libro e una bottiglietta d’acqua.
Cambiare smalto ai piedi ogni due giorni, sperimentando tutta la gamma dei fluo, anche tutta insieme in una sola volta (tanto le dita sono 10) e senza eventualmente nemmeno preoccuparsi di cambiare idea sui vestiti da mettersi che tanto quest’anno va di moda il contrasto.
Ritirare fuori la borsa di paglia, che ormai non va più, ma fa sempre tanto estate (e insieme a quella le bandane, le infradito, i pareo e la crema sos scottature).
Trovare la pochette argentata per il matrimonio di luglio.
Riuscire ad andare a trovare Elsetta.
Confrontarmi con una tecnologia che cambi un po’ meno velocemente, magari dandomi il tempo di abituarmi ai nuovi meccanismi, e non  che quando finalmente ho capito come funzionano, è ora di cambiare di nuovo in una corsa infinita e senza meta.
Trovare il tempo per fare tutto quello che vorrei
……………….Saltare a quattro a quattro i giorni che mi separano dal 1° agosto!

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Un barattolino di patè di cipolle rosse comprato presso uno stand di prodotti calabresi. Da lì: un riso da prepararsi prima di andare in spiaggia, da portarsi dietro in ufficio (qualora se ne avesse uno) o comunque sul posto di lavoro, leggero, semplice e molto gustoso. Un po’ come il collega che lo ha preceduto.

Ingredienti (per due)
150 gr di riso parboiled
2 zucchine piccole o una media
1 spicchio d’aglio
2 cucchiai di patè di cipolle rosse
Basilico secco
Olio extravergine d’oliva
Sale
Pepe

Procedimento
Lessare il riso, scolarlo al dente e farlo freddare allargandolo su un piatto e sgranandone i chicchi.

In un padellino antiaderente far scaldare dell’olio con lo spicchio d’aglio tagliato a metà e non appena inizierà a prendere colore, tuffarci dentro le zucchine tagliate a rondelle se sono piccole o a cubetti non troppo grandi. Alzare la fiamma per far sì che rimangano croccanti, aggiustare di sale e e pepe e spolverizzare con una presa di basilico secco. Quando saranno cotte, eliminare l’aglio, lasciarle intiepidire, quindi unirle al riso, aggiungere il patè di cipolle rosse, un filo d’olio a crudo e chiudere bene nella vaschetta da asporto!


Porte e finestre dei miei viaggi

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Porta- finestra della Sears & Roebuck Tower 

Di "torri" molto alte ne abbiamo viste diverse, l’ultima in ordine cronologico, la BurjKhalifa a Dubai, attualmente l’edificio più alto del mondo, e sempre in attesa di salire sulle Petronas Towers a Kuala Lumpur, mio sogno da sempre.
Ma questa di Chicago, che nel 1874, quando fu terminata, era l’edificio più alto del mondo, con i suoi  443 metrid’altezza ha, decisamente, una marcia in più.
Saranno quelle porte-finestre che danno sul vuoto.
Sarà quella sensazione vertiginosa di poter quasi fluttuare nell'aria dal 103esimo piano, abbracciando con lo sguardo (quando il tempo lo permette) ben 4 stati ( Indiana, Wisconsin, Illinois e Michigan), sta di fatto che sul pavimento di vetro io sono riuscita a mettere giusto un piede e giusto per il tempo di uno scatto…..

Portellone del sottomarino USS Growler 

 ubicato sull’Hudson River, ovviamente a New York, nei pressi del Pier 86.
I cartelli davanti alla biglietteria invitano a sfruttare il tempo della fila per riflettere bene se si soffra di claustrofobia (ed eventualmente a lasciar perdere la visita). Poi, per fugare proprio ogni dubbio, c’è un ovale che simula il passaggio tra un ambiente e l’altro del sottomarino (che non ha naturalmente il diametro del portellone d’accesso, ma leggermente più striminzito) per vedere che effetto fa passarci e, sempre eventualmente, fare ancora in tempo a  rinunciare.
In realtà a parte gli spazi veramente angusti di cui non si può fare a meno di stupirsi (soprattutto delle cuccette), la visita è abbastanza tranquilla e il maggiore senso di claustrofobia lo danno le persone con cui si è costretti a fare il giro, rigorosamente in gruppo.
Il sottomarino fa parte dell’Intrepid-Air-Space Museum, che altro non è se non una… portaerei del 1943 capace di ospitare fino a 103 aerei, di cui si possono visitare il ponte di comando, le immense rimesse, e soprattutto il ponte di decollo (impressionante!) dove stazionano alcuni aerei da guerra come il Balckbird, l’elicottero Bell, utilizzato in Vietnam, ma soprattutto il Tomcat di Tom Cruise nel film Top Gun.
Impedibile per i bambini, ma molto bello anche per quelli più cresciuti!

Finestrone del Treasure Islands

 hotel a Las Vegasa tema “il fantastico mondo dei pirati”, completo di veliero, pirati per l’appunto e spettacolo serale con fuochi, fiamme e duelli a colpi di spada con tuffi nel mare agitato e infestato di squali!
Situato proprio all’inizio della Strip, il lunghissimo viale su cui affacciano tutti i maggiori alberghi e i Casino della città, offre una veduta panoramica sulle migliaia di luci e sul fiume di gente che la attraversa di notte, e poi sulla calma placida che vi regna di giorno, completando il tutto con uno scorcio sul ponte di Rialto, la gondole e il campanile di piazza san Marco del dirimpettaio Venetian
(con annesso ottimo bar italiano dove prendere cappuccino e caffè sotto un limpido e soleggiato cielo...finto!)

Le tre foto sono per il consueto appuntamento mensile con la rubrica del blog Viaggi e Baci di Monica.

Attività notturne e dolci risvegli – Millefoglie di farinata e speck…….al sapore di panelle

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Secondo la medicina cinese è da attribuire al fatto di dedicarsi ad attività altamente adrenaliniche una volta passate le 3 del pomeriggio.
Quando cioè la giornata dovrebbe andare in discesa, i nervi distendersi, la calma scendere sulle umane occupazioni, il mantra di pensieri positivi impadronirsi di tutto lo spirito per intero.
Peccato che io cominci a lavorare esattamente alle due del pomeriggio, sotto la canicola, dopo aver trascorso la mattinata perlopiù a correre dalla frutteria al supermercato per la spesa, o avanti e indietro per la casetta come un criceto, nel tentativo di rassettarla un po’, o ancora tra un fornello e l’altro con l’intento di formulare un menu per la cena da ritrovare pronta al rientro (e sentirmi così pensata e coccolata, perché sì, basta veramente molto poco per farsi felici!).
In un crescendo quindi di adrenalina ed energia purissima da poterci alimentare un’industria e andare avanti a sperperarle fino a sera inoltrata quando, finalmente vinta, stramazzo sul divano, completamente sfranta e mi spengo così, di botto.
Per poi risvegliarmi, altrettanto bruscamente, puntualissima alle 2 o alle 3 di notte o poco oltre (secondo i casi, o quello che ho mangiato), che per me la pratica sonno potrebbe già essere archiviata, mi potrei tranquillamente alzare, preparare il caffé, mangiare i miei biscottini integrali e dare inizio, con l’oro in bocca del "mattino", a una nuova giornata.
Questo se abitassi in cima all’Everest dovendo rendere conto, di luci e rumori, solo a me medesima.
Siccome, oltre alla presenza dell’amato bene, già da un po’ la palazzina si è riempita di vacanzieri occasionali, non posso proprio permettermi di accendere la macchinetta dell’espresso in piena notte.
Purtroppo.
E manco di armeggiare con la moka, se è per questo: che sarà pure più silenziosa, ma il fatto è che non lo sono io e come minimo mi cadrebbe dalle mani la caldaietta, farei ruzzolarenel lavandino il filtro, salterebbe quasi da solo il coperchio di plastica dal barattolo del caffé, sbatacchierei a destra e a manca il beccuccio prima di riuscire ad avvitarlo e per finire, tutta la macchinetta riempita e avvitata stretta, mi cadrebbe lunga orizzontale sul piano cottura con griglia di ghisa - e riduttore amovibile- a completare il concerto rumoristico.
(già sperimentato, ecco perché conosco perfettamente tutti di dettagli della scena).
Ma è anche vero che i rumori di notte si amplificano, tutto sembra più grande, più grave, meno tollerabile.
E insomma, tornando a bomba, è questa specie di insonnia a singhiozzo che i medici cinesi attribuiscono a uno stile di vita troppo stressante concentrato nella seconda metà della giornata.
Bisognerebbe agire solo fino all’ora di pranzo, ecco. Dopodichè sarebbe d’uopo spalmarsi all’ombra di un baobab a sorseggiare latte di cocco direttamente dalla sua noce raccolta fresca o dondolarsi piano sull’orlo di una piscina piluccando palline di melone e anguria progettando l’aperitivo in riva al mare e la cena in veranda a seguire.
Sempre spaparanzati sull’amaca, of course.
Quando invece lo stress si spalma uniformemente su tutte e 12 le ore canoniche che comporrebbero una giornata, e le attività pomeridiane consistono perlopiù nel correre dietro a un bimbetto treenne portandosi in collo la sorellina di uno, dopo aver viaggiato su due treni per raggiungerli e altri due treni per tornare a casa, la faccenda tende a complicarsi un po’.
Ma non è che la cosa rappresenti poi questo grande problema.
Almeno per me.
Perché  accade così: mi sveglio di botto in piena notte.
Fresca, riposata, senza neppure una minima traccia di sonno residuo.
Al buio(questione di delicatezza nei confronti di chi divide il letto con me…) cerco di arraffare la sveglia, buttando regolarmente (ma involontariamente) giù dal comodino gli occhiali o il libro o la crema per le mani o il telecomando (…o tutte e quattro  le cose insieme).
Ammacco il tasto della lucetta incorporata, guardo l’ora e mi compiaccio del fatto di avere un po’ di tempo – seppure antelucano - tutto per me.
A quel punto, constatato che sono le 2 (o le 3 o le 4, secondo i casi di cui sopra) decreto (sulla base di un personalissimo e non meglio specificato criterio) che posso accendere l’abat-jour e mi metto a leggere.
O a pensare.
O a stilare mentalmente liste di cose da fare.
O a prendere carta e penna, issarmi  di malagrazia sullo schienale del letto,  e annotare qualche pensiero.
Tutto qua.
Mica chissà che faccio.
Che fosse per me accenderei direttamente la televisione, mi sintonizzerei su Real Time e chi s’è visto s’è visto.
Altro che sottigliezze.
Ma dovrei dotarmi perlomeno di cuffie senza fili.
E quindi ecco, non disponendone, cerco di dare meno fastidio possibile.
Certo la grazia che mi è propria mi porta magari a sfogliare le pagine con un pelo in più di vigore.
A tirare su col naso con un filo in più di fracasso.
A volermelo soffiare, il naso.
A dover agitare il lenzuolo perché magari una zanzara mi sta ronzando intorno.
A volerla ammazzare, la zanzara, assestandole un colpo secco, con l’infradito, sul muro dove si è incautamente posata, la fetente.
A voler cambiare posizione girandomi con un (piccolo) colpo di reni.
Ad accostare la finestra spalancata per metà solo allungando un piede (e mica è colpa mia se quella prende troppa velocità e sbatte sull’altra anta chiusa).
È che di notte tutti i rumori si amplificano, come dicevamo.
Del resto, pure il saccoccio inerte che mi russa accanto, sdraiato in diagonale sul letto (almeno fino a  quando non viene richiamato all’ordine da uno qualsiasi dei rumoretti di cui sopra) non è che lo faccia col silenziatore incorporato.
Io allora che dovrei dire?
Eppure ecco, per quieto vivere, sopporto, me tapina.
Che poi, dopo un po’, un’oretta o due diciamo, mi torna il sonno, eh?
Mica resto sveglia fino alle 6 e mezzo che mi devo alzare.
Mi coccolo, mi incoraggio, mi conforto, mi rassicuro.
E piano piano, con dolcezza, scivolo nuovamente nel sonno.
Abbandonando a terra il libro, ributtando giù tutto dal comodino per spegnere nuovamente la luce, ri-scalciando giusto un po’ per rannicchiarmi e trovare la posizione perfetta.
Urtando contro il saccoccio-che-russa-come-un-trattore-smarmittato, magari solo perché LUI è finito tutto dalla mia parte.
Mica perché sono un po’ intruppona.
Ma che fastidio quando, un’ora prima della mia, suona la sveglia del russatore professionista!
Un po’ di delicatezza, in certi casi, davvero non guasterebbe…..

