Quantcast
Channel: Pizza Fichi e Zighinì
Viewing all 449 articles
Browse latest View live

Premi, scoperte golose…e viva il blog! – Plumcake al cioccolato con...cuoricino di cocco (di Claudia)

$
0
0

Tra le cose bellissime di avere un blog c’è quella di ricevere, di tanto in tanto dei graditissimi premi.
Che sono catene, giochini, piccoli “impegni” da onorare.
Che richiedono un po’ di tempo sì, e anche (pezzi di) post dedicati, ma che si rivelano sempre, almeno per me, simpatici e divertenti.
Sia quando vengono assegnati pescando a casaccio nella foltissima giungla dei blog, tanto per rispettare la regola del farlo girare, ma al contempo non turbare quelli che dichiaratamente non li gradiscono (e la mossa risulta evidente dal fatto di una visita lampo da parte di sconosciute che si presentano, lasciano il premio e non si rivedono mai più..).
Sia, molto di più, quando arrivano da persone che il blog lo frequentano un po’ più assiduamente e che quindi sono pensati, dedicati, girati con cognizione di causa e volontà vera.
E a quest’ultimo caso appartiene il premio che ha per immagine una grafica arzigogolata e bellissima come questa qui
Ragione per cui ringrazio moltissimo la cara Edvige di aver pensato a me e avermi girato il suddetto premio.
Le regole sono queste:

      1) Copia e inserisci il premio in un post;
  2) Ringrazia la persona che te l’ha assegnato e crea un link al suo blog;
  3) Racconta 7 cose di te;
  4) Nomina 15 blog a cui vuoi assegnare il premio e avvisali postando un commento nella loro bacheca

Le 7 cose di me:

1)   Sono alta 1 metroe 58 (come Marylin Monroe, signori!..questo per i soliti spiritosi) e peso 54 kg
2)  Il mio colore preferito è il rosa
3)  Il pasto che mi piace di più è la colazione, infatti ne faccio 2 a distanza di poco tempo e sempre dolci e assolutamente “italiane” (caffè macchiato e biscotti; altro caffè e cornetto)
4)  Porto un bite notturno perché anche mentre dormo penso, sogno tanto, mi agito e digrigno i denti
5)   Da qualche anno ho scoperto la differenza tra vacanza e viaggio e ho iniziato a imparare tantissime cose e a superare tanti limiti mentali
6)   Adoro il curry e il peperoncino e tutte le spezie
7)   Nutro un’ammirazione sconfinata per le persone, e in particolare le donne, che parlano poco e senza sbandierare principi o appellarsi a diritti, fanno molti fatti.

E ora i 15 blog (ma combino e confesso subito 2 piccole marachelle: la prima è quella di non controllare che lo abbiano già ricevuto o di verificare che siano contrari ai premi, anche perché la bellezza di vivere in un paese libero è quella di poter decidere se aderire o meno!; la seconda è quella di contravvenire alla regola di andarli ad avvisare uno per uno…):

Ma che hai messo su il caffè? http://machehaimessosuilcaffe.blogspot.it/

@@@@@@@@@@
Un’altra cosa bellissima di avere un blog è quella di poter scoprire ricette che conquistano alla prima occhiata.
Beh proprio prima magari no, visto che poi per rifarle passano mesi o anche anni (ma è questione di tempo, non certo di volontà!).
E poi naturalmente capita di trovarsi a voler realizzare quella ricetta lì proprio quando non si hanno in casa tutti gli ingredienti, sono le dieci di sera, tu sei stanca morta e smetti anche di ragionare logicamente.
Così decidi che è uguale se scopri che di cacao ne hai solo 30 grammi e di cocco 55 (e che poco importa se la ricetta è di un plumcake al CACAO e prevede un CUORE di cocco e i due siano quindi praticamente gli ingredienti principali….); se pur essendoti predisposta sul piano di lavoro tutto l’occorrente poi dimentichi di mettere dentro l’impasto i due cucchiai di miele (pur avendo il barattolo proprio lì, davanti agli occhi!).
Dunque alla (poca) luce di tutto ciò (perchè pure le foto, magari non c'è bisogno di specificarlo, sono fatte - male- col telefonino!), per la ricetta originale, completa e con tutti i crismi, vi rimando al blog di Claudia (che ringrazio moltissimo per avermi fatto scoprire un’altra meraviglia di questo genere!) e a quello da cui a sua volta lei ha tratto ispirazione (perché ho fuso un po’, oltre a parte del mio cervello, anche le due ricette..) e precisamente a questo link; per la mia, personalizzata, lievemente alcolica e un tantino “alleggerita” (ma ugualmente tanto buona da averci conquistati pure così, figuramoci nel pieno delle sue potenzialità!), l’invito a procedere nella lettura…
Ingredienti (per uno stampo da plumcake lungo 30 cm)

Per l’impasto
200 gr di farina 00
150 gr di zucchero di canna
300 ml di latte
Un bicchierino generoso di rum
30 gr di cacao amaro
½ bustina di lievito
1 cucchiaino di bicarbonato
Gocce di cioccolato fondente

Per il cuore di cocco
55 gr di farina di cocco
55 gr di zucchero a velo
20 ml di latte
1 albume

Nota:
per forza di cose io ho dovuto ridurre le dosi del cuore di cocco che in questo modo mi è venuto più striminzito, ma è ovvio che raddoppiandole pari pari (tranne per l’albume che resterà sempre uno), verrà fuori un cuore generoso e corpulento che renderà il plumcake ancora più goloso!

Procedimento
Preriscaldare il forno a 170° e foderare di carta forno lo stampo per plumcake. Riunire in una ciotola gli ingredienti secchi9: farina, cacao, lievito, bicarbonato) dopo averli setacciati.
Aggiungere il latte e il rum mescolando bene con un cucchiaio di legno.
Preparare il ripieno al cocco riunendo in un’altra ciotola la farina di cocco, l’albume il latte e lo zucchero a velo e formando un composto abbastanza solido da compattare poi in una forma più o meno a cilindro.
Disporre metà dell’impasto al cioccolato nello stampo, ricoprire di gocce di cioccolato e sistemare al centro il cilindro di cocco, quindi ricoprire con il restante impasto e completare con un’altra manciata di gocce di cioccolato. Cuocere per circa ½ ora- 40 minuti, affidarsi alla prova stecchino.

Del premio, come della bella ricetta: Grazie!

Lo shopping dei miei viaggi

$
0
0

Il fatto di essere di corsa mi impedisce, una volta tanto, di riempire il post (specie se, come questo, dedicato all’appuntamento mensile di Monica…) di foto e racconti.
(Diciamo che cercherò quantomeno di limitarmi fortemente)
Strano a dirsi, considerando (oltre alla mia ormai nota stringatezza) che il tema è lo shopping e che in viaggio le tentazioni sono sempre molteplici e quelle cui si cede, rappresentano la maggioranza….
Dalle cose piccolissime a quelle un po’ più impegnative.
Dalle tazze che riportiamo da ogni posto (e di cui ormai disponiamo una nutrita collezione) alle prelibatezze gastronomiche con cui cerchiamo di prolungare al massimo anche i piaceri del palato sperimentati nei vari luoghi del mondo (e in questi sono variamente compresi gomme da masticare, caramelle, biscotti, cioccolato, snack e altri dolciumi. Le patatine o i sacchetti di salatini no perché in aereo si gonfiano e qualche volta scoppiano pure..)
Dai souvenir più gettonati e possibilmente molto kitsch, all’incetta di abiti, scarpe e gingilli nei magnifici Outlet americani.
Dalle infradito di perline keniote, alle matrioschine di Praga; dalle coloratissime ceramiche tunisine alle statuine in legno della Tanzania; dai parei polinesiani (deludenti per certi versi: molto meglio quelli africani) alle uova di legno di Budapest; dalla Sacher viennese, nella sua preziosa scatolina di legno in cui ora custodisco bustine di tè, alle scorte di miele di timo e origano selvatico di Corfu.
E come non citare il rimpianto per tutto lo shopping mancato, per problemi di spazio in valigia o di decoro personale.. e quindi penso al magnifico negozio su 4 piani di M&M’s in Time  Square (dove mi sarei riempita sacchetti e sacchetti di slurposi confetti colorati, oppure portata via direttamente la statuina formato gigante di uno dei protagonisti, e dove uno strano tizio -sicuramente italiano-, con cui pare io intrattenga rapporti di parentela più che stretti si aggirava abbeverandosi direttamente alla fonte..
) o a tutti i giochi e in particolare i peluche nel più bel negozio di giocattoli mai visto che è Fao Schwarz, sempre a NY.
Ma penso anche alle magnifiche lampade pendenti di Istanbul, a tutta la biancheria in cotone egiziano, ai servizi da tè arabi.
(ne risparmio la visione giusto per imbarazzo della scelta perchè ogni occasione di shopping mancato è stata prontamente e diffusamente compensata da quantità industriali di immagini catturate)


Ma, ecco, dicevamo solo 3 (...6, dai…al massimo 9! del luogo e del prodotto, a riprova del fatto che valga proprio la pena...e poi perchè da subito ho pensato più a quest'ultimo, al bottino riportato, che non al luogo specifico in cui l'ho preso) e allora cito:

1)      I bulbi di tulipani acquistati in quella meravigliosa istituzione che è il mercato di fiori diAmsterdam  
e che per il secondo anno consecutivo stanno miracolosamente fiorendo sul nostro balcone! 
Ma di striscio, perché poi sempre di bulbi si tratta, menziono pure quelli presi al souk egiziano di Istanbul   (più o meno nei pressi del Grand Bazaar), sopravvissuti senza alcuna speranza a una settimana di stazionamento in valigia e che ora, a distanza di un anno, incredibilmente, stanno pure loro facendo capolino da sotto il terreno, ed è un’emozione grandissima!


2)      Un magnifico caciocavallo podolico lucano, preso insieme a quella curiosa massa un po’ informe, scrocchiarella e buonissima che è il pane di Materada un qualsiasi rivenditore del posto,azienda agricola o privato che sia, che lì come caschi caschi bene.