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Viviana lo chiama anche “superpanellone gigante in versione light” e io la ricetta di questa stramba farinata tosco-ligure-sicula l’ho presa da lei, perché l’idea che nell’impasto ci fosse anche il prezzemolo a ricordare le panelle palermitane mi stuzzicava proprio tanto.
Ero curiosa inoltre di capire come un intruglio molto liquido potesse addensarsi e prendere una forma compatta solo in cottura. Motivo per il quale ho passato i 40 minuti necessari al compimento del miracolo in contemplazione estatica del forno, accucciata davanti al suo sportello, in barba al caldo.
Eppure avviene. Certo una cosa fondamentale va detta, a scanso di ogni equivoco: la farinata, o cecina, ligure o toscana, non è roba proprio semplicissima da fare, come in molti casi invece è scritto: pochi ingredienti, schiaffi tutto in teglia e via
Mancopegnente.
Gli ingredienti sono pochi, su questo non ci piove: farina di ceci, acqua, sale e (in questo caso) una manciatina di erbette.
 La fase della cottura però è molto delicata e la questione sta tutta lì: i tempi sono solo indicativi, dipende dai forni e dalle teglie che si usano (e per essere proprio bravi se ne dovrebbe usare una di rame!) ma come prima volta e senza mai averla mangiata sul posto, credo di potermi accontentare. Soprattutto perché, su suggerimento dell’autrice della ricetta, quel prezzemolo nell’impasto mi ha ricordato questo paradisiaco, per niente light, panino qua sotto:


Lettrici ligure e toscane all’appello: Voi, la cecina/farinata, come la fate??

Ingredienti
250 gr di farina di ceci
750 gr di acqua
75gr (io ho ridotto a 50) di olio extravergine d’oliva
2 rametti di rosmarino
1 ciuffo di prezzemolo
Sale
Pepe
1 etto di speck

Procedimento
Calcolare innanzitutto un lungo tempo di riposo dell’”impasto”, perciò, al mattino appena svegli disporre in una ciotola capiente la farina di ceci, unire a mano a mano l’acqua mescolando con una frusta per evitare che si formino grumi, poi aggiungere il sale, e i due rametti interi di rosmarino. 

Coprire il recipiente e lasciare riposare fino a sera.
Se vorrete andare a sbirciare ogni tanto, sappiate che la mistura, dopo un po' che riposa, apparirà così:

Un’oretta prima di cena preriscaldare il forno a 200°.
Unire al composto di acqua e ceci l’olio e il prezzemolo tritato, mescolare bene e versarlo su una placca da forno ben oliata.
Considerate che è liquido,


quindi la teglia dovrà rimanere perfettamente in orizzontale nel forno e per questo ne va usata una che non si pieghi o deformi durante la cottura!
Staccare gli aghi dai due rametti di rosmarino e sparpagliarli qui e là, quindi infornare per ¾ d’ora circa o almeno fino a quando la superficie non risulterà ben dorata e i lati inizieranno a bruciacchiarsi.

E poi ecco, nel mio caso l'ho tagliata a rettangoli che ho disposto su un piatto alternandoli a fette di speck il cui grasso si è un po' sciolto a contatto con il calore e...che ve lo dico affà?!

N.B.:
- siccome, diceche va mangiata caldissima, io l’ho tagliata (o perlomeno ho cercato di farlo) non appena ho estratto la teglia dal forno: non fate questo errore! Armatevi di un briciolo di pazienza e aspettate che la miserella si rilassi un po’ a temperatura ambiente prima di smembrarla.
- sorvegliate costantemente la cottura, specie nelle ultimissime fasi: io l’ho persa di vista un attimo e zac, a momenti buttavo via tutto!

- ho letto che il forno andrebbe anche a 240°, ma nel mio già a  200 ho rischiato di brutto.

Donne (e frasari) d’altri tempi – Mousse di melone e yogurt allo zenzero

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Poche parole, ma chiare e precise.
Poche spicce da spiccià, ma intenti decisi e inconfutabili.
Alcun baratto, zero compromessi, nessuno sconto.
Quello che dicevano le Nonne era legge inappellabile da rispettare.
Ordini perentori da eseguire, poi casomai si poteva parlare anche di altro.
Un’oretta di studio ogni giorno ed Eva, la cui nonna (per quell’intrico insondabile che erano i legami di parentela qualche vita fa) era zia della mia, mi racconta che così facendo era l’unica al mondo a finire i compiti per le vacanze intorno al 20 giugno.
Data dopo la quale non è che fosse dispensata dal fare altro: tutto tempo guadagnato per leggersi un libro! O anche due.
Sempre per la stessa ragione era anche l’unica ad aver imparato a spolverare alla perfezione ogni soprammobile che le si parasse davanti.
Perché due bambine in età scolare, durante la calda estate, fatta di lunghissime giornate pigre e oziose, devi pur intrattenerle in qualche modo.
E laddove oggi ci sono i tablet, il Nintendo e l’ormai quasi preistorica Playstation, una volta c’erano attività pratiche e soprattutto funzionali a chi le propinava: spolverare, lavare a turno i piatti, asciugarli con altrettanto rigore (nei giorni di pertinenza), rifare ognuno il proprio letto, mettere  a posto, come minimo sindacale di cura di sé, i vestiti, i giocattoli, gli effetti personali.
Lavarsi le mutande ogni sera.
Mica solo bighellonare in attesa del ritorno della mamma.
Compiti precisi, ruoli prestabiliti, tabelle di marcia senza possibilità di deroga.
E in tutto questo rientrava la cura della propria persona, intesa come corpo e spirito, che aveva come espressione massima il riposino pomeridiano.
Obbligatorio.
A nulla valevano timidissimi tentativi di protesta, o solo di obiettiva considerazione della realtà:
“Ma io non ho sonno”
“Fa niente. Te metti giù, chiudi gli occhi e te rilaSCI”, dove anche il lessico era piegato a una logica stringente per correre al servizio di quegli adorabili sergenti di ferro che erano le nostre Nonne.
Perché “rilassarsi”, da solo non bastava, quasi per niente avrebbe reso l’idea.
Il concetto risultava invece chiarissimo e inequivocabile nell’atto precipuo di rilasciare: i muscoli, i tendini,  i nervi tesi, l’adrenalina bambinesca in circolo, i pensieri, qualsiasi tentativo di fuga che avesse dovuto anche solo sfiorare le nostre menti costantemente in allerta.
Anche perché spesso sul lettone, nei pomeriggi assolatissimi e afosi, appena mitigati dalle persiane chiuse a capannella, si stava perfino in tre.
“Fa caldo”
“Ce so’ i ventilatori accesi!”, due, tre per volta, uno più cigolante dell’altro e con un raggio d’azione giusto di qualche centimetro.
E quei riposini imposti, a occhi spalancati, cullati dal canto monotono delle cicale (e da quello irregolare del russare della nonna), parevano durare un tempo infinito e senza scampo.
Poi però l’infinito finiva e arrivava il momento tanto atteso della merenda (perlopiù nell’attimo in cui ci si stava davvero rilasciando e perfino il secondo occhio stava per chiudersi, cedendo al sonno…).
 Pane burro e zucchero, pane e pomodoro, pane e olio, il succo di frutta coi creck.