3)      Indubbiamente tutte le spezie scelte e raccolte autonomamente nei pacchettini, in un paradisiaco angolo self service del Carrefour a Dubai 
 (perché pure lì il souk sì, ma personalmente mi ha impressionato di più vedere le spezie vendute sfuse nel supermercato accanto a frutta e verdura, come prodotti di consumo abituali e in notevole quantità. E lì gli ipermercati, che io adoro, se non fossero così esageratamente estesi, sarebbero davvero da visitare cm per cm!
Mi vedrei bene, pronta sull'uscio, a salutare mio marito dicendogli: "amore scendo un attimo al carrefour, che mi sono scordata di prendere il latte....")

…Le foto piccole sono solo "di contorno", le 3 prescelte sono quelle un po' più grandi...
Un altro appuntamento di Viaggi e Baciè andato e complimenti grandissimi, con ringraziamenti incorporati, all'ideatrice del magnifico tema di questo mese!

La forma, la sostanza e gli esperimenti – Abbacchio al forno con patate

$
0
0

Ora ho capito: le decorazioni e i lavori di fino non fanno per me.
Intendiamoci, mi piacerebbe tanto lanciarmi allegramente in fabbricazioni autonome di addobbi per la casa.
Natalizi e pasquali.
Stagionali e ordinari, magari con recupero di vecchi oggetti.
Ambirei moltissimo a esibire creazioni artistiche di un certo rilievo e soprattutto di spiccato genio.
Che fossero pure lievemente originali insomma.
Creative, ecco.
E quest’anno mi ci ero messa pure di punta, tirando fuori da una vecchia borsa gli appunti per una ricetta risalenti a ben…due anni fa!
Solita questione di tempi biblici, ma l’intenzione e la buona volontà, possino cecamme, stavolta c’erano tutte.
Su un giornale avevo letto di uova speziate, “disegnate” a mosaico, dopo averle lasciate in infusione tutta una notte per poi esibire cotanta genialità e, volendo, mangiarsele pure (recitava il trafiletto) come finger food.
Ora: già a me le uova mangiate così, al naturale, proprio non piacciono.
ma poi i finger food in generale, a parte un'altissima ammirazione per come sono ideati e composti, non fanno che acuirmi il desiderio di un bel piatto ricolmo, straripante di pasta.
Potrei tollerare un ovetto sfrittellato, via (leggi: strapazzato, ma quando una cosa non va, pure le parole vengono meno…); una frittata bella soda e compatta che faccia da guscio (e rimanga quindi in sordina) a qualche verdura: carciofi, patate, zucchine.
Ma da una che non mangia la carbonara per non dover sentire l’odore di uovo, non ci si può certo aspettare grandi evoluzioni con ricette che abbiano per protagonista il medesimo.
Mettiamoci poi che la ricetta di cui sopra prevedeva la lessatura delle uova per il tempo tassativo dei canonici 7 minuti 7 dalla ripresa del bollore e il loro stazionamento (per la durata di una intera notte), dopo averne opportunamente crepato (ma non rotto!) il guscio, in una mistura di tè nero, salsa di soia, pepe di sichuan e miscela delle cinque spezie.
Roba che solo a fare l’appello mi venivano i brividi.
A me, che pure amo le spezie.
Amore sto facendo un esperimento con le uova!
Il sudorino freddo e l’aria perplessa stavolta sono supportati anche dalla mia voce poco convinta e dallo sguardo più che compassionevole che in cuor mio non posso fare a meno di tributargli.
Ma l’amato bene a differenza mia ama moltissimo le uova, ergo se c’è qualcuno adatto all’assaggio, questo è proprio lui.
Seguire tutto il procedimento in fin dei conti non è stato nemmeno così terribile.
Certo, a parte operare qualche trascurabile sostituzione per mancanza di materia prima (del tipo che la miscela delle cinque spezie me la sono fatta a occhio da sola, miscelando per l’appunto: cannella, zenzero, anice stellato, chiodi di garofano e  pepe nero; il tè nero in foglie non ce l’avevo e senza andare troppo per il sottile,  l’ho egregiamente sostituito con un paio di bustine di quello del supermercato; il pepe di sichuan manco so che è né avevo intenzione di scoprirlo proprio in quell’occasione, pena il dover rimandare tutto l’esperimento a data da destinarsi) ma a parte tutto ciò, dicevo, la pratica si è svolta nel giro di una mezz’oretta scarsa.
Poi sì, il raffreddamento, la crepatura dei gusci e via in ammollo fino all’indomani
Quando per l’appunto si trattava di tirare fuori dalla mistura nerastra con effluvi orientaleggianti, quelle cose ormai asfittiche e mollicce che avrebbero dovuto, sgusciandole a dovere, mostrare tutto il ghirigoro lasciato impresso dal liquido penetrato attraverso le famose crepe.
Superato il lieve ribrezzo anche solo per doverci mettere una mano lì dentro, ne pesco a caso uno e mi metto a sgusciarlo lentamente e con estrema delicatezza.
 Un filo di disegno a mosaico effettivamente mi sembra pure di intravederlo oltre le lenti da miope pure un po’ zozze, dei miei occhiali “da casa”.
Poi però insieme al guscio viene via pure la pellicina di rivestimento dell’uovo.
E con lei ogni residuo di mosaico o pseudo tale, lasciando solo tratti flebilissimi e appena percettibili a occhio nudo.
Forse con una lente di ingrandimento.
In controluce.
Magari al buio!
E a parte l’aspetto estetico ( di suo già imbarazzante), mi vengono dubbi perfino sulla commestibilità di cotanta genialata.
Stavolta no, nemmeno l’amato bene posso sottoporre a una simile tortura.
La curiosità è tanta ma di certo io quella roba lì non l’assaggio
E lui, porello, lo esporrei a un rischio inutile, giusto per l’ansia di sapere “di che sanno”, perché poi del ghirigoro, manco l’ombra.
Mi ridesto e butto via gusci e uova, mistura e avanzi di spezie.
Poi mi premuro di avvertire telefonicamente l’involontaria cavia umana e agevolargli così il rientro a casa:
niente amore mi dispiace, l’esperimento con le uova non è riuscito, quindi non potrai assaggiarle
Un sospiro sommesso, una voce di costernazione poco convinta e facilmente sgamabile
mannaggia. Ma senti com’era poi st’esperimento?
Glielo spiego punto per punto, enfatizzando gli aggettivi e insistendo sulle fasi più macabre.
Fra cui il rinvenimento dei meschinelli e la loro consistenza molliccia.
Silenzio dall’altro capo del filo.
Poi un sospiro, e quella frase eroica, da santificazione immediata
vabbè, avresti comunque potuto farmi assaggiare. Certo senza raccontarmi tutta la procedura e senza esprimere giudizi! Magari erano almeno buoni, che ne sai?
Che la constatazione fosse dettata da amore incondizionato verso le uova o per devozione totale al ruolo di marito-rassegnato di una pseudo invasata con velleità culinarie, francamente, a questo punto, è davvero solo un dettaglio….
Ma ora che ho il benestare un assaggino la prossima volta non glielo leva nessuno!

@@@@@@@@@@@@
Ecco, volevo per l’appunto pubblicare una ricetta in tema pasquale, che avesse possibilmente anche un certo appeal e una qualche delicata eleganza. Magari un dolce, magari appunto delle uova decorate (e possibilmente pure edibili). Ma credo valga la pena accettare una volta per tutte di essere una che bada soprattutto al sodo, senza fronzoli, senza orpelli, senza arzigogolamenti di natura varia e vasta.
Accantonate le uova dunque, passiamo al sodo. Tipo un bell’abbacchio con le patate, che sento decisamente più nelle mie corde.
Potrebbe sembrare banale e ovvia come ricetta, ma per prepararlo la prima volta ho dovuto telefonare a mamma e farmi guidare:perché sembra facile, ma non lo è.
Sembra ovvio, ma è tutta apparenza.
Linee guide e gesti calmi e sapienti.
Pilottareinnanzitutto, 
poi le patate che devono essere a pezzi grossi, imponenti;
 e infine la cottura: forte ma anche armoniosa, prolungata al punto giusto, sospesa al momento opportuno.
L’esperienza, e una lunga tradizione alle spalle.
Ma come prima volta, almeno sull’abbacchio, m’è andata abbastanza bene…


Ingredienti (per 4 persone)
1 bel cosciotto d’abbacchio
2 spicchi d’aglio
Abbondante rosmarino
1 kg di patate
sale
pepe

Procedimento
Lavare l’abbacchio, pulirlo privandolo del grasso in eccesso e tamponarlo con carta da cucina, quindi intaccarlo con un grosso coltello. Nelle fessure ricavate introdurre un pezzetto d’aglio, un ciuffo di rosmarino, sale e pepe (questi ultimi due anche su tutto il resto del cosciotto).
Sbucciare e lavare le patate, quindi lasciarle a bagno in acqua fredda per almeno 1 ora (questa operazione servirà a renderle più croccanti); asciugarle e tagliarle in 6 pezzettoni (devono essere “tocchi” grandi), quindi metterle in una ciotola e condirle con olio, sale, pepe e rosmarino rigirandole bene (con le mani viene meglio) per farle insaporire. Disporre il cosciotto in una teglia capiente e le patate tutto intorno. Infornare per 1 ora e mezza- 2 a 200° avendo cura di controllare la cottura per far sì che al carne rimanga morbida e succosa e non si secchi troppo.
Una volta pronto, toglierlo dalla teglia e sistemarlo in un piatto da portata che possa andare anche in forno per mantenerlo caldo (lasciarlo nella teglia significherebbe farlo intridere di tutto l’olio residuo). Servire caldissimo (...e riservarsi la teglia per staccare le crosticine di patate senza dirlo a nessuno!).

Nota: dal momento che di solito, almeno qua da noi, l’abbacchio viene venduto in metà complete, a scelta, di testa o di coratella, nel caso in cui sceglieste la seconda, le indicazioni per prepararla le trovate qui.
Ovviamente per la colazione di Pasqua, perché il resto dell’abbacchio è per pranzo…


Post-it – Girasole di cioccolato e pere

$
0
0

Il dubbio che stia esagerando comincia a sfiorarmi quando fatico a distinguere nettamente i contorni del monitor (e il campo visivo si restringe sempre di più).
O a intuire il colore delle pareti della libreria.
O a ricordarmi di che materiale fosse fatto il rivestimento del frigorifero prima di stravolgerne la fisionomia.
Quando cioè tutta casa assume le sembianze di un unico, immenso post- it che mi ricorda di ricordarmi di guardare bene in giro alla ricerca di quello giusto.
In un gioco di rimandi a scatola cinese.
In una sorta di caccia al tesoro autoprodotta e rocambolescamente gestita.
Posso vantarmi di avere una memoria abbastanza elefantiaca quando si tratta di eventi molto lontani nella storia.
Nomi e date di nascita.
Compleanni e ricorrenze.
 Degli amici miei e pure di quelli dell’amato bene, parentame indigesto incluso.
Ma non chiedetemi cosa ho mangiato ieri sera che già non me lo ricordo più.
Oltre a quello ricordo a fatica tutte le incombenze che mi viene in mente di incastrare in un’unica giornata.
Mettiamoci pure che odio il telefono e che qualsiasi cosa mi venga in mente di dire a mamma o a chicchessia, se nel preciso momento in cui affiora tra i pensieri non è supportata parallelamente dalla voglia di alzare il telefono ed esplicitarla, prende a figurare in tutta una lista lunghissima diligentemente divisa in cose da:
-         fare
-         comprare
-         ricordarsi di dire (a mamma, a tizio, a caio…)
Allora siccome non dispongo di un’agenda vera e propria (perché in borsa mi pesa), ma di 3 calendari, svariati block notes (fra i quali uno di microscopiche dimensioni da asporto), e risme intere di fogliettini gialli che dovrebbero appiccicarsi ma che in realtà svolazzano poi da tutte le parti, finisco per annotare diligentemente tutto ciò che deve essere mandato a memoria e a spargere variamente i frutti di questo meticoloso lavoro per casa, sul monitor del pc, sullo sportello del frigorifero, sullo specchio del bagno e nelle varie borse.
Con il rischio ovviamente che poi di promemoria dedicati alla medesima questione possano essercene anche tre o quattro.
Ma è solo onorevolissima questione di zelo, questa.
O che i compleanni più importanti, nonostante siano le uniche date a trovare posto sul calendario, vengano puntualmente dimenticati perché a essere completamente rimosso dalla memoria è…il calendario stesso.
La sua esistenza.
Con tutto il suo contenuto.
Alle varie postazioni fisiche su cui appiccicare promemoria volanti si è aggiunta, negli ultimi tempi, quella tecnologica dimorante fra le potenzialità di quel ritrovato indispensabile che è lo smartphone.
Cui rassegnarsi in verità non è stato semplicissimo
No che sei matto io co sto coso non ci capisco niente, troppo complicato, ci vuole più a digitare caratteri su quella tastierina che a farmi un appunto al volo: non fa per me!
Detto fatto: ho perfino scaricato un paio di app adatte all’uopo.
Organizer.
Agendine virtuali.
Promemoria digitali che vanno ad aggiungersi alla lunga lista di quelli cartacei come se questi ultimi non fossero già in esubero.
(e districarmici non fosse già abbastanza complicato)
Perché io non sono di certo una nativa digitale e le cose continuo d’istinto ad appuntarmele manualmente, salvo poi trascrivermele pure su supporto tecnologico…..
Ma  poi, complice una certa indole vintage, nostalgicamente protesa più alle soluzioni pratiche e decisamente terra terra, ecco che le cose si fondono, prendono pieghe inspiegabili, si sovrappongono, si confondono, vanno a  braccetto, nell’ansia di mandare a memoria, fermare un attimo, buttare giù un proposito e a quel punto niente, proprio niente può frenare l’istinto di prendere carta e penna.
Di qualsiasi carta si tratti….



@@@@@@@@@@@


Niente di nuovo: un abbinamento classico e scontato, ma che regala sempre grandi emozioni.
E fondamentalmente la voglia di celebrare la primavera, uno spicchio di sole che fa capolino dopo giorni di pioggia, e l’augurio che il tempo bello, in ogni luogo, arrivi molto presto.
La ricetta sono sicura di averla presa da qualche parte nel web ma purtroppo non ne conservo traccia (o la stessa si sarà persa fra la giungla di post-it...)ragione per cui chiedo a chi dovesse riconoscerla come propria di farsi avanti che gli verranno restituiti tutti i diritti.
Anche perché io, questa torta, l’adoro!

Ingredienti (per una teglia da 26 cmdi diametro)
250 gdi farina 00
250 g di ricotta di pecora
180 g di zucchero
100 g di latte
50 g di cacao amaro in polvere
3 uova
1 bicchierino di rum
1 bustina di lievito
3 pere medie morbide
1 pizzico di sale
Succo di limone

Procedimento
Tagliate 2 pere a pezzi abbastanza grandi e bagnateli con il succo del limone affinché non anneriscano.
Separate i tuorli dagli albumi e montate questi ultimi a neve fermissima con il sale. Sbattete bene i tuorli con lo zucchero e successivamente unite la ricotta, il latte e il rum. Continuando a mescolare, aggiungete anche la farina setacciata con il lievito, e in ultimo incorporate delicatamente gli albumi mescolando con un cucchiaio di legno, quindi i pezzi di pera scolati del loro liquido di vegetazione.
Disponete il composto in una tortiera (26 cm di diametro) rivestita di carta forno e decorate con la pera rimanente tagliata a fettine, formando un fiore.
Cuocete in forno preriscaldato a 180° per circa 50 minuti.