Espletata pure questa pratica, si passava alla fase più  attesa della giornata: la visita delle amiche della nonna o il peregrinare di casa in casa in visita alle stesse.
Secondo i turni, il tempo o le condizioni fisiche: mia nonna per esempio non poteva muoversi e allora si limitava a ricevere.
Ma la preparazione era la medesima in entrambi i casi: prima di uscire o ricevere qualcuno, ci si doveva, senza storie, custodire. Che i semplici atti di lavarsi e vestirsi, a poco valevano.
“Lavatevi le mano, il viso e i piedi” laddove per piedi si intendeva come minimo tutta la gamba almeno fino al ginocchio.
E l’operazione era reiterata per 3 volte al giorno, tante volte cioè quante quelle in cui ci si alzava dal letto o ci si coricava.
Le gambe però erano sempre perfettamente lucide, deterse, quasi abrase.
Col primo strato di pelle asportato dallo strofinamento d’ordinanza.
Perché la sera s’andava ai giardinetti e lì mica si andava troppo per il sottile.
Allora il fatto di essersi custodite solo poche ore prima non garantiva certo l’esonero dal dover ripetere tutta l’operazione una volta rientrate e prima di appoggiarsi sulle lenzuola bianche.
Anzi, di sera si aggiungeva il compito di lavarsi ognuno la propria biancheria intima:
Una ve la mettete, una la lavate. Sempre!”.

Altro che Tata Lucia e il suo taccuino.
Moderne e mollicce babysitter di oggi.
Pronte a correre in aiuto di bisogni autentici o inventati.
Con regole deboli e opinabili.
Con deroghe costanti e patteggiamenti in corso d’opera.
Con passaggi di consegna fra più e più persone.
Lì, affidate alle Nonne, c’era davvero poco da scherzare, niente da discutere, figuriamoci da barattare.
Ed erano proprio bei tempi.



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Non rifilerò la balla del lampo di genio alla sola apertura del frigo (che tanto invidio a chi è capace di farsi ispirare).
Mi rendo conto di avere poca poesia ma la (mia) realtà è ben più cruda: uno yogurt prossimo alla scadenza, un melone troppo maturo, dei fogli di gelatina da consumare, un po’ di tempo a  disposizione.
E via con la mousse.
O crema?
O gelatina?
Chiamatela come volete, a noi è piaciuta un sacco! Ma impone il riposo di una notte in frigo, poi secondo me anche l’utilizzo di uno yogurt compatto, per dare corpo.
Accompagnata a biscottini di avena e gocce di cioccolato, o a quelli che volete, costituisce un’ottima merenda (ovviamente dopo essersi diligentemente custodite) o un fresco dopocena.

Ingredienti (per 4)
300 gr di polpa di melone maturo
1 vasetto di yogurt bianco magro (preferibilmente compatto: greco o Kyr)
2 cucchiaini di miele
Mezzo cucchiaino di zenzero in polvere
4 fogli di colla di pesce
2 dita di latte
 In più:
foglioline di menta
biscotti a piacere

Procedimento
Mettere in un grande bicchierone tutti gli ingredienti ad eccezione della colla di pesce, che andrà sciolta in due dita di latte caldo (fuori dal fuoco) oppure messa in ammollo in acqua fredda una decina di minuti e aggiunta al composto dopo averla strizzata.

Frullare il tutto e infine aggiungere la gelatina amalgamando bene con un cucchiaio.
Versare il composto in 4 coppette e mettere a riposare in frigo per una notte.

Al momento di servire decorare con foglioline di menta e biscotti a volontà.


Verso il Sudafrica (Parte I): I passi compiuti – Zucchine ripiene (più di zucchine che di carne)

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 Tutto ebbe inizio in un freddo e piovoso pomeriggio di febbraio quando, non avendo di meglio da fare, iniziammo a fantasticare su un ipotetico viaggio nella parte più bassa del continente africano.
Talmente smisurata da rendere necessario (=indispensabile per due precisini come noi) scompattare tutti i posti da vedere in due (tre, quattro….) itinerari distinti e separati, che fare tutto in una volta, zompettando magari da Cape Town fino a Durban ci pareva quasi sacrilego.
Si ponevano poi tutta una serie di altre questioni su come-dove- quanti posti vedere fra tutti quelli che vorremmo, spalmandoli sul budget fisso di 14 giorni totali: quale parte privilegiare, se la costa Atlantica o quella sull’Oceano Indiano, se il Nord-Ovest o il Sud-Est.
Se dedicarsi solo ai parchi sconfinati e alle immense riserve oppure includere anche le grandi città, se non altro quelle in cui si è obbligatoriamente (o quasi) di passaggio.
Se mettere il naso pure negli stati indipendenti di Lesotho e Swaziland o limitarsi a circumnavigarli semplicemente. E non è cosa da decidere una volta sul posto perché quando noleggi la macchina devi comunicarglielo subito se intendi “sconfinare” e pur essendo quegli stati esattamente al centro di alcuni itinerari, varcarne i confini significa pur sempre attraversare una frontiera. E oltre confine l’assicurazione non ti copre.
All’inizio solo confusione e due uniche certezze: trovare il volo più economico e noleggiare una macchina.
Tutto il resto è venuto dopo, con calma, riflessioni accurate, qualche scornata di coppia e studio matto e disperatissimo.
 Da parte dell’amato bene, s’intenda, perché in casi come questi il lavoro sporco tocca a lui.
Per quanto mi riguarda, a parte scegliere fra opzioni preventivamente vagliate ed essere interpellata (pretendendo pure di avere l’ultima parola) su determinate questioni spinose precedentemente sviscerate, mi sono goduta solo il lato bello di tutta la faccenda, affidandomi al mio MoltoPersonal Travel Assistant……….


Quello che abbiamo fatto finora:

- Prenotare il volopiù conveniente che allora, cioè 5 mesi fa, era quello diretto al Cairo e farlo coincidere con un altro da lì a Johannesburg scegliendo tra due, estreme, opzioni possibili:
-         A) solo un’ora di tempo tra le due coincidenze.
-         B) 6 ore da stazionare nell’aeroporto egiziano in attesa del volo per Jo’burg.
Una sana via di mezzo sarebbe stato pretendere troppo (anche per una fannullona dell’organizzazione come me), allora siccome fidarsi è bene ma non fidarsi è sempre molto meglio, abbiamo optato per la seconda ipotesi onde evitare scapicollamenti maldestri per i corridoi dei transiti e visti da compilare (letteralmente) al volo (ragione per la quale il nostro viaggio per raggiungere il Sudafrica, tra voli effettivi e scali, durerà appena una trentina di ore totali, roba che manco per arrivare in Australia ci vuole tanto, ma il costo di un volo diretto non era nemmeno lontanamente paragonabile a quello fatto di trasbordi vari, e in fondo il bello, almeno per noi, sta anche in questo avvicinamento lento ma progressivo alla meta…);
- Stipulare un’assicurazione adeguata che ci copra per una serie di eventualità e per tutta la durata del viaggio (evitare, al momento della stipula, di leggere clausole troppo specifiche e un tantino esplicite tipo “rimpatrio della salma”, che sono di prassi e al limite concedersi giusto una grattatina scaramantica d’ordinanza).
- Noleggiare una macchina. La volevamo possibilmente col cambio automatico (tanto per facilitarci un po’ la vita, considerata la pratica del tutto nuova e sconosciuta della guida a sinistra) e il portabagagli abbastanza capiente onde evitare di dover lasciare magari bagagli in vista che non conviene mai, ma lì in Sudafrica, visto l’altissimo tasso di criminalità, ancora meno.
Per il portabagagli non c’è stato problema, il cambio automatico invece è andato a farsi benedire perché al momento della prenotazione non c’era una sola macchina di quel tipo in offerta e quindi ciccia: viva l’avventura e lo spirito di adattamento! Faremo di necessità virtù e impareremo (forse) a  guidare a sinistra…..;
- Prenotare anche il navigatore satellitare (che non è automaticamente incluso, ma che va richiesto e pagato – abbastanza profumatamente- a parte). Scaricarsi la mappa del Sudafrica sul tomtom nostro ci pareva più complicato e non del tutto affidabile. Poi siccome di impicci da portarci dietro ne avremmo giù una quintalata abbondante, abbiamo preferito evitare di doverci caricare pure mister tomtom)
- Abbattere la franchigia, subito alla stipula del contratto (a evitare di dover lavorare per il resto della vita solo per rifondere eventuali danni);
- Estendere l’assicurazione della macchina anche a un altro guidatore, che sarei io, che qui in Italia non guido perché non mi piace e potendo scegliere lo evito come la peste, ma in giro per il mondo l’investitura ufficiale di ruolo di “Secondo Pilota”  mi emoziona e mi inorgoglisce!!! Un po’ meno entusiasta è il passeggero che dovrò scarrozzare, ma dopo le autostrade americane a 18 corsie la guida per me non ha più segreti…..almeno quella classica, a destra….poi su quella a sinistra naturalmente non mi sento di garantire…);
- Richiedere la patente internazionale. Perché le notizie in merito sono contrastanti: chi dice che serve chi assicura di no, e nemmeno l’Aci (interpellato a mo’ di Furio-Verdone…) ha saputo chiarirci del tutto la questione, allora siccome noi saremmo leggermente pignoli (ma va’?!), per non sapere né leggere né scrivere, l’abbiamo fatta ugualmente: 80 euro, la porti un giorno, la vai a ritirare quello successivo e passa la paura. Che poi dici: ma sta patente internazionale che è? Niente di più che una traduzione, che pure uno scolaretto delle elementari alla prova di inglese potrebbe fare, peraltro vergata su un libretto di un comodissimo formato lenzuolo…..
- Stabilire un itinerario di massima e poi definirlo nel corso del tempo, tenendo conto del budget massimo a disposizione di 14 giorni compresi tra il volo di arrivo e quello di ritorno e partendo da qualche punto fermo e una domanda fondamentale:
cosa vogliamo (oltre che dalla vita in generale)  da questo viaggio in particolare?
Insomma, tenere a freno la (mia) valanga di velleità e iniziare a formulare ipotesi fattibili. Itinerari praticabili. Scelte realistiche.
E quindi scegliamo di lasciar perdere Cape Town e il punto in cui si incontrano i due oceani, le Table Mountain e l’avvistamento delle balene, per puntare esclusivamente verso Est, senza manco fermarci a dormire a Johannesburg, in un itinerario esclusivamente “verde” di circa 2000km, così formulato:
- Golden gateHighlandsNational park
- Isimangaliso Wetland Park, sulle rive dell’Oceano indiano, per vedere gli ippopotami a St. Lucia.
- Hluhluwe-Imfolozi Park per vedere i rinoceronti bianchi e  neri che vagano tra il White Imfolozi River e il Black Imfolozi River;
- Puntatina a Sabie, che di per sé è una piccola cittadina nemmeno particolarmente caratteristica, ma pare che vanti dei dintorni spettacolari fra cascate, montagne, canyon oltre che (nella vicina Graskop) un famoso posticino dove andare a gustare li mejo pancakes di tutto il Sudafrica, parola di viaggiatori del web;
- Il Kruger, naturalmente, l’autentica icona africana: un paio di giorni? Tre? Cinque alla fine! Perché l’ecosistema cambia da nord a sud e come fai a rinunciare preventivamente a questo o a quello?
- Terminando con la visita a qualche riserva per il recupero degli animali feriti: Mohololo Wildlife Rehabilitation, oppure Rhino&Lion Nature Riserve;
………e i giorni a disposizione sono finiti!
Non c’è più posto per le grandi città, ma a ridosso di una grande città ci viviamo e noi stavolta ce ne vogliamo tignosamente tenere alla larga. E pazienza per Durban, Pretoria, la stessa Johannesburg: sarà per un’altra volta, forse, quando avremo voglia di affidarci a una guida locale (perché visitare le township in autonomia non è possibile e di andare a girare per centri commerciali e grandi negozi, dove si è “al sicuro”, non ci interessa) e fare tutto un altro tipo di viaggio, con tutto un altro spirito e una diversa disposizione d’animo.
Senza mescolare troppo, senza affannarsi come al solito saltellando di qui e di là in una corsa infinita.
Natura, animali, tramonti infiammati, albe lucenti, sistemazioni pratiche, contatto con la terra e i suoi ritmi: stavolta è (vuole essere) solo questo.


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Un classicone dell’estate, ma con personalizzazioni varie in giro per i blog e per il mondo. La morte loro sarebbe col pomodoro, ma siccome quest’ultimo meno ne mangio, meglio mi sento ho iniziato a fare la versione in bianco apportando ogni volta qualche piccola modifica.
Solo una cosa rimane imprescindibile: la polpa delle zucchine frullata da mettere nell’impasto, in modo che il ripieno sia più zucchine che carne, più dolce che deciso, più delicato che imperioso.
La consistenza sarà morbidissima e pure della fetta di pane ammollata in acqua (o latte) e poi strizzata si può fare tranquillamente a meno.
Da preparare la mattina per la sera, il giorno prima per quello successivo, che tanto vale la solita storia: più stanno lì, più sono buone!

Ingredienti (per 6, con dosi abbondanti)
8 zucchine romanesche belle grandi
500 gr di carne di manzo macinata
2 uova
2 cucchiai di pecorino (o parmigiano)
1 ciuffo di prezzemolo
3 spicchi d’aglio (che io evito di tritare ma mi limito a mettere interi nella teglia tanto per dare sapore)
Qualche foglia di basilico
Qualche cucchiaio di pangrattato
½ bicchiere di vino bianco secco
Olio extravergine d’oliva
Peperoncino
Sale

Procedimento
Innanzitutto munirsi di quell’attrezzo meglio noto (almeno da queste parti) come scannazucchine 

e svuotarle delicatamente una per una dopo averle lavate, private delle estremità e tagliate in 3 o anche 4 pezzi, secondo la grandezza.
Raccogliere la polpa in una terrina molto capiente 

e passarla al minipimer. Unire a questa il macinato, sale, pepe, pecorino, peperoncino, il prezzemolo tritato e le due uova leggermente sbattute. Impastare bene con le mani fino ad amalgamare tutti gli ingredienti.

Aggiungere al composto pangrattato quanto basta per renderlo manipolabile e iniziare così a riempire i cilindri di zucchina dopo averli salati all’interno.
Disporli quindi in una teglia cosparsa di poco olio. Con l’impasto rimanente formare delle piccole polpettine da rotolare nel pangrattato. Al termine completare con un giro d’olio, spargere sopra qualche fogliolina di basilico, più i 3 spicchi d’aglio interi, unire poco meno di mezzo bicchiere d’acqua e infornare a 180°. 
Trascorsa circa mezzora (girare delicatamente zucchine e polpette e bagnare tutto con il vino bianco.
Proseguire la cottura per altri 30 minuti o comunque fino a quando inserendo inserendo una forchetta in una zucchina questa risulterà morbida.

Lasciare raffreddare e gustare tiepide o a temperatura  ambiente.

1....2...3

Urge riposo – Pomodori col riso

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Farà male la camomilla scaduta?
Me lo chiedo mentre all’ennesimo risveglio notturno decido che basta, mi devo alzare.
E penso di farmi una camomilla per l’appunto.
Che con l’afa di stanotte, lei, fumante nella sua tazza di ceramica spessa che trattiene il calore il più a lungo possibile (e non lo rilascia manco ammazzalla) è proprio la cosa più indicata.
Del resto mica posso trovare conforto e coccola in una birra ghiacciata.
O calma e serenità in una fetta di cocomero .
E questo è ciò che passa il convento: quattro bustine di camomilla scaduta.
Ma mica da tantissimo: solo 6 mesi.
Al massimo mi cresceranno farfalle nello stomaco.
Che magari le larve ci arrivano vive laggiù.
Oppure le vedrò galleggiare prima ancora di mescerla (ma sorvolerò pure su questo).
Potrei attaccarmi al karkadè (quello dell’hennè), o a una tisana ai frutti di bosco.
Ma poi penso che quest’ultima starà lì, nella sua bella scatolina di legno assieme a tutte le altre, da almeno 5-6 anni, altro che mesi. Magari troppo. Continuo a usarle come profuma-ambienti, che forse è meglio.
Nel frattempo che bolle l’acqua però aggiorno la lista della spesa: che non si ripeta più una cosa del genere.
Rimanere senza camomilla! E se avevo mal di pancia??
Il Buscopan, sì, ma quello mica ti coccola.
Mentre aspetto che l’acqua bolle canticchio la sigla della Pimpa, che nella sua follia pure estetica co la trippa, la lingua eternamente penzolante da un lato e gli enormi pois staccabili, il grande mondo (tondo) girerà.
(dal web)
Siccome mi dà l’urto di nervi, sia la visione sua che di gatta Rosita, Colombino e Bombo Ippopotamo (con l’unica eccezione di Pinguino Nino, che mi sta vagamente simpatico e, ma solo lievemente, della Paperina Olivia) passo alla canzoncina di quella creatura strana e un po’ speciale rispondente al nome di Ondino (che, si badi bene, non è un bambino e non è un pesciolino).
(dal web)
Lui sì che è dolce e affabile, insieme a tutta la sua banda di squinternati che vivono in fondo al mare e un po’ pure sulla spiaggia: Icaro il gabbiano, Consuelo la tartaruga, Giasone il paguro e Polly la polpetta (inteso nel senso di piccolo polpo femmina, non di pallotta di carne macinata: specifica per i grandi, che i piccoli il pericolo di questi fraintendimenti non lo sfiorano nemmeno).
Da lì il passaggio è molto breve e quasi scontato: sorvolando sulle grufolate ossessive della famiglia Pig al completo 
(dal web)
(e sulla triste sorte delle povere Susy pecora e Rebecca coniglio, vittime designate dell’egocentrismo di quella inguardabile Principessa Peppa, che se la sente calla nonostante se ne vada in giro con un asciugacapelli al posto del muso e ha come unico scopo di vita quello di zompettare poco regalmente da una pozzanghera di fango all'altra), mi soffermo sui gattini di pongo bianco e rosso 
(dal web)
che invece di parlare mugugnano ma scorrazzano allegramente tra alberi e non meglio specificati compagni di avventura, pure loro gommosi, al ritmo di Mio, Mao, Mio, Mao, lallallallalà  (da cantare tutti insieme, nonni compresi, saltellando scalzi e battendo le mani!).
Al bando Cuocarina che, pur simpatica ha una sigla e un modo di fare che, a quest’ora di notte, potrebbe agitare più che rasserenare…e allora la camomilla che me la sto a fa a fa’?
(dal web)
Ma il mio cartone preferito in assoluto è (e qui posso dichiararlo apertamente senza tema di smentita e senza correre il rischio di rimetterci i dinosauri faticosamente conquistati sul campo per l'ardire dell'affermazione), Pipì, Pupù e Rosmarina 
(dal web)
che a guardarli di sfuggita non si capisce proprio bene, ma in realtà sarebbero, nell’ordine, un orsetto lavatore (in pigiama a righe), un uccellino (implume) e una coniglietta (con la vestaglietta da casa).
I tre se ne vanno a spasso per il mondo in cerca del MaPà, ossia la mamma che è un papà…o viceversa, sempre, rigorosamente, nuotando su nel ciel e volando giù nel maaaaaaaaar.
Nel frattempo la camomilla è pronta, intingo la bustina con cura aspettando che l’acqua si colori un po’.
Intanto (oltre a quelle di cui sopra) faccio delle (altre, profonde) considerazioni  che sembrano portare tutte in un’unica direzione:
-se pure di notte mi sveglio passando in rassegna le sigle di tutto il palinsesto di Rai YoYo  con l’euforia di poter decretare la migliore in completa autonomia (e qualche risicata concessione a piccole chicche di Cartoonito o K2);
- se il dialogo quotidiano non va oltre la sillabazione di Mam-ma/Pa-pà/Ta-ta e l’emissione di suoni (acuti) non meglio specificati e ancora tutti da decrittare;
- se gli argomenti quotidiani di conversazione vertono esclusivamente sulla disamina di chi, fra Polacanti, Allosauri, Triceratopi e Pteranodonti fosse il più forte e scaltro;
-se mi risveglio di soprassalto nel cuore della notte chiedendomi se quella mattina ho spalmato uniformemente la protezione 125 su schiena e collo di entrambi i pargoli, oppure magari ho dimenticato incautamente qualche cm di pelle dell'uno o dell'altra;
- se la massima aspirazione della giornata è riuscire ad andare anche un’unica volta in bagno a porte chiuse e soprattutto da sola, senza dovere, contestualmente all’espletamento (ultra rapido) dei bisogni fisiologici, reggere la mano della piccola, neo deambulatrice ancora incerta sulle proprie gambe, per evitare che si scapicolli nello spazio infinitesimo fra bidet e vasca da bagno, oppure senza interrompere la battaglia in atto fra almeno 4 dei dinosauri di cui sopra, col treenne di lei fratello;
- se alle ore 13 vorrei starmene ancora sulla spiaggia a rosolarmi al sole anziché essere già transitata per casa, aver fatto doccia-pranzo-caffè in tempo record e stare ferma sotto il sole (sì ma vestita e accessoriata) ad aspettare che arrivi il mio treno;
- se i risvegli mattutini sono costellati di enormi preoccupazioni relativi alla sorte di Ape Maia alle prese con i guai in cui puntualmente si caccia Willie, nonostante i saggi consigli di Flic……
………..Se almeno tre di questi casi si verificano con una certa costanza allora è ufficiale:
Signori, è ora di andare in ferie!!!