Article 0

Angeli custodi, leggerezza – Spaghetti di riso saltati con verdure

$
0
0

Succede di punto in bianco.
Che tu stai lì a preparare il menu di Pasqua, decidere portate e stabilire tabelle di marcia per la spesa (e magari farci scappare pure un salto dal parrucchiere per darti finalmente un’aggiustatina al taglio), quando ecco che squilla il telefono e tutto cambia colore, prospettiva, visuale, contorno.
Cambiano le priorità e sicuramente le linee guida delle decisioni da prendere.
Non più quanto devo far cuocere i maltagliati e come li condisco, ma chestrada faccio per arrivare prima possibile al Gemelli (il policlinico, per chi non fosse di Roma).
Anche la mente prende a elaborare dati in maniera diversa, dapprima confusa, agitata, senza troppo senso logico, poi prende per il collo la parte emotiva, come in una scena da film western: “al diavolo, fatti da parte, ora decido io!
Le spara, l’azzoppa e prende in mano la situazione stabilendo decisioni (minimamente più) sensate e risolutive.
Mica possiamo fare piazza Irnerio e poi Boccea-Pineta Sacchetti a quest’ora??
Vai, svolta su via dell’Acquafredda e che il cielo ce la mandi buona.
Perchè abitare in provincia, pure di una grande metropoli, significa (ma solo in questo nostro paese sgangherato) non avere nemmeno un ospedale a portata di mano.
E dover raggiungere la città a passo d’uomo in coda a un’infinità di altre macchine.
Nell’unica via di accesso possibile.
Vecchia almeno quanto la città stessa.
Ti deve dire bene insomma, questione di botta di culo (e mi si perdoni la metafora).
Con mamma sul sedile posteriore che si contorce per i dolori e ogni tanto dà di stomaco ma che prudentemente s’è portata, da sola, una piccola scorta di buste di plastica adatte all’uopo.
E per inciso è sempre lei , tra un conato e l’altro, a suggerire la dritta sulla svolta a destra…
Sempre per quella mente che alla fine le decisioni giuste, pure nel panico, è perfettamente in grado di prenderle.
Se solo le dessimo un po’ più retta (alla mente, non a mamma)….
Ma che poi sì’, che sarà mai? Una banale influenza intestinale, certo un filo più violenta delle altre volte, e se non fosse che quel dolore si irradia verso la parte sinistra del torace e che lei, guarda caso, è pure cardiopatica, portatrice di valvola aortica meccanica, diabetica, osteoporotica, ipertesa…la cosa non desterebbe manco tutto sto scalpore.
Un’aspirina, una bustina di plasil e via, ti metti a letto e ti passa tutto.
Ah no, il cocktail di farmaci è già abbondante di suo e tra bilanciare l’anticoagulante in base al tempo di protrombina (fantasioso e ogni volta molto diverso) e affinare la dose di farmaci per il diabete sulla base di quanto decide di essere ligia quel giorno, infilarci un’altra pasticca non è la cosa più semplice del mondo.
Non per noi comuni mortali almeno, non fosse altro che per mere questioni di orario: ognuno già perfettamente scandito da una compresa ben precisa da mandare giù.
I medici sapranno illuminarci. E almeno far cessare dolori e contorsioni. Speriamo.
Allora ti sintonizzi su un altro modus vivendi, quello di quell’universomondo -tutto a parte- che è il Pronto Soccorso, che però contiene una contraddizione già nel nome, dal momento che sicuramente sarà di soccorso, ma pronto manco un po’.
Non nel senso in cui lo intenderemmo noi, perlomeno.
Che poi mica è detto sia il senso giusto.
Tanto per cominciare bisogna attendere il proprio turno, dietro la linea blu, per l’accettazione e l’assegnazione del codice di emergenza.
Dice: ma io non respiro.
Risponde: Signora un attimo di pazienza: prendiamo la pressione, compiliamo la scheda e poile daremo l’ossigeno.
Ah ‘mbè, vedemo un po’…
Oppure:
La paziente è lei?
No, mia madre
E dov’è?
Accasciata sull’unico sedile libero in preda a spasmi lancinanti. Eccola lì, vede? È quella che si sta vomitando pure l’anima e per la quarta volta, ad essere precisi (la perifrasi e l’iperbole sono le mie principali virtù oratorie, ma non siamo tanto distanti dalla realtà e soprattutto, dannazione, questi qui devono aver sgamato che la tendenza a enfatizzare è prassi comune da queste parti..)
Infatti:
Me la porti qua, che devo prenderle la pressione.
Ma non si regge in piedi.
Mi dispiace, vorrei poterle dare una sedia a rotelle…ma non ne abbiamo più.
Così, portata a braccio, spalmata per ¾  sul bancone, sorretta alla meno peggio, compiliamo sta benedetta scheda e la riportiamo a sedersi.
Anche per potersi contorcere con più agio e continuare a vomitare in pace, che mica è poco.
Ma dopo una (piccola, eh?) perplessità iniziale si entra facilmente nel nuovo modo di concepire il tempo, le azioni (da fare da non fare da sollecitare), l’Attesa, quella con la maiuscola.
E si arriva a concepire perfino una nuova percezione della privacy, del pudore, dello stare tutti insieme, sulla stessa barca, più o meno nelle stesse condizioni.
Si trova perfino lo spazio per qualche battuta, per riderci un po’ su.
Perché andarsene in giro con l’alberello della flebo attaccata al braccio, tra sala d’attesa, bagno e altra sala d’attesa non può lasciare seri e indifferenti.
Una risata, pure a denti stretti, ti scappa per forza.
Magari alla quinta volta che ci inciampi sopra e rischi di andare lunga.
Ma non c’è posto e la flebo devi fartela per forza in piedi, nei corridoi, passeggiando e possibilmente senza intralciare il percorso dei barellieri che arrivano trafelati smontando qualche altro malcapitato dall’ambulanza.
E arrivi a dirti quanto sei fortunato, che c’è chi sta molto peggio e sempre nei corridoi deve stare.
Certo in barella, ma insomma la questione non cambia e anzi, guardandoti un po’ in giro, ampliando lo sguardo, scambiando pareri, fortunato inizi a sentitici per davvero.
Perché in undici ore di pronto soccorso nascono amicizie, si stringono rapporti, si scambiano gentilezze e cioccolatini, monete per la macchinetta del caffé e  piccole confidenze.
Poche parole per la verità, ma tanti sguardi, moltissimi gesti, spontanei e completamente avulsi da ogni pantomima di formalità, perfino lacrime condivise perché il dolore scatena solidarietà inimmaginabili e istantanee, specie se ha per protagonista un bambino.
Vedi passare un fiume di gente, e il copione è sempre lo stesso.
Corsa iniziale, ansia palpabile a ogni passo che divide i nuovi arrivati dalla porta d’entrata al  bancone del triage; perplessità per quel modulo da compilare, arrabbiatura istintiva per una burocrazia incomprensibile (pure qua??) e poi accettazione (da entrambe le parti, in tutti i sensi), rassegnazione, nuove percezioni, ricerca di uno sguardo, intesa con tutti gli altri astanti.
Solidarietà.
Senza più confini di età né di gravità di patologia o grado di ansia.
Per la paura non c’è più posto: non rimane che attendere.
E affidarsi.
A signò venga qua, se metta un po’ seduta.
No grazie per carità so’ 4 (…5…7…9) ore che sto seduta, sto un po’ in piedi, faccio due passi.
Uh, attenzione le è finita la flebo
Ah grazie, mo’ cerco un infermiere che mi dica cosa devo fare…
E via col suo alberello in cerca dell’angelo custode, uno dei tanti svolazzanti rapidi e affannati, su e giù per i corridoi.
Da precettare al volo, eludendo richieste che gli piovono addosso, guadagnando in qualche modo la sua attenzione, che è pure sempre costante.
Perché fra stranezze e carenze evidenti, regole ferree e un po’ disarmanti da accettare e procedure a passo di lumaca (non per la tanta gente che affolla ma per il numero sempre più esiguo di medici a disposizione…), c’è da dire una cosa fondamentale: e cioè che non ho trovato un solo tizio, fra i 3 medici che nel corso delle ore ci hanno chiamato a colloquio, i tanti infermieri cui abbiamo chiesto spiegazioni e domandato lumi, gli addetti all’accettazione che abbiamo sollecitato più volte nel corso della lunga giornata, l’uomo delle pulizie dei bagni e la guardia giurata a presidio della porta rossa delle emergenze, non ho trovato, dicevo, una sola parola fuori posto, sgarbata o infastidita. Solo, incredibilmente, al di là di tutte le carenze di mezzi e le difficoltà di una gestione sempre più complicata, tanta premura, estrema gentilezza, larghi sorrisi, sguardi di conforto, e perfino parole incoraggianti.
E in un posto di quel genere è davvero molto, o forse è tutto.
A mezzanotte, finalmente l’aria fresca del parcheggio semideserto.
Il foglio di dimissioni e una nuova consapevolezza: quella di avere avuto solo una colica biliare, di dover prendere, per un po’, altri farmaci (ma menomale che esistono), di aver toccato con mano un modo di lavorare, a contatto costante con la sofferenza, con la mancanza di mezzi, con gente addolorata e inferocita, preoccupata e a volte (giustamente) senza controllo, che è davvero duro, difficilissimo.
Una vera missione, da autentici angeli custodi.

@@@@@@@@@@@@@


Coliche e corse a parte, i pranzi di Pasqua e Pasquetta, sono stati espletati e pure piuttosto egregiamente, senza risparmio di calorie (a parte mamma che, pure se a fatica, ha cercato di trattenersi…)
Cucina siciliana, un po’ romana, un po’ fusion, un po’ alla come veniva e poi, manco a dirlo, tanta cioccolata (con cui poter ampiamente glassare quintalate di torte da qui ai prossimi mesi).
Un piattino di semplici spaghetti di riso con verdure dunque è il minimo per depurare fegato e spirito e riguadagnare leggerezza su tutti i fronti.
Qualche indicazione e due dritte:
- Ci vuole più a tagliuzzare tutte le verdure che a realizzare il piatto in se stesso.
- Districare quei fili “plasticosi” e vedere il nuovo aspetto che assumono nell’acqua è pure divertente!
- Io li ho presi al Todi’s (come anche la salsa di soia): quelli secchi in busta da mezzo chilo, e li ho trovati molto buoni.
- Se disponete di un wok tanto meglio, altrimenti arrangiatevi, come la sottoscritta, con una qualsiasi padella antiaderente, che il risultato non ne avrà particolarmente a risentire.

Ingredienti (per 2)
150 gr di spaghettini di riso
1 uovo (facoltativo)
2 cucchiai di salsa di soia 2 carote medie o 1 grande
2 zucchine
2 piccoli scalogni o mezza cipolla
1 manciatona di germogli di soia freschi (o i barattolino di quelli in scatola)
2 cucchiai di olio extravergine
Acqua o brodo caldi

Procedimento
Mettere gli spaghetti a bagno in una ciotola di acqua fredda per almeno 10 minuti. 
Nel frattempo cuocere l’uovo strapazzandolo e aggiungendovi la salsa di soia, quindi metterlo da parte.
In una larga padella antiaderente soffriggere in poco olio e a fuoco vivace tutte le verdure tagliate a striscioline sottili (compresi i germogli di soia a meno che non siano quelli in scatola: in questo caso unirli più tardi, insieme agli spaghetti), 
aggiungendo se è il caso un mestolo di acqua calda o di brodo. Unire quindi gli spaghetti sgocciolati
(che a quel punto saranno morbidi e flessibili) e saltare tutto per pochi minuti spruzzando di altra salsa di soia e aggiungendo un altro mestolo di brodo per mantenere il tutto morbido e succoso.
Aggiungere l’uovo (se avrete deciso di mettercelo), mescolare bene e servire subito.


(Da una ricetta di Benedetta Parodi, riadattata e alleggerita di qualche ingrediente).

La regina Taitù…e piatti da re – Caponata siciliana

$
0
0

Capita di rado, ma ogni tanto succede.
Cerco di evitarlo come la peste, ma di quando in quando mi tocca.
Che fare la spesa insieme (almeno quella grossa, mirata, magari per una cena) non equivale anche, per forza, a tornare a casa insieme….
Perché perlopiù ci si apparecchia (letteralmente) su binari completamente opposti.
Tanto da far finire tutto a schifio.
Che io vorrei prendere questo e lui quello.
Io ho già pianificato il menu da almeno quattro settimane e lui mi suggerisce cambiamenti, aggiustatine, variazioni minime che però, per una perfettina-precisina-rompina, come me equivalgono a mettere in crisi tutto lo scibile in materia gastronomica.
Cioè…quel poco che ne so, almeno.
E soprattutto a smontare e rimaneggiare tutti quei gagliardi esperimenti che mi ero già prefigurata in testa, passaggio dopo passaggio.
Partendo però da (poche) certezze inespugnabili, quindi tutto sommato andando sul (l’abbastanza) sicuro.
Imparate in corso d’opera (a suon di esperimenti andati male), rubacchiate a vere esperte (con sedute ipnotiche si studio), assorbite da mamma e papà (infallibili in cucina), scribacchiate al volo da un programma tv (perché l’idea che poi le ricette si trovino comodamente pure in rete, ancora fatico a  incamerarla...).
Lui invece no: quando andiamo a fare la spesa insieme pare si diverta a  minare, scientemente, tutto ciò.
Uscendosene con proposte ai limiti della decenza (sempre gastronomica, s’intende).
Variazioni (importanti) di ingredienti o metodi di cottura che manco Carlo Cracco in giacca e cappello da chef ce potrebbe da na mano a capì se siano fattibili o meno.
Ma lui, l’amato bene, ama osare e qualche volta, bisogna ammettere per onestà, c’azzecca pure.
Al di là di tutto ciò, comunque, andare a fare la spesa con lui riserva anche un enorme vantaggio: quello di non dover portare le sporte della spesa!
Nemmeno mezza.
Manco per sbaglio o solo per pochi metri.
E non è poco.
Diventa anzi anche un filo imbarazzante quando il mio Amatissimo Bene mi solleva dall’incombenza perfino di portare un sacchettino leggerissimo, che so, della farmacia.
Si impunta e pretende di portare tutto lui.
Dalla prima all’ultima busta, magari infilandone una dentro l’altra, adducendo come motivazione che così “bilancia il peso” (perché sì, noi a fare la spesa, come in tanti altri posti, andiamo a piedi!).
La verità è che ho sposato un ineguagliabile gentiluomo e questo l’ho sempre saputo.
Quello che ignoravo e che vivo ancora con una certa sorpresa è la portata del vantaggio di andarmene in giro libera e senza manco il peso della mia borsetta (perché nel fine settimana infilo tutto in tasca e mi concedo il lusso di non portarmi dietro manco la tracollina più striminzita) al fianco del mio gentiluomo carico invece come un mulo, che arranca sotto il peso di tutta la scorta di frutta e verdura per l’intera settimana e di svariate altre impedibili offerte come flaconi di detersivi e pacchi di farine varie.ù
E la gente ci guarda (giustamente) un po' stralunata, prima di posare un'occhiataccia di rimprovero verso la viziatissima sottoscritta.
Al che mi dico: ma quando sono sola come faccio? Semplice: mi carico pure io. E sono quella che fino a poco tempo fa si scaricava intere casse d’acqua dalla macchina, perché non è che per essere alta un cavoletto e mezzo e avere il fisico non proprio taurino (ma nemmeno patito) me ne stia con le mani in mano proprio sempre.
E ho pure un certo orgoglio da difendere, che diamine.
Perché scartoccio fili dell’antenna e aggiusto prese della corrente esattamente come un uomo, che ne sapete?
Ma certo è che, quando capita di poterne approfittare, mi sento proprio una regina.
Anzi, molto di più!
E siccome tra tutte le sovrane e le regnanti di tutti i tempi quella che mi sta più simpatica è questa dal nome da cartone animato (per quanto la sua fama non fosse proprio brillante e priva di appannamenti), mi è capitato di osservare che quella avrà avuto pure schiavetti e servitori, ma a quei tempi era la norma mentre ora, nel 2013, al confronto, scusate………..lei era proprio na poraccia!

@@@@@@@@@@@


La caponata è sicuramente un piatto da re. Che non è ricetta da tutti i giorni, bensì pietanza arzigogolata che si prepara (rigorosamente almeno il giorno prima di consumarla) una, al massimo due volte l’anno e sempre in occasioni particolarissime e molto degne di nota; ma quando succede, signore mie, è una vera corsa agli avanzi. Anche perché è uno di quei piatti che più sta lì più diventa buono, s’insaporisce, dà il meglio del meglio di sé.
Come è ovvio per tutte le ricette della tradizione, ognuno ha la sua di famiglia e in Sicilia varia perfino da città a città. Con le patate, con i peperoni, togli questo e aggiungi quello.
Io sono da sempre abituata a mangiare questa versione che fa Papà: dolce ma non troppo, fatta solo di melanzane, sedano, olive e qualche capperetto. Tanta cipolla e moltissima dedizione nel farla.
Un po’ laboriosa, ma provatela: ne vale davvero la pena!...Altro che regina Taitù!

Ingredienti (per 8-10 persone)
2 kgdi melanzane viola sode e compatte
2-3 coste di sedano piuttosto grandi
150 gr di olive verdi snocciolate e tagliate a metà
50 gr di capperi sotto sale
2 cipolle grandi bianche o dorate
1 barattolo grande (450gr) di pelati
1 cucchiaino colmo di zucchero
½ bicchiere di aceto bianco di vino
Olio per friggere
Olio extravergine d’oliva
Sale grosso e fino
Pepe

Procedimento
- Innanzitutto dissalare i capperi tenendoli a bagno nell’acqua per un’oretta cambiandola di tanto in tanto.
- Poi lavare le melanzane, asciugarle, tagliare a tocchetti non troppo piccoli (con tutta la buccia) e lasciarle per un paio d’ore in uno scolapasta a strati intervallati da sale grosso, con un peso sopra (che può essere una pentola piena d’acqua), in modo che rilascino l’amarognolo e soprattutto in questo modo assorbano meno olio in cottura.
- Tagliare il sedano a pezzetti (usare solo il gambo, non le foglie), metterlo in una pentola con poca acqua e farlo bollire finché quella non sarà diventata verde e lui si sarà ammorbidito (dall’inizio del bollore occorrerà davvero poco tempo). Scolarlo e metterlo da parte.
- Pulire le cipolle, tritarle finemente e metterle ad appassire sul fuoco in una larga padella coperte a filo di acqua. Una volta assorbita quella, aggiungere un paio di cucchiai d’olio evo e farle imbiondire leggermente a fuoco molto dolce, stando attenti che non prenda troppo colore..
Unire quindi i pelati passati al passaverdura o leggermente frullati con il minipimer, aggiustare di sale e pepe, unire anche il sedano, le olive, i capperi scolati e sciacquati e far cuocere circa ¼ d’ora-20 minuti in modo che si restringa un po’ e si insaporisca il tutto.
Aggiungere quindi lo zucchero e l’aceto, alzare la fiamma per farlo evaporare e poi riabbassarla e lasciar andare ancora qualche minuto.
Preparare quindi le melanzane: sciacquarle, asciugarle bene e friggerle in abbondante olio finché non saranno dorate, dopodichè tirarle su e metterle a scolare su carta assorbente.
Unire quindi le melanzane fritte, mescolare bene per amalgamare tutti gli ingredienti e quando sarà fredda trasferire la caponata in una ciotola di vetro, coprire con pellicola e lasciare riposare un’intera notte in frigorifero prima di consumarla.
Dura anche una settimana, basta avere l’accortezza di tirare fuori dal frigo, di volta in volta, solo la quantità da mangiare, almeno un paio d’ore prima (ma anche di più) per poterla consumare a temperatura ambiente: non va mangiata fredda e non va riscaldata per nessun motivo!!!!

Viaggio nel tempo…per il contest di Eyra - Biscottini all'anisetta

$
0
0

Viaggio di 3 anni fa, una bottiglia di liquore tipico come souvenir e tanti ricordi.
Perché oltre al liquore di anisetta, l’altra cosa che mi è piaciuta tanto sono i bon bon, quelle caramelline tonde e cicciotte ripiene di un cuore d’anice dentro una corazza spessa di cioccolato fondente. 
In pratica: un delirio di bontà!
Tanto che ne ho riportate una scorta e poi me le sono fatte riportare ancora da gente che andava lì.
E quella bottiglia di liquore è finita solo un paio di mesi fa, centellinata con cura e molta prudenza.
Ascoli Piceno è un salotto fatto di travertino.
In particolare quella sua piazza del Popolo che non a caso è considerata una delle più belle d’Italia e in cui passeggiare, specie di sera, restituisce il senso di un relax sano e puro.
 Magari dopo aver gironzolato pigramente fra i vicoli, a naso in su, 
cercando di scorgere e di decifrare le tante iscrizioni in latino sui portoni delle case.
Oppure attraversando qualche ponte, 
entrando e uscendo dalle sue porte, ammirando le torri, le fontane, le facciate, i dettagli prestigiosi di qualche edificio.
O scendendo giù, nei sotterranei della cattedrale del suo santo patrono.


Ma anche semplicemente passeggiando fra le vie, gustando le specialità del luogo: le olive fritte innanzitutto, ma anche qualche azzardo creativo come un meraviglioso carpaccio di pere con riduzione di aceto balsamico e mousse di ricotta, che di certo tipico non è ma indimenticabile sì!
Illuminazione strategica e infiniti dettagli tutti suggestivi, anche nascosti, da stanare solo con occhi molti attenti e dritte azzeccate:
Fate assolutamente una sosta al Caffè Meletti e poi chiedete di andare in bagno”.
Si scende nei sotterranei e…sorpresa! 
il lavandino è incassato in una lastra di vetro sotto la quale sono conservati, pure quelli ben illuminati per poterli ammirare, i ciottoli di un antico muro rinvenuto durante alcuni scavi.
E poi: un b&b in una vecchia casa del ‘600 con annesso giardino segreto, una vecchia torre e mobili d’epoca nelle camere. Una colazione da urlo composta di torte fatte in casa dalla zia della ragazza che lo gestiva e poi marmellate, crostate, biscotti - manco a dirlo - all'anice.
Avevo cercato di estorcere un vasetto di marmellata al peperoncino anche dietro lauto compenso ma mi era stato spiegato che la produzione era limitata al consumo famigliare e allora giustamente se la tenevano stretta. Ma ricordo che accompagnata ai formaggi o anche con la frutta era davvero una delizia!
Padrona incontrastata di tutta la magione e oggetto d’arredamento di indiscusso valore, una gattona meravigliosa dal nome impronunciabile e di sicuro poco nobile: Strumpalumpa, ma per gli amici, confidenzialmente solo Strumpy.

Ma le bellezze non finisco lì: si estendono ben oltre le mura della città, per esempio in quel gioiello  preziosissimo che è Castel Trosino, 
antichissimo insediamento longobardo arroccato su uno sperone di tufo in mezzo al verde, a strapiombo sul torrente Castellano.  
Meraviglia unica. Lì c'era (e magari ci sarà ancora..), a parte la chiesa e un mucchietto di case, un ristorante che si chiamava La Taverna del longobardo, dove con due soldi abbiamo mangiato divinamente pasta fatta in casa e spezzatino d'agnello.
I qui presenti biscotti a ricordo di quel viaggetto fantastico in un angolo d’Italia che vale davvero la pena vedere. Ampliando i confini, andando oltre, magari spingendosi perfino sulla costa.
Assaporando ogni vicolo, veduta panoramica, strada, monte o torrente.
E poi riportandosi a casa un pezzetto di vacanza, facendolo rivivere in un sapore che ritrovi e riconosci al primo morso.

@@@@@@@@@@


Questi biscotti, esattamente come il viaggetto, risalgono a qualche tempo fa, pubblicati altrove e mai più rifatti. Perché poi l’anisetta ce la siamo bevuta così, al naturale, o l’ho impiegata in altre preparazioni.
Tuttavia la prima cosa che feci una volta tornata a casa fu provare a metterne qualche goccia in un impasto per dei biscotti da offrire per merenda, con il tè o con il caffé.
Delicati, profumati e molto gustosi.
Non avendo formine per biscotti quella volta lì usai il tappo dei semi di anice (la tazzina da caffè rovesciata era troppo grande!!).
Se non si dispone precipuamente dell'anisetta in questione, ritengo che un qualsiasi altro liquore all'anice possa svolgere egregiamente il suo ruolo di sostituto...