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 Che si sappia: non è che mi sia sfuggita la cottura, è che mi piacciono proprio  bruciacchiati, e col riso quasi secco....

Ingredienti (per 4)
8 pomodori rossi da riso
10 cucchiai di riso parboiled
5 patate medie
mezza cipolla
2 spicchi d'aglio
abbondante prezzemolo
qualche foglia di basilico
Olio extravergine d’oliva
sale
pepe

Procedimento
Dopo averli lavati e asciugati, tagliate la calotta superiore dei pomodori e svuotateli con un cucchiaio stando attenti a non romperne le pareti e raccogliendo in una terrina la polpa ricavata. Schiacciate la polpa con una forchetta e unitevi il riso, l'aglio, un po' di olio, il prezzemolo tritato, il basilico, un po' di sale e pepe. Mescolate bene il composto che dovrà risultare abbastanza liquido. Salate leggermente l'interno dei pomodori e riempiteli con il composto di riso per tre quarti (cuocendo il riso si gonfia e arriva all'orlo), quindi ricoprite i pomodori con la loro calotta, sistemateli in una teglia precedentemente oliata e irrorateli ancora con un po' di olio. In una terrina condite le patate tagliate a pezzi grandi con olio, sale e pepe e disponetele intorno ai pomodori riempiendo gli spazi vuoti (n.b.: se avanza del composto di riso, disponetelo pure sulle patate: verrà croccante e buonissimo!). Cuocere in forno ben caldo per circa 1 ora.

Lasciare raffreddare benissimo prima di gustarli.

Verso il Sudafrica (Parte II): I passi ancora da compiere – Cous cous integrale al pesto con patate, fagiolini e pinoli tostati

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Mentre quasi tutto il mondo (food)bloghesco chiude saggiamente per ferie e si prende un meritato riposo da forno, fornelli, scervellamenti su nuove sperimentazioni, allestimenti di set fotografici, ricette da compitare, commenti da moderare e compagnia bella, io, more solito, procedo maldestramente in direzione opposta riprendendo finalmente pieno possesso, oltre che delle mie facoltà mentali (ma su questo non sarei pronta a giurare), soprattutto del piccolo spazio presente, tanto amato.
Che è stato perlopiù abbandonato a se stesso negli ultimi tempi, salvo rare e deliranti eccezioni prontamente denunciate in post dedicati (perché le cose belle, ma anche quelle strane, tipo risvegli notturni, e meno felici, come i pasteggiamenti a camomilla scaduta, vanno condivise).
E siccome alla partenza mancherebbero una ventina di giorni abbondanti e i pasti da mettere insieme sarebbero un bel numero, comprensivo anche di cene e cenette di qui e di là, la grazia di tutto questo tempo libero, tutto insieme, mi dà agio di lanciarmi in spericolati esperimenti e occasione di bearmi perfino di accendere il forno alle due del pomeriggio, col termometro che sfiora i 40° o di passare una mezz’ora buona a rimestare pietanze sul fuoco, magari di ritorno dal mare, dopo adeguato rosolamento.
E soprattutto di farlo sentendomi finalmente felice e soddisfatta.
Appagata di sciogliermi come un ghiacciolo al sole.
Fiera di avvampare davanti a una teglia di pomodori col riso, o di zucchine ripiene, o di melanzane gratinate.
Nel frattempo proseguono (pigramente e a rilento) i preparativi per il viaggio, con due modi di procedere fra quello perpetrato dall’amato bene e il mio, nettamente distinti e separati per entità e velocità di esecuzione. Ma soprattutto per temi prescelti.
Mentre lui, accurato e pragmatico, si prodiga con efficienza militare nel disbrigo di pratiche indispensabili (espletamento eventuale del check-in on line, controllo dello stato dei voli, verifica delle marche da bollo sui passaporti, ecc) senza le quali probabilmente nemmeno potremmo alzarci in volo; io, sciatta e inconcludente, mi sollazzo in questioni perlopiù secondarie ma perfettamente in linea con la mia indole (lievemente) ipocondriaca, (vagamente) ridondante, (un tantino) indecisa e (assolutamente) bradipesca.
E tra una mezza giornata al mare e l’altra mezza trascorsa a gironzolar per bancarelle, continuo la mia personalissima preparazione stilando liste su liste e tirando sacchi interi di monetine per aria nella speranza che mi aiutino a decidere…….(n.b.: il plurale, in molti dei casi che seguono, è puramente maiestatis…)
Scelte da compiere (e cose da fare)

-Profilassi antimalarica si/ profilassi no.
Visto che sarebbe la terza volta (le due precedenti per il Kenya e la Tanzania), che le stagioni sono invertite rispetto all’emisfero boreale (quindi lì ora è inverno) e che l’unica vera forma di protezione, anche nel caso della profilassi, rimane la prevenzione, cioè evitare, per quanto possibile, di farsi pungere dalla zanzara, e in particolare da quella bastardonaa della Anofele, abbiamo deciso che no, questa volta non la faremo. E quel medicinale dal nome di un boss della camorra, tale Malarone, reperibile solo in Vaticano (o in Svizzera) stavolta rimarrà lì, nei cassetti della farmacia papale (e un centinaio di euro in più nelle nostre tasche). Dopodichè prevedo che scatterà, almeno da parte mia, ogni tipo di manovra fantozziana ad evitare punture e lo scoppio di crisi isteriche a ogni minimo ronzio, con conseguente strage di mosche, moscerini e qualsiasi altro tipo di insetto dotato di ali e facilmente scambiabile.
Ma confidiamosoprattutto nella stagione invernale.

- Quali medicinali portarsi dietro, a parte badilate di antipiretici, secchi di fermenti lattici, una fornitura completa di antibiotico ad ampio spettro (badando che le dosi siano sufficienti per due, non come in Marocco che abbiamo dovuto fare carta vince carta perde per decidere chi dovesse curarsi e chi no, affidandoci a una sorta di selezione naturale che ci ha portati poi a lasciare le scatole intatte per solidarietà…), una vagonata di cerotti, ettolitri di amuchina, scatoloni di compresse per sterilizzare l’acqua, più un antistaminico e un antivomito, quest’ultimo così, tanto per stare più sereni nel caso in cui si dovesse essere colti dal sacro fuoco del virus intestinale (che comunque, fra Dengue, febbre gialla, malaria, tifo e compagnia bella sarebbe pur sempre il male minore… ).
E l’amato bene puntualmente lì, come il grillo parlante della mia coscienza, a ricordarmi che “stiamo recandoci in un paese che purtroppo ha il 40% della popolazione affetta da HIV, forse alloranon è propriamente il caso di andare troppo per il sottile e magari, a parte una saggia dose di prudenza, converrebbe badare piuttosto al sodo della questione, con un filo di realismo e senza troppe paranoie”. …

- Selezionare abiti chiari e a maniche lunghe per le zanzare. Ma questi ultimi anche per il freddo visto che di notte la temperatura in questo periodo scende intorno allo zero e la domanda (sicuramente retorica e gironzolante sempre attorno al medesimo argomento) è: la zanzara sopravvive col freddo? Lei magari no, ma io un maglioncino in più, magari per i 1800 metri di altitudine della terra dei Basotho, per la mia di sopravvivenza, me lo porterei.

- Fare una curetta preventiva di fermenti lattici… “no? Che ne dici amore?” Risposta: “Fa’ come te pare. Io, co tutti i problemi che ce stanno lì, me rifiuto proprio”.
Logica stringente, pensiero chiarissimo. Ma io la faccio lo stesso.

- Iscriversi sul sito della Farnesina “Dove siamo nel mondo” .
Domanda (quasi scandalizzata): “ma pe fa che?!?!” .
Risposta (mia stavolta): “beh, metti che scoppino disordini, calamità naturali, tsunami emotivi e non possiamo comunicare con casa…almeno ci vengono a cercare”.
La controrisposta consiste unicamente in un’alzata di sopracciglio con sguardo di compatimento ma anche di rimprovero per (immagino) sopraggiunto limite di sopportazione.
Decido di farlo lo stesso e magari stavolta iscrivere solo me medesima, che lui mica lo sa che io a quel sito ho iscritto tutti e due ogni volta che siamo usciti fuori dall’Europa, tranne che per andare in America (eviterei di confessarglielo ora per non vedermi recapitare le carte per il divorzio, che prima di partire mi verrebbe scomodo affrontare la questione..)

- Fare una prova su una piccola porzione della (mia) pelle (quella coriacea dell’amato bene è immune da orticarie e dermatiti: chi omo!), per testare l’antizanzare prescelto, rigorosamente a base di permetrina e duranone (che lì, i vari Autan, Off e Vattelapesca da soli, a parte inquinare, non hanno effetto alcuno sul tipo di zanzara evidentemente dotata di controattributi) perché va bene proteggersi dalle zanzare ma se la contropartita è uno shok anafilattico, direi che la sperimentazione è in caso di farla prima. Più che altro per non sentire lui che, mentre magari annaspo e mi ricopro di bolle d’acqua,  mi guarda dall’alto della sua imperturbabilità ricordandomi che “me l’aveva detto” “sono sempre la solita” (e chi altri dovrei essere?!), e via dicendo.