Ingredienti
2 bicchieri di farina 00
½  bicchiere di zucchero
2 cucchiai di olio di semi
3 cucchiaiate abbondanti di anisetta
1 uovo
1 cucchiaino di lievito
1 cucchiaino di semi di anice
Semi di sesamo o di anice e pinoli per decorare

Procedimento
Impastare tutti gli ingredienti aggiungendo, se necessario, un po’ di farina. Ricavarne un panetto da stendere poi con il matterello (infarinando bene e più volte il piano di lavoro, vista l'estrema morbidezza dell'impasto) e dare forma ai biscottini disponendoli progressivamente in una teglia ricoperta di carta forno. Decorarli a piacere con semi di sesamo o con i pinoli e cuocerli in forno caldo a 180° per 6-8 minuti, o comunque non appena cominciano a dorare (10minuti già sono troppi!). Poi naturalmente dipende dalla dimensione dei biscotti e dal forno.



E con questa ricetta (una preparazione diversa rispetto a quella che avevo in mente e foto decisamente rimediate, che il cielo foodblogghesco mi perdoni), finalmente, dopo mesi di attesa, quasi in extremis ma con il pallino di non potermelo perdere per alcun motivo, partecipo al contest del bellissimo blog Ricette in valigia




Di questo e di quello – Carciofi ripieni

$
0
0

È accaduto per una serie di cose.
Non tutte della medesima rilevanza ma poco ci manca.
E anche se tra loro, almeno in apparenza, non hanno un nesso logico, potrebbe sempre darsi che siano incomprensibilmente connesse per astruse ragioni a noi precluse (..che sto a dì?)
È capitato cioè che siano trascorsi così, senza colpo ferire, nella quasi indifferenza, o perlomeno senza il giusto tributo di onori e festeggiamenti, un paio almeno di eventi cruciali della mia vita.
Il secondo compleanno del presente bloghetto, per esempio.
Di cui la sottoscritta si è completamente dimenticata, facendolo passare, pure a illuminazione sopraggiunta, allegramente in cavalleria.
Non che l’evento fosse di chissà quale portata, ma magari un piccolo cenno avrei anche potuto farlo, considerate le soddisfazioni che mi dà.
Poi la Sagradel carciofo romanesco, quella manifestazione tutta nostra paesana che si svolge ogni anno da ormai 63 primavere (e quasi sempre rigorosamente sotto la pioggia) assurta peraltro, di recente, al grado di VI Fiera nazionale della Regione Lazio, mica cavoli.
Che paralizza la cittadina per 3 giorni consecutivi, che attira folle di menestrelli, saltimbanchi, artisti di strada, bancarellari e addetti alla frittura dei carciofi e di cui personalmente non mi perdo nemmeno un singolo giorno, trascinandomi dietro pure il riottoso amato bene.
Dal primo all’ultimo istante, bancarella dopo bancarella, spulciando pezzo per pezzo ogni mercanzia.
Per finire a indugiare in quella “piazzetta dei sapori d’Italia” dedicata agli stand gastronomici dei prodotti tipici di ogni regione. È così che mi trovo a gestire (e qualche volta a lasciarmene semplicemente sopraffare…) una lotta intestina fra i miei stessi desideri irrimediabilmente scissi fra una vaschetta di pittule pugliesi alla pizzaiola e un cartoccio ancora fumante di olive ascolane.
Tra un panino con la soppressa veneta e una formetta di cacioricotta da riportarmi a casa.
Sarà per queste lotte intestine che ogni altro barlume di lucidità deve essere venuto meno offuscando anche un po’ la memoria.
Andrei quindi dritta alla ricetta, prima che il tempo dei carciofi finisca e pure di questo piatto si perda la memoria!

@@@@@@@@@@@@


Sull’operazione di pulitura dei carciofi andrebbe fatto un post a parte. Confesso che personalmente ho ancora moltissimo da imparare. Con la proverbiale pazienza con cui mia madre da decenni cerca di spiegarmelo (aò e daje fai così, così e così…’namo, che ce vo?!), mi trovo ancora lì a spiarne gesti rapidissimi e studiarne movimenti  talmente lesti da risultare quasi invisibili, nel tentativo di capirci qualcosa da sola. La “corona tutta intorno” per esempio non riesco ancora a farla. Tolgo le foglie esterne, taglio la sommità, sfiletto il gambo, ma per “la scaletta progressiva” dal fondo verso la metà del carciofo per pulirlo meglio sprecandone meno possibile, ancora devo studiare qualche annetto e affinare la capacità di rubare con gli occhi.
Siccome io amo moltissimo i carciofi, anche se rimane qualche buccetta più dura mangio tutto; l’amato bene invece, da venerdì sera che li ho fatti, a momenti è ancora lì che ciancicaa vuoto vivisezionando il malcapitato….
Capatura a parte, pure la cottura meriterebbe un discorso articolato. Fuoco basso, i carciofi sistemati stretti stretti tra di loro, due dita d’acqua a lambirli, qualche cucchiaio d’olio, l’immancabile aglio, prezzemolo come se piovesse e poi tegame coperto, finché non risulteranno di quella morbidezza unica che fa davvero la differenza.
Pare ci sia pure chi, tra coperchio e tegame, usa mettere un foglio di carta forno per meglio trattenere il vapore, ma di questi segreti ho una conoscenza molto blanda e piuttosto di striscio.
Quelli che seguono, considerata la presenza simultanea di formaggio, prosciutto e uova (..e niente altro, eh?!!), va da sé che possano tranquillamente costituire un secondo piatto più che un semplice contorno, ma la questione è talmente relativa che manco io so quale etichette affibbiare.

Ingredienti (per 2)
4 carciofi romaneschi
2 uova
1 etto di prosciutto cotto o Praga
1 etto di provola affumicata
4 cucchiai di parmigiano
4 cucchiai d’olio extravergine d’oliva
2 cucchiai di pangrattato
Abbondante prezzemolo
1 pizzico di noce moscata
Sale

Procedimento
Preparare il ripieno tritando al coltello il prosciutto e la provola (si potrebbe anche mettere tutto nel frullatore ma personalmente non amo molto l’effetto omogeneizzato); trasferirli in una ciotola e aggiungervi il parmigiano, le uova, il pangrattato e la noce moscata. Il sale no perché il ripieno è già saporito di suo e inoltre andrà messo sui carciofi stessi.
Mescolare amalgamando bene il tutto.

Dopo aver pulito i carciofi (ognuno col suo personalissimo metodo…) e averli tuffati in una ciotola di acqua acidulata con succo di limone, scolarli, aprirli delicatamente, capovolgerli e batterli leggermente su un tagliere per farli aprire meglio e scolare l’acqua in eccesso.
Salarli leggermente e riempirli con il composto. Sistemarli quindi in un tegame riempiendo gli spazi vuoti con i gambi tagliati a pezzettini. 
Cospargere tutto di prezzemolo; aggiungere due dita d’acqua e 4 cucchiai di olio, coprire e cuocere a fuoco moderato per circa 30-35 minuti bagnandone di tanto in tanto la sommità con il loro stesso sughetto.

Parità - Bucatini all’amatriciana

$
0
0

Le cene con Dario e Gabriele sono, senza ombra di dubbio, un momento altissimo di condivisione.
Spirituale e godereccia.
Di grandi abbuffate.
Di grasse risate.
Ma anche di attento studio socio-antropologico, che di materiale in questi casi ce n’è fin troppo.
Tanto piacevoli da essere diventate un appuntamento fisso, ricorrente, quasi a cadenza mensile ormai.
Menu per 4: tre uomini e la sottoscritta, nessun altro invitato.
a gabriè, ma porta pure tu regazza, no?” (l’inflessione cervetrana è un valore aggiunto!)
no, che sei matta, nun me sentirei me stesso!
Una tale, rilevante affermazione mi pone nella condizione - beata - di semitrasparenza.
A volerla vedere male.
O di assoluta, meravigliosa e tanto agognata, parità.
A voler guardare il lato decisamente positivo e sicuramente unico di tutta la faccenda.
Uomo tra gli uomini, altro che -solo sbandierata- parità di diritti.
Siamo ben oltre, oltre anche l’immaginabile e l’umanamente concepibile.
Tra commensali alla mia tavola: dell’uno sono la legittima consorte; dell’altro l’inevitabile sorella; del terzo, per l’appunto, l’asessuata sorella del capo.
Amica affezionata e un po’ materna.
Sorella acquisita insomma.
Uno (l’amato bene) lavora in un ambiente di pertinenza quasi esclusivamente maschile, dove solo da una manciata di anni anche le donne hanno avuto accesso; gli altri due nel capannone di un'officina piena di lamiere contorte e pezzi di ricambio, dove anche la segretaria è un uomo…il che fa di tutti loro i rappresentati degni dei più triti cliché.
Roba da uomini insomma.
Ma la cosa fantastica è che nessuno dei tre si creai scrupoli di alcun tipo: di linguaggio o di gesti, di argomenti da affrontare o di contegno da tenere.
In quei frangenti, durante queste cene corali tutte e solo fra noi, divento infatti, magicamente, una di loro!
Ed è una sensazione nuova e bellissima: un po’ come quando da bambina cerchi (invano) di intrufolarti nei giochi dei maschi e ti metti a correre (maldestramente) e a sputare a terra per sentirti un po’ più simile a loro.
Con la differenza però che lì ti agiti e ti danni l’anima senza riuscire a essere considerata molto più di ciò che (banalmente) sei: una femmina!
Qui, senza il minimo sforzo, né la più flebile fatica, ti trovi in modo del tutto naturale invischiata in discorsi che ti aprono un mondo e ti fanno capire quanto questo (il mondo, appunto), sia tanto cambiato ma in fondo sia rimasto sempre uguale a se stesso.
E a parlare di donne (con una capacità di astrazione non indifferente) e di relazioni più o meno stabili; di caccia e di armi; di pallone e di moto; di motori e di vernici fatte al tintometro.
E l’occasione mi dà agio di preparare piatti cui spontaneamente non penserei mai.
Che di norma releghiamo alle grandi abbuffate insomma.
Preferibilmente di qualche vita fa, che tra l'altro, certi piatti nemmeno vanno più di moda.
Quella volta lì erano le fettine panate (liberamente interpretate).
Poi è stato il turno del cinghiale (direttamente recapitato a domicilio).
L'ultima volta l'abbacchio (che non se n'era parlato ma sempre loro due c'erano di mezzo).
Il tutto preceduto dalla canonica e onnipresente “secchiata di rustici” (solo con wurstel e con provola e speck), a grande e vibrante richiesta del “piccoletto” del gruppo.
Per finire con caffè, ammazzacaffè, cicchetto, altro cicchetto, altro ancora… fino a  notte inoltrata.
A bere e a chiacchierare.
A chiacchierare e a bere.
Come veri uomini!
È in queste occasioni infatti che ho imparato ad apprezzare l’amaro Segesta e il brandy invecchiato; la grappa barricata e il whisky d’annata.
Oltre ai fiumi di vino che scorrono durante la cena.
Sempre ben abbinati, s’intenda, che per quella faccenda chiedo perfino lumi a grandi esperti.
A meno che non sia Gabriele in persona al portare “il vino de mi zio che quest’anno, regà è proprio un SUGO de frutta!
Solo l’ultima volta un accenno alla diversità di sesso della sottoscritta, un vago riferimento alle novità del mio look (capelli cortissimi da lunghissimi che erano) e quella domanda perentoria, dalla premessa che faceva presagire chissà quale rilevante portata dell’incipiente discorso:
Parlamo de cose serie. Dimme ‘n po’: te perché te saresti CAROSATA così?
Con evidente riferimento al nuovo aspetto forse non del tutto gradito.
E quel verbo così denso di significato, esplicativo, unico.
Da pecora insomma. Con opportuno ricorso a un più pertinente gergo agro-pastorale.
Tanto per non sciupare l'occasione.
Passando per la formulazione di massime filosofiche buttate lì, frutto di svariate delusioni amorose e catastrofismo totale:
tanto ee donne so’ tutte uguali!
“…vabbè, escluse ee  presenti, no, Gabriè?” tenta di salvarlo il mio delicato e attento fratello.
Un attimo di silenzio, per pensare, uno sguardo distratto alla sottoscritta.
Poi quella ratifica assoluta di parità:
no, ma de che?Ee donne so’ proprio TUTTE uguali
E da qui la conferma, che sì, io sono esclusa, perchè signori, sono davvero una di loro, maschio fin nel midollo!!