- Scegliere con una certa accuratezza e una buona dose di lungimiranza i libri da portarmi dietro. Qualche minaccia, seppur velata, l’ ho già ricevuta e dopo vaghissime allusioni ad alcune (ma poche) scelte infelici, mi è stato chiesto se stavolta avessi intenzione di portarmi dietro magari qualche tomo sul Ku Klux Klan. Uomo di poca fede e di malevoli pensieri.
Pensavo alle Favole africane di Nelson Mandela invece, ma è ancora tutto da decidere e magari lo farò come al solito un attimo prima del check in, prendendo ciò che offre l’edicola all’angolo…e a quel punto ci sarà poco da fare: quel che capita capita!

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È buono appena fatto ma ancora di più dopo qualche ora di riposo. Il pesto, come invece temevo, non appalloccail cous cous e comunque basta sgranarlo con una forchetta che ogni singolo chicco riacquista piena autonomia.Ho voluto provarne uno integrale e penso che d’ora in poi difficilmente l’abbandonerò.
Per cene estive sul terrazzo (o su un micro balcone in 6), rigorosamente a lume di candela.


Ingredienti (per 6)
400 gr di cous cous integrale
500 gr di fagiolini (peso prima di pulirli)
2 patate medie
180 gr di pesto (nel mio caso senza aglio)
50 gr di pinoli
Olio extravergine d’oliva
Sale

Procedimento
Lavare le patate, metterle in una pentola di acqua fredda con tutta la buccia e farle lessare per circa 40 minuti o comunque finché bucandole con uno stecchino non risulteranno morbide ma non spappolate. Farle raffreddare, pelarle e tagliarle a tocchetti piccoli.
In un altro tegame portare a bollore abbondante acqua leggermente salata, quindi tuffarci dentro i fagiolini mondati e lavati e farli lessare al massimo per 20 minuti, dopodichè scolarli conservando la loro acqua di cottura e tagliarli a pezzettini piccoli.
Unire patate e fagiolini e condirli con poco sale (considerando che il pesto pronto ne contiene già di suo) e olio.
Ungere un piccolo padellino con pochissimo olio e farci tostare i pinoli a fuoco basso mescolando di continuo, fino a farli diventare, più o meno, così:
 (attenzione perché bruciarli è facilissimo!). Seguire le istruzioni sulla confezione per la preparazione del cous cous, di solito si tratta di: 
mettere il cous cous in una ciotola, aggiungervi una noce di burro (nel mio caso 2 cucchiai di olio) più pari volume (non peso: volume, cioè 2 bicchieri di cous cous=2 bicchieri di acqua) di acqua bollente (nel mio caso ho usato l’acqua di cottura dei fagiolini precedentemente messa da parte), coprire e lasciare riposare 6 minuti. Dopodichè sgranare i chicchi e condire con il pesto, mescolando bene, quindi aggiungere le patate, i fagiolini, i pinoli tostati e servire subito.


I suoni dei miei viaggi

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Il tintinnio delle targhette appartenute ai soldati americani caduti in guerra. Nel silenzio del paesaggio ammantato di neve, il vento modula i versi di una struggente poesia.
(BostonMemorial Garden sul retro della Old North Church)










Il verso dei gabbiani nella baia di San Francisco (cui fanno da contrappunto le sirene delle navi)



Il richiamo inaspettato del muezzin anche nella ipertecnologia Dubai


Con queste tre foto partecipo all'iniziativa mensile di Monica del blog Viaggi e Baci

Ma che, so’ già 41?! – Cipolline agrodolci al balsamico

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Già che non mi sono alzata (come l’anno scorso di questi tempi) con  rodimenti di chiccherone e paturnie sparse è una grande conquista.
Ma lo spettro dei 40 ormai è passato e la consapevolezza di aver già compiuto il giro di boa regala (a parte, rispetto a questa foto, qualche ruga di espressione in più sul contorno occhi e nuovi solchetti trasversali sul decolletè) una (vaghissima) leggerezza in più all’idea di ricominciare, pur sempre, da uno.
Del resto, fino allo scoccare del 39°, sono sempre stata quella che il giorno del compleanno sprizzava gioia ed entusiasmo da tutti i pori, anche senza motivo.
Che aspettava auguri e regali con trepidazione somma divertendosi parallelamente a fare la conta di:
Chi mi aveva fatto gli auguri per strada
Chi mi aveva mandato un messaggio
Chi mi aveva addirittura telefonato
Chi aveva fatto prima
Chi aveva fatto dopo
Chi s’era proprio scordato
E mica è facile a ridosso di ferragosto trovare qualcuno che non sia tutto proteso a organizzarsi per il pranzone con i parenti, la gita fuori porta, la giornata al mare, il cocomero da mettere in fresco…. e si ricordi quindi di un compleanno.
Anche se certo, mica un compleanno qualsiasi….
Un po’ come chi nasce a Natale e si trova puntualmente le candeline conficcate di malagrazia in un panettone, tra un giro di tombola e l’altro.
A me in questo va leggermente meglio considerando che perlopiù mi toccano in sorte marmoree torte-gelato (in cui le candeline manco si conficcano), ma che certo una piccola attrattiva in più rispetto al panettone, almeno ai miei occhi, la conservano.
Alla luce di tutto ciò, trovo che vada recuperata un po’ di leggerezza, sfoderato un atteggiamento più positivo verso questo spettro di numero, ritrovato un barlume di entusiasmo verso un giorno che rimane pur sempre speciale.
Perciò ecco, anagrafe a parte, quest’anno avrei deciso di festeggiare così, con un tocco glamour,




un po’ da tardona in crisi o da eterna adolescente, secondo i punti di vista (e l’umore del momento)
E delle candeline fashion, bianche e  nere a righe e a pois che stanno su tutto (i fuochi d’artificio mi parevano eccessivi)


Manco la torta me so’ preparata: sarebbe costata tempo e fatica, sudorazioni cospicue e saune inutili, che assai poco sarebbero valse a farmi sentire coccolata.
Allora sono passata a ordinarla direttamente in pasticceria, con tanto di autoaugurio fatto scrivere sopra, perché le cose vanno fatte per bene o lascia perde.
Un po’ da delirio senile ma pur sempre di conforto e sviscerato amore per me stessa, che non guasta mai, coerentemente con la punta (sottile) di egocentrismo che mi contraddistingue.
Una cenetta leggera ma sfiziosa da condividere con pochi intimi (questa sì, preparata da me) e via,  come il natale anni ’80 di vanziniana memoria (nell’entusiasmo e nella leggerezza di cui sopra)….pure sto compleanno se o semo levato dae palle!

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Ingredienti
500 gr  di cipolline
Poco meno di mezzo bicchiere di aceto balsamico
40 gr di zucchero di canna
4-5 foglie di alloro
Olio extravergine d’oliva
Sale


Procedimento
Lavare le cipolline e tamponarle con carta da cucina (io di solito le compro già sbucciate). Far scaldare l’olio in una padella e,a  fuoco basso, aggiungere a mano a mano lo zucchero continuando a mescolare. Una volta finito di versare lo zucchero aggiungere l’aceto balsamico e alzare la fiamma per sfumare leggermente. Unire le cipolline e le foglie di alloro, salare leggermente e far cuocere coperto per circa tre quarti d’ora mescolando ogni tanto e aggiungendo, se necessario un mestolino di acqua calda (ma di solito non lo è).



Sono buone calde, fredde o tiepide; buonissime nei giorni successivi

Che faccio e che non faccio – “Lasagne” di peperoni e carasau

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La mia estate all’insegna del fancazzismo più spinto prosegue senza tregua né segni di ravvedimento.
Trascorso anche il compleanno all’insegna di pochi e selezionatissimi ingredienti, dispendio minimo di fatica e impiego quasi nullo di energie, la vita prosegue tra attività amene e spunta di voci su liste immaginarie.
Quest’ultima pratica con l’esclusiva finalità di autorassicurarmi e sentirmi, se possibile, ancora più in pace con me stessa.
Perché da spuntare in realtà ci sarebbe ben poco e di tutte le cose stratosferiche che mi ero prefissata di fare prima di andare in ferie, tipo
-Pulire a fondo la cucina
- Tirare giù uno per uno tutti i libri dai loro ripiani
- Lavare tutti i centrini all’uncinetto sparsi per casa
- Sbrinare il frigorifero
-Liberare il mobiletto del bagno da tutti i flaconcini in disuso da una vita
- Ripulire gli anfratti della scrivania da carte e cartacce accumulate negli anni
possino cecammese ne ho fatta ancora mezza!
Perfino lo stiro è rimasto uno spauracchio da cui continuare a tenermi saggiamente a distanza e mentre ieri in un accesso di euforia, mi accingevo a scrostare le ragnatele dall’asse all'uopo preposta, ritirando fuori quell’aggeggio ormai semi sconosciuto che è il ferro, per stirare l’ultima camicia dell’amato bene prima delle sue ferie, lui - per fortuna  - mi ha riportata bruscamente alla realtà: “Non le stiramo da na vita, mo’ proprio adesso te dovresti decide?”, risospingendo così negli abissi da cui aveva fatto timidamente capoccella ogni più piccolo accenno di buona volontà.
Manco la guida del Sudafrica ho ancora finito da leggere.
Nemmeno  la polvere più atavica ho scrostato via dai mobili.
Solo mare, tintarella, lunghe passeggiate, qualche mercatino e il momento topico della giornata attorno a cui tutto ruota e tutto si concentra: la pennichella dopo pranzo!
Immancabile, imprescindibile, guai a chi me la leva.
Ma in questa pigra e sonnacchiosa estate, con inaspettato ed euforizzante sovvertimento di regole e compitini autoimposti, ho fatto anche, tra le altre, due cose molto belle di cui vado estremamente fiera:
-         Riallacciare i rapporti con un’amica di vecchissima data persa di vista da un po’.
-         Imparare a giocare a scacchi
A presto un posto dedicato esclusivamente a quest’ultimo punto e a tutte le sonore sconfitte inflitte al mio amato avversario….