@@@@@@@@@@@@


La faccenda è molto seria.
Che i piatti apparentemente più semplici siano anche i più difficili da fare bene è cosa ormai risaputa.
Che ci si approcci con una riverenza un filo esagerata, anche.
Perché sicuramente nonna mia per fare un’amatriciana non andava a scartabellare libri, né chiedere lumi né tantomeno diramare sondaggi su quesiti di vitale importanza come cipolla sì cipolla no.
Così per la cacio e pepe.
O per la gricia.
Agiva così: d’istinto, secondo conoscenze insite nel DNA, tramandate nei secoli, avute in dono da antenati, infuse magicamente.
Era roba insomma da sapienza innata.
È vero anche che meno ingredienti compongono un piatto più l’attenzione dovrà essere vigile e la precisione dell’esecuzione infallibile.
Però ecco fa un certo effetto l’idea di approcciare una ricetta super complicata con l’agio e la scioltezza di uno chef pluristellato e approntare una matricina in punta di piedi.
Ma tant’è.
E i puristi non me ne vogliano, ma io cari miei la cipolla ce la metto eccome! E se non vi sta bene, provate a chiedere a quelli del portale della  matriciana perfetta.

Ingredienti (per 4)
500 gr di bucatini
250 gr circa di guanciale
1 cipolla media
1 barattolo grande e 1 piccolo di pelati 
Peperoncino in grani
2 cucchiai (non di più!) di olio extravergine d’oliva
Sale
Pecorino romano

Procedimento
Tagliare il guanciale a striscioline non troppo sottili e metterlo a rosolare piano in un largo tegame antiaderente stando attenti a mantenere la temperatura costante, in modo che non bruci né però si lessi. Deve risultare croccante e trasparente.
In un altro padellino far stufare a fuoco basso la cipolla tritata nei due cucchiai di olio e quando anche quella sarà diventata trasparente senza prendere colore, unirla al guanciale.

Passare leggermente i pelati al minipimer, 
quindi unirli al guanciale, aggiustare (moderatamente) di sale, aggiungere il peperoncino in grani e far cuocere il sugo a fuoco basso per circa un’ora e mezza girando di tanto in tanto.
Lessare i bucatini in abbondante acqua salata, scolarli molto bene e accuratamente (perché avendo i buchi tendono a trattenere l’acqua), condirli con il sugo, e 2 cucchiai di pecorino, quindi impiattarli, aggiungere un altro cucchiaio di sugo su ogni porzione e un’altra spolverata di pecorino.

Riciclo, riuso, smaltimento - La crostata con le bolle (Frolla ripiena di ricotta amaretti e mandorle)

$
0
0


Mentre in quasi tutte le famiglie del mondo, nei giorni che seguono Pasqua si affastellano tocchi e tocchetti di cioccolato da smaltire e dal lunedì dell’Angelo in poi è tutto un profluvio di torte glassate e semifreddi appositamente studiati per reimpiegare tutto il bendidio, da noi le cose avvengono, more solito, in maniera leggermente diversa.
Non era un uovo quello che mi sono trovata davanti la mattina di Pasqua per la consueta (e tanto attesa) colazione annuale a base di salame, uova, pizza al formaggio e dolce di Terni (eludendo stoicamente i richiami dell’altra portata tradizionale che avrebbe previsto coratella d’abbacchio con i carciofi….).
O perlomeno non era un uovo di quelli canonici, dalle carte scintillanti e glitterate, ben confezionati e oltremodo seducenti con foto di colate cioccolatose e montagne di nocciole ricoperte (tanto per fare un esempio del mio preferito).
La forma dell’uovo (di Pachicefalosauro magari …) in effetti ce l’aveva, ma le dimensioni facevano intuire qualcosa di diverso, meno raffinato, più ruspante.
Sicuramente, comunque, altrettanto goloso.
O questa almeno era la mia nascosta speranza.
Carta di giornale, scotch a volontà e la plastica delle confezioni di bottiglie d’acqua a racchiudere il tutto, tanto perché non si dica che in questa casa non ricicliamo e riusiamo in maniera irreprensibile.
La fantasia e l’estro del mio sorprendente consorte non hanno limiti e infatti nemmeno per un minuto ho pensato che avesse potuto davvero regalarmi un uovo di pasqua, per Pasqua.
Al limite mi sarei aspettata un torrone, via.
O un vassoio di frappe, tutt’al più.
Ma proprio  un uovo di cioccolato, da lui, mai!
Troppo scontato.
Mica come la sottoscritta che gli è andata a prendere (comodamente al supermercato, con l’unico sforzo di sceglierlo, prelevarlo dallo scaffale e portarlo a casa…) quello che più classico non si può, giusto badando che dentro ci fosse una sorpresa da maschio e scongiurare così il rischio che potesse trovarci pochette rosa shocking o specchi da borsetta.
Perché faccio le cose per bene io, che vi credete.
Banalotta ma molto precisa.
Fondente al punto giusto, grande almeno mezzo chilo, carta piena di colori e pure un concorso a premi cui, volendo, poter partecipare per provare a vincere un viaggio: cosa volere di più?
Impiego di fantasia: zero.
Scervellamento scopo sorpresa: meno che mai.
Tempo di evasione pratica: dieci minuti in tutto.
Scontata. E anche estremamente sciatta, ignominiosamente prevedibile, me ne rendo conto.
…Ma tanto a stupire ci pensa lui!
Approcciare infatti quell’enorme massa informe di plastica e carta, confezionata (più o meno) a uovo aveva un che di inquietante ma era anche molto carico di promesse!! Divertente perfino.
È così che piano sono venuti fuori, una dopo l’altra, confezioni di muffin e biscotti, merendine e cioccolatini, praline e ventagli di sfoglia.
Una cascata di golosità da picco glicemico solo a guardare e soppesare!
Sulla quale ovviamente mi sono buttata, subito, a capofitto, selezionando però con estrema cura (questi li nascondo, questi altri non mi attirano più di tanto quindi posso lasciarli in giro...)
Io, la regina delle pause-schifezza ipercaloriche e degli snack confezionati possibilmente trasudanti oli vegetali di dubbia provenienza e conservanti estremamente dannosi per la salute.
Da scartocciare e addentare.
Ma prima ancora da scegliere con molta attenzione e a cui accordare una sofferta preferenza.
Rimandando solo a qualche giorno dopo il piacere di assaggiare anche tutto il resto, e quindi pregustandolo.
Sapendo quanto sia golosa, il mio imprevedibile consorte non poteva scegliere di meglio.
Dove nascondesse questo enorme pseudo uovo di Pasqua in 40 metri scarsi di casa rimane un mistero fitto, ma tant’è.
E mi sono pure sentita rimbrottare per il fatto che quella settimana “aò sei tornata sempre presto e io mi sono dovuto ammazzare per confezionare  tutto, sfruttando i momenti in cui eri sul balcone a stendere o sotto la doccia!
Ignara, che alle mie spalle si stesse tramando cotanta sorpresa.
E quindi ecco, noi più che cioccolato ora abbiamo da smaltire dolcetti vari e multisfaccettati.
Tutti assolutamente poco sani (infatti cerco di preservarne l’amato bene scoraggiandolo dall’addentarne anche solo una piccola parte e sacrificandomi eroicamente al suo posto).
Ma anche cioccolato, sì, perché lui è a dieta e quello che gli ho regalato provate un po’ a indovinare, ancora una volta, chi si immola a farlo fuori prima che arrivi l’estate e sulla superficie inizi a fare sfoggio di quella odiosa patina bianca?
Meglio consumarlo fresco, no?!