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La Parodila chiama “Parmigiana di peperoni”, a me è sembrata più una lasagna perciò preferisco affibbiarle questo nome, a futura memoria. Il parmigiano io non ce l’ho messo per niente e non ne ho nemmeno sentito la mancanza, in compenso sono rimasta assolutamente affascinata e conquistata dalla consistenza e dalla versatilità del pane carasau che pure a contatto con le verdure non diventa “una pappetta” come temevo ma rimane invece bello compatto cedendo solo in morbidezza, e diventato esattamente come la sfoglia di una lasagna. Io l’ho preparata il giorno prima (cottura compresa) avendo solo l’accortezza di tirarla fuori dal frigo un paio d’ore prima di portarla in tavola. Volendo la si può preparare in anticipo e riservare il (breve) passaggio in forno all’ultimo momento.
Gli ingredienti sono un po’ a occhio, dipende dalla teglia che si userà e nel mio caso sono arrivata all’ultimo strato senza avere peperoni sufficienti a ricoprirlo interamente. Poco male, perché tanto alla fine si spolverizza di pangrattato e si coprono così tutte le magagne.

Ingredienti
3 peperoni gialli
3 peperoni rossi
1 mozzarella
5-6 pomodori a grappolo
3 fogli di pane carasau
Una manciata di olive verdi o nere
1 spicchio d’aglio
Origano
basilico
Pangrattato
Olio extravergine d’oliva
Sale
Peperoncino

Procedimento
Innanzitutto arrostire i peperoni sul fuoco o mettendoli in forno a 200° per circa ¾ d’ora rigirandoli un paio di volte. 
Dopodichè chiuderli in un sacchetto di plastica per un po’ per facilitare l’operazione di pulitura da pelle e semi.
Metterli a scolare a mano a mano che si puliscono, tagliarli a falde grandi e tamponarli leggermente con carta da cucina.
Lavare e mondare i pomodori, quindi frullarli con un po’ di olio, sale, peperoncino e basilico.

Strofinare una teglia con lo spicchio d’aglio, oliarla leggermente e iniziare a formare gli strati distribuendo prima i peperoni sul fondo, sale, origano, pane carasau, pomodori tritati, mozzarella, ancora un filo d’olio e proseguendo in questo modo fino a  esaurimento di tutti gli ingredienti.
Terminare con i peperoni e disporre sull’ultimo strato le olive tagliate a rondelle. Cospargere di pangrattato e una generosa spolverata di origano. Trasferire in forno a 180° per circa 15-20 minuti.

Lasciare riposare qualche minuto a temperatura ambiente prima di servire.









È matto è matto! – Arrosto estivo al tonno

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Ci ho girato intorno molto a lungo.
Esattamente da quando, un mesetto fa, ho voluto imparare a giocare a scacchi.
E ho preso a farlo tutte le sere, a volte anche qualche pomeriggio, appassionandomici sempre di più, roba che mai avrei creduto possibile.
Io, poco paziente, molto approssimativa,  e con la mente per niente matematica.
Dice: ma la matematica che c’entra? Beh quella precipuamente e letteralmente intesa magari poco, ma imparare per esempio che i pedoni procedono solo in verticale ma mangiano solo in diagonale, che le torri si spostano solo a croce e non in diagonale, che il cavallo si muove “a elle”  invece gli alfieri solo in diagonale e che perfino sua maestà il Re può mangiare ma a patto di compiere un unico passettino alla volta (però in tutte le direzioni) è da mente matematica.
O perlomeno molto elastica, abituata al calcolo e al ragionamento veloce e lungimirante.
All’inizio infatti io procedevo a tentoni, senza nemmeno capire bene quale fosse, di preciso, lo scopo del gioco.
Giocavo e basta, caparbiamente, de tigna, con tutti i sentimenti e l’obiettivo unico di vincere, che giocare solo per partecipare a me è sempre sembrata una cosa un po’ da sfigati.
O da paracuccumiche buttano le mani avanti, pe non cascà indietro.
E però non ero in grado, con le scarse nozioni ancora in mio possesso, di conquistarmi la vittoria.
Potevo anche arrivare alla fine della fiera, ad aver mangiato (quasi) tutti i pedoni, i due alfieri, le torri, i ciucci e perfino sua maestà la regina, che quell’accidente del Re avversario mica mi riusciva di metterlo definitivamente in scacco.
Ma non è roba semplice quella.
Ho sperimentato, senza conoscerla prima, la situazione frustrantissima dello stallo, della parità dichiarata per incapacità inflitta a quell’impedito del re avversario, di muovere ulteriori passi senza però metterlo realmente in pericolo.
Cosicché la partita finisce in parità.
E lì si rosica proprio di brutto.
Una serata intera a discutere, a dire che Lui, l’amato bene, l’aveva fatto apposta a non spiegarmi bene le regole!
E a concludere che comunque avevo vinto lo stesso.
“ma lo scopo del gioco è dare scacco al re” mi faceva notare pazientemente lui.
nun me frega gnente, il re non si poteva più muovere e quindi ho vinto io” ribattevo irrazionalmente io.
Ma naturalmente non era così.
Mi serviva crederlo però per darmi coraggio, per dirmi “ok, se sono riuscita -per puro c…aso-  a fare questo posso riuscire anche a vincere!”.
E sabato 17 agosto alle ore 23:36 la magia si è compiuta….
 
(ovviamente i neri sono i miei)
Sotto lo sguardo attonito e mezzo sconvolto del mio degno avversario.
Che ormai se la sentiva calla e giocava con un occhio solo, la sigaretta su un lato della bocca e la sicurezza di chi pensa “tanto questa non mi batterà mai”.
Poi ha iniziato a cercare cavilli, ad appellarsi a presunte irregolarità, a dire che in una certa fase della partita mi aveva fatto ripetere una mossa ché sennò avrei perso subito (dice).
Fino a giocarsi la carta dell’umana pietà, attribuendo la defaillance alla puntura di vespa – con relativo scatenamento di reazione allergica - subita il giorno di ferragosto in spiaggia.
È vero che giocava con l’impacco di ghiaccio sul dito gonfio come  un salsicciotto e ricoperto di inguardabili croste purulente (dopo aver steso strati spessi di pomata al cortisone, ingoiato una mezza scatola di antistaminici e dettato le ultime volontà).
Ma la mano offesa era la sinistra.
Mica la destra.
Mica il cervello.
Dunque è ufficiale: è Scacco matto signori, mica cavoli!
E la vittoria ha un sapore proprio dolce………………
UAUUUUUUUUUUUUUU.

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Sempre la Parodi (sì, m’è presa fitta con i suoi libri da cui, cavilli linguistici a parte, devo dire si traggono spunti interessanti) lo chiama “Vitello tonnato senza maionese”, ma io l’ho ribattezzato col nome diverso di cui nel titolo. Perché il vitello tonnato mi piace troppo per non restare delusa al primo assaggio di questo. Perché il vitello tonnato è fatto con la maionese e basta, o comunque con le uova (sode, frullate), in ogni caso con quella crema dalla consistenza inconfondibile che ‘nc’è gnente da fa: deve sapere, anche vagamente, fosse pure di striscio,  di maionese.
Che poi a  dirla tutta io manco avevo preso la carne di vitella. Un arrosto qualsiasi di manzo (o di vitellone, di arista di maiale, perfino la fesa di tacchino secondo me potrebbe andar bene!), che mi pareva sodo, compatto, senza troppi grassi e grassetti da vivisezionare (quanto ai tagli: girello, tondino, magatello, piccione, cappello del prete….o quello che trovate)
E allora ecco, basta decidersi a chiamarlo con un nome diverso. Che per essere una versione estiva dell’arrosto è proprio gajardo: comodo (per una cena lo puoi preparare pure il giorno prima), pratico (te lo porti anche in spiaggia), buonissimo, fresco e sfizioso, niente da eccepire.
….Ma non chiamatelo vitello tonnato!

Ingredienti (per circa 8 persone)
Un arrosto da circa 1kg
1 carota
1 costa di sedano
1 cipolla
1 spicchio d’aglio
3-4 foglie d’alloro
2 cucchiaini di farina
1 rametto di salvia
1 bicchiere di vino bianco

Per la salsa:
200 gr di tonno sott’olio
1 cucchiaio di capperi
2 filetti di acciuga
1 limone
sale

Procedimento
In un ampio tegame dai bordi alti scaldare l’olio con dentro sedano carota e cipolla tagliati a pezzi grossi, insieme all’aglio leggermente schiacciato. 
Quando inizierà a sfrigolare unire la carne, leggermente infarinata, e farla rosolare bene su ogni lato. 
Salare con moderazione (considerando la presenza successiva del tonno e dei capperi), sfumare con il vino alzando la fiamma, aggiungere le erbe aromatiche quindi coprire e lasciar cuocere a fuoco moderato per circa 1 ora, o comunque fino a quando inserendo uno stecchino nella carne non ne uscirà un liquido trasparente.

Una volta pronta mettere da parte la carne, 
eliminare dal fondo di cottura le erbe e l’aglio, lasciando però le verdure. N.B.: in questa fase della preparazione della salsa regolarsi con la quantità di sugo rimasto sul fondo. Se è troppo, metterne via una parte che si aggiungerà eventualmente in un secondo momento, per dare la giusta consistenza alla salsa che altrimenti potrebbe risultare troppo liquida. Aggiungere i capperi, il tonno e il succo del limone e frullare il tutto. 


Tagliare la carne, 

disporla su un piatto da portata e condirla con la salsa.
Riporre in frigo fino a una mezz'oretta prima di servire.

Notti di fine estate – Bombe calde con la crema

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Che l’estate non è ancora finita, ma dopo ferragosto un po’ sì.
Che una volta le bombe di Rosati guai a chi ce le toccava: erano un’istituzione e un’abitudine.
Adesso una rarità spinta a forza giù nel dimenticatoio.
E pure uno spauracchio da tenere lontano.
Un affronto pesante a tutte le ore di palestra e a quel mangiar sano tanto decantato.
Che tocca programmarlo, andare a correre sul lungomare il pomeriggio e cenare leggeri, per potersele concedere.
Superare sensi di colpa e scenari catastrofici di notti a rigirarsi nel letto in attesa di digerirle.
Il bar-pasticceria-laboratorio è sempre quello, di quando eravamo bambini e i maschi se ne concedevano addirittura due a sera, mentre noi femmine arrivavamo a una, ma tanto bastava.
Che alla linea a quei tempi chi ci pensava.
Sempre rigorosamente dopo le dieci, che prima non si frigge.
“prego, chi deve ordinare?” e fioccano numeri, di gente in attesa.
Oggi come allora, oggi i bambini di allora, solo un po’ cresciuti.
Meglio se la mangi lì, direttamente sul vassoietto di cartone per non ustionarti le mani, che già a incartarla e portarla fino a casa s’affloscia un po’.
E subito dopo corri a comprarti una bottiglietta d’acqua (che prima era la corsa alla fontanella).
Con la crema ustionante che cola da tutte le parti, ma anche con la nutella se hai coraggio.
E poi oggi con le visciole, con i frutti di bosco, con cose che “ma questa non è più la bomba”.
Con i granelli di zucchero che ti si rapprendono intorno alla bocca e restano lì pure se ci passi sopra il tovagliolo.
Torni bambino quindi.
Scopri pure che la digerisci esattamente come allora, ma soprattutto che basta un morso, uno soltanto, per sentirti in paradiso.
E, mannaggia al buon senso, ti trattieni dal prendertene un’altra.

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Ingredienti
Un kg abbondante di spirito bambino
3 etti scarsi di coraggio
Una manciata piena di capacità di lasciarsi andare
Un pizzico di disponibilità d’animo
Euforia q.b.


Procedimento
Portarsi al laboratorio di pasticceria preferito intorno all’ora designata per l’inizio della frittura. Mettersi in fila e dichiarare apertamente e senza pudore il numero di bombe desiderato.
Aspettare con pazienza il proprio bottino, quindi scegliersi un angolino comodo(possibilmente con vista sullo struscio serale), armarsi di tovagliolino antiustione e affondare lentamente i denti nella delizia soffice, assaporando l’estasi.
Indugiare a lungo sul profumo di burro, zucchero, vaniglia e olio caldo.

Quindi complimentarsi con se stessi e programmare un bis prima della fine dell’estate!

Verso il Sudafrica (Terza e ultima parte): I bagagli – Melanzane gratinate

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E dopo programmi e prenotazioni, libri letti e informazioni acquisite, tabelle di marcia e i soliti incarichi sapientemente dispensati (per annaffiare le piante, dare un’occhiata a casetta ogni tanto e controllarci gentilmente  lo stato dei voli per il ritorno), ecco che arriva il momento tanto atteso della preparazione dei bagagli!!
Quello che fa vibrare di eccitazione, sussultare di friccichio adrenalinico, saltellare dall’ansia e si condensa, lì per lì, in una voglia unica e sovrana: scappare via solo con il bancomat, i biglietti aerei e il passaporto.
Niente altro.
Uniformarsi allo spirito pragmatico ed estremamente spartano dell’amato bene e lasciare tutto a casa, non portarsi dietro manco un cambio.
Che preparare i bagagli mica è affare così semplice.
Genera ansia (oddio e se mi scordo qualcosa?- senza volersi convincere che a parte soldi e documenti niente è fondamentale….ma il lucidalabbra sì!); pone quesiti amletici e di importanza vitale (mi porto solo una felpa pesante…o due?); fa riemergere paure ataviche (basterà una sola scatola di paracetamolo 1000 o meglio che rovesci direttamente nel trolley l’armadietto dei medicinali?); scatena crisi di coppia ( Amò, considerando che hai le birken e che useremo perlopiù scarpe da trekking, cinque paia di infradito non ti sembrano eccessive?!).
E tra scarta questo e scarta quell’altro, in casi simili meglio allora procedere per esclusione prendendo coscienza prima di tutto di
Quello che tocca per forza lasciare a casa
- il rossetto rosso Marilyn
- i sandali con la zeppa
- lo smalto tangerine
- il vestitino prendisole, amico di tutta l’estate
- il coprispalle bianco di filo di scozia, tanto caruccio
- il profumo
- il balsamo ai fiori di ciliegio
- la crema doposole al cocco
- la maschera all’argilla
- la tracollina di perline
- anelli, braccialetti, orecchini, tutti i fili di collane e catene

(Alcune)Cose da portarsi dietro:
- Una felpa pesante (a 1800 metri di altitudine la temperatura potrebbe essere bassina) e qualche top (per i 30 e passa gradi del Kruger durante il giorno)
- Un K-Way (per la pioggia, per il vento ….e per il freddo)
- Marsupio a scomparsa dove nascondere soldi e documenti
- Marsupio normale dove tenere pochi spicci (e le caramelle, gli occhiali da sole, i fazzoletti, il cellulare brutto, le gomme, il gel lavamani, le salviettine rinfrescanti, il taccuino, la penna………….)
- Scarpe da trekking
- Infradito (almeno un paio!) per quando è possibile e soprattutto per la doccia
- Tutto l’armamentario per le zanzare (compresi scafandro e tuta ignifuga)
- La scorta di medicinali (a prova di cani poliziotto della dogana)
- La fida Columbus card della Telecom, compagna di ogni viaggio, per chiamare anche dai telefoni pubblici (casomai se ne trovino) e risparmiare così un sacco di soldi
- I codici della succitata columbus card per chiamare da lì (perché è capitato pure di partire con la carta ma senza codici, diversi per ogni paese, da cercarsi e appuntarsi preventivamente in autonomia…)
- Torcia elettrica per poter andare in bagno di notte (casomai cogliesse l’uzzo e soprattutto l’animo) visto che nella maggioranza dei casi  è ubicato in un non meglio specificato luogo “a cielo aperto”.
- Binocolo
- Un pareo multitasking da usare per le occasioni più disparate: metterselo intorno al collo se fa troppo freddo,  stendere sulle brande nel caso di sistemazioni particolarmente disagiate, coprire bagagli visibili in macchina, legarlo a quattro paletti e usarlo come parasole di giorno.
- Presa multipla per ricaricare dispositivi vari ogni volta che incontreremo dispensatori di energia elettrica (e creare così estemporanei alberi di natale di fili e trasformatori).
- Ovviamente moka, fornelletto elettrico e caffè.
- Zaino di emergenza (come bagaglio a mano) completo di almeno 1 cambio (e lenti a contatto sufficienti) qualora si smarrissero le valigie
- Un libro
- Un taccuino e una penna
- Gli occhiali da sole e da vista
- la chiavetta con una selezione di musiche da ascoltare negli spostamenti in macchina

….Questa la mia valigia (in piccola parte).
Valigia dell’amato bene: mutande/calzini/bermuda/felpa con cappuccio. STOP.
Cose da comprare in loco:
- Sim card locale per evitare salassi nel caso si volesse usare anche il cellulare.
- Nuovo adattatore universale di corrente (che quello che già abbiamo, con solo 12 attacchi diversi, lì non va bene…)
- Scorta di bottiglie di acqua (e biscotti, tonno, legumi…) da caricare in macchina all’arrivo.
- Pass per i parchi

…questa la mia piccola lista.
Lista dell’amato bene: pieno di benzina per la macchina. STOP.

Se all’aeroporto doveste incrociare una coppia composta da un Lui con uno zainetto leggerissimo sulle spalle che si trascina dietro una lei arrancante sotto il peso di un trolley ricolmo, più uno zaino, più una tracolla giusto per le cosette da tenere a portata di mano, non abbiate dubbi: quelli siamo noi!

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Non si può dire che quest’estate non abbia fatto il pieno di verdure di stagione. E che non abbia usato il forno.
Probabilmente quest’ultimo ha lavorato più nell’ultimo mese che in tutto l’inverno…ma queste, gratinate, profumate di basilico, morbide di succo di pomodoro, sono in assoluto le mie melanzane preferite.
Certo da buttare in forno, ma ne vale proprio al pena. Le dosi sono a occhio, secondo gusti e ospiti a tavola.


Ingredienti
Melanzane lunghe viola (preferibilmente piccole)
Pomodori rossi a grappolo
Pangrattato (meglio se ricavato da pane raffermo fatto abbrustolire e poi tritato)
Una generosissima manciata di foglie di basilico
1 spicchio d’aglio
Olio extravergine d’oliva
Acqua
Sale
Peperoncino

Procedimento
Lavare e asciugare le melanzane, eliminare il picciolo e tagliarle a metà nel senso della lunghezza. Praticare sulla loro superficie dei tagli trasversali e salarle leggermente.
Mettere il pangrattato in una ciotola e condirlo con il basilico, i pomodori tritati con tutto il loro succo, sale, peperoncino, un po’ di olio, mescolando molto bene per amalgamare il tutto. Bagnare quindi il composto con un po’ d’acqua per inumidirlo bene senza doverlo appesantire troppo di olio.

Aggiungere lo spicchio d’aglio tagliato a metà e mescolare con le mani lasciandolo un po’ lì a insaporire il tutto prima di eliminarlo (a chi piace può tritarlo e aggiungerlo direttamente al composto)

Disporre su ogni melanzana un bel pugno di condimento premendo un po’ per farlo aderire. Sistemare le melanzane in una teglia antiaderente leggermente oliata, 

quindi infornare a 180° per circa ½ ora- 40 minuti, gli ultimi 5 infunzione grill.





E finalmente...

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…Si parte!!!

- Blog chiuso per safari -

Di ritorno

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Qualche giorno.
 Per ritrovare la parola (sopraffatta dai suoni della savana. O dal suo silenzio più profondo), lo spirito giusto (che vaga ancora per foreste e praterie, o corre giù in picchiata nelle cascate, o si rotola trascinato via dall'impeto dei fiumi), la concentrazione necessaria (persa nei ritmi vibranti dell'Africa)...il coraggio di rivedere le foto (smarrito nel momento stesso in cui si scattavano)!!

A presto su questi schermi............
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