@@@@@@@@@@@@


Un dolcetto, fra tutti questi, ci voleva, a interrompere la sequela di piatti ipercalorici e sfrontatamente tradizionali proposti fin qui.
La torta in questione non è proprio produzione recentissima, bensì una di quelle ricette stazionanti lì da un po’.
Credo di averla fatta a gennaio e precisamente per il compleanno di mio suocero, ma l’orticariaera solo funzionale  a ottenere un aspetto estetico un po’ diverso dal solito (…e chi ci ha letto un retrosignificato freudiano, deve essere proprio un malpensante!….).
Cambiare look alla solita crostata di ricotta insomma che, detto fra noi, è senza ombra di dubbio la mia preferita fra tutte le crostate. Con l’aggiunta delle mandorle e degli amaretti diventa sublime e la spolverata di cannella a rendere il composto non più bianco ma lievemente rosato…fa tutto il restodella magia.
Se non vi va di formare le bolle, naturalmente potete passare a stendere anche il resto della pasta e a copparla con le formine che più vi piacciono o di cui disponete.…

Ingredienti (per uno stampo da crostata di 24 cmdi diametro)

Per base e copertura:
300 gr di farina 00
150 gr di burro a temperatura ambiente
85 gr di zucchero
1 uovo intero
2 tuorli
1 cucchiaino di lievito
1 cucchiaino di cannella
1 pizzico di sale

Per il ripieno
500 gr di ricotta di mucca
100 gr di mandorle
30 gr di amaretti (circa 10 di quelli piccoli)
100 gr di zucchero extrafino
1 bicchierino di rum
1 uovo
Gocce di cioccolato

Procedimento
Preparare innanzitutto la base disponendo la farina a fontana e lavorandola, in punta di dita, con il burro morbido (tirato fuori dal frigo una decina di minuti prima di utilizzarlo, non troppo sennò “si scalda”) a pezzetti, quindi “sbriciolarla” tra le mani, riformare la fontana e romperci dentro l’uovo e i tuorli. Unire anche  lo zucchero, la cannella e il lievito e lavorare tutto molto velocemente formando un panetto da avvolgere nella pellicola e riporre in frigo per almeno mezz’ora.
Nel frattempo preparare il ripieno lavorando con una forchetta la ricotta e lo zucchero. Unire le mandorle e gli amaretti tritati, il rum e l’uovo amalgamando tutto con cura.
Stendere ¾ della frolla e sistemarla nello stampo. Riempirla con il composto di ricotta, quindi prelevare piccole porzioni di frolla, appallottolarle velocemente e disporle sul ripieno fino a ricoprirne l’intera superficie (alcune, data la morbidezza dell’impasto, tenderanno ad “affondare”9, ma il bello sarà proprio questo…
Cuocere in forno già caldo a 180° per circa 30-40 minuti o comunque finchè la superficie non risulterà bel dorata.
Lasciare raffreddare e cospargere, a piacere, di zucchero a velo.

L’architettura dei miei viaggi

$
0
0

E niente, questa volta non posso trasgredire. 
Monicaè stata categorica: 3 e solo 3 foto, mica come tutte le altre volte che vuoi o non vuoi (…ma volevo, volevo!) mi sono allargata, pur specificando quali fossero le 3 miserelle prescelte.
Questa volta, per non sbagliare mi mutilo i pensieri, condenso le emozioni, sbatto la testa contro il muro, mi taglio una mano, ma possimo cecamme se non ne scelgo 3 e unicamente 3.
E pace per tutte quelle idee raminghe e strampalate che mi balenano puntualmente mentre riguardo e seleziono.
Silenzio sui contesti.
Omertà sui dintorni.
Al bando premesse e postfazioni.
S’è detto 3.
E tre siano:

1)      L’Atomium a Bruxelles: il gigantesco cristallo di ferro in cui poter passeggiare dall' una all’altra delle sue 9 sfere. Spettacolare.




2)     Il duomo di Enna: esterno austero e lineare che fa da scrigno a un interno ricchissimo. Emozionante.



3)     Le sale della biblioteca del Monastero di Strahov a Praga. Dove anche un ciuccio troverebbe l’ispirazione per studiare. Commovente.



....per Viaggi e baci con affetto (e molta disciplina!)

@@@@@@@@@@@@@@

...Beh, però, giusto per puntualizzare, la mia sala preferita era questa: (ma "fuori concorso", eh?!!!)


Attenti a quei due! - Le arancine siciliane (senza uovo) di Maurizio

$
0
0

Deve essere un vizio di famiglia.
Una tara ereditaria, un gene che si tramanda.
Passando pure per vie traverse e strani percorsi incrociati.
Sì perché pur essendo l’amato bene quello avvezzo a sorprendere e stupire (e io la banalotta della situazione), c’è un’altra persona nella mia vita capace di uscirsene così, con slanci improvvisi, gesti sorprendenti, trovate mirabolanti: mia madre!
Che non ha ovviamente nulla a che fare con il mio dolce consorte, almeno biologicamente parlando, ma deve essere avvenuto qualche strano intreccio fantascientifico fra loro per renderli, almeno su questo piano (e solo su questo!), così meravigliosamente simili.
Capita di svegliarsi un sabato mattina come al solito a giorno fatto da un pezzo (quando cioè sarebbe quasi ora di pranzo) e di mettersi al computer mentre lui si porta, mollicciamente,  in balcone a fumare.
Succede così di sentirlo bofonchiare qualcosa, farsi domande, interrogarsi sommessamente, fino a essere costretta a sollevare la testa dalle mie occupazioni per andare a vedere che succede.
“Cos’è quella busta sul cancelletto?”
Mugugno di stupore.
“Non ne ho idea, io non ce l’ho messa”
E non è tanto strano di questi tempi, che le prime  supposizioni a balenare in testa siano relative a ordigni esplosivi, scherzi di cattivo gusto (un topo morto?!...come se vivo poi potesse essere poi tanto diverso…), scambi di persona (magari non è noi che vogliono uccidere ma quelli del piano di sopra!).
E un caffè ristretto non basta certo a garantire lucidità, soprattutto se ci si è appena alzati dal letto.
Lui continua a fumare, io comincio a essere rosicchiata viva dalla curiosità (quindi tanto vale aprire il misterioso pacco).
Allora, sprezzante del pericolo, incurante del rischio, impastata di sonno, prendo a slacciare piano e con cautela quel triplo nodo scorsoio fatto per assicurare il misterioso sacchetto alla grata.
Accurati questi kamikaze. Molto precisi nei dettagli e attenti a farci pure un vezzosissimo fiocchetto finale.
Tasto prima di aprire e il contenuto è morbido. La curiosità cresce, l’aria si fa sempre più tesa, il pericolo diventa percettibile, l’ansia palpabile. Goccioline di sudore imperlano la fronte (mia, perché lui è ancora lì che aspira lunghe boccate di fumo e ne segue le spire attento e rapito….ma secondo me è bieca tattica messa in atto per non essere coinvolto in prima persona nella brutta faccenda).
Dopo aver tastato e soppesato una ventina di volte continuando a fare supposizioni, e delle più fantasiose, spalanco la busta con gesto lestissimo, che se deve scoppiare scoppi pure basta che ci sbrighiamo!
Ma non è una bomba quella che trovo, non è un topo morto e non è uno scherzo.

Sono pizzette rosse!!!!
Morbide, fragranti, appena sfornate, appena imbustate, lasciate in dono così, sul cancelletto, per non disturbare, per non suonare che tanto le vede le persiane chiuse passando sotto casa e lo sa che noi prima di una certa, di sabato e di domenica, non sentiremmo manco le cannonate.
Cuore di mamma!!!
E io, Hitler della situazione, devo aver fatto proprio un bel lavoro di lavaggio del cervello a dire che il fatto di abitare vicino non significa poter avere accesso quando e come si vuole, soprattutto senza preannunciarsi. Fosse pure per una mobilissima causa come questa.
Ma lei, la mia saggia e furbissima mamma, ha trovato ugualmente il modo per aggirare l’ostacolo, fare di testa sua, sorprenderci così.
Grande!!

@@@@@@@@@@@@@


Le arancine sono di quelle cose che quando le mangi ti si schiudono mondi sconosciuti e sensazioni paradisiache. Affrontarne una non è questione di poco conto: sono enormi, straripanti, sazianti all’inverosimile, ma regalano di quelle soddisfazioni da poter fare tranquillamente il bis, magari dopo una piccola pausa (o un giro di corsa intorno al palazzo).
Queste sono di Maurizio. Dice: “e chi è?”. Mio padre, ovviamente. Altrettanto bravo a sfornare sorprese come quella di queste arancine stratosfericamente buone e sorprendentemente…senza uovo! Dice “e come le ha amalgamate e tenute insieme allora?”
Leggete e lo scoprirete! La ricetta arriva direttamente da lui, via mail. Il barbatrucco è per quelli che momentaneamente, o per sempre, devono tenersi alla larga dall’uovo ma vorrebbero ugualmente gustarsi una prelibatezza del genere. Per tutti gli altri vale la regola solita del passaggio nella farina, poi nelle chiare sbattute, poi nel pangrattato e via direttamente in padella, per una rigorosa frittura all’onda.


Nota: a casa nostra si usa il riso parboiled sempre e comunque, perfino nei risotti e in tutte le altre preparazioni in cui pure non si dovrebbe. Ma è un vizio irrinunciabile e una scelta imprescindibile (non chiedetemi perché). Del resto ogni famiglia ha le sue tare….chiarito questo, ognuno ovviamente può usare il tipo che più gli si confà (per esempio, nel caso specifico, un Originario sarebbe perfetto e anzi, come dice un caro amico, “non sostituibile da altro tipo!”)

Ingredienti (per 8 persone):

1 kgdi riso
3 bustine di zafferano
½ kg. di muscolo per il brodo
Sedano, carota, cipolla , sale, pepe
250 gr.di piselli finissimi
300 gr. macinato sceltissimo
1 salsiccia di prosciutto di maiale
1 barattolo grande di pelati
150 gr. di burro o margarina vegetale
150 gr. di parmigiano reggiano
100 gr. di formaggio soresina o auricchio piccante (a dadini)
½ bicchiere di vino bianco
Olio evo q.b.
1 bottiglia e mezza di olio di semi per friggere
Pane grattugiato q.b.

Procedimento

a)      preparate un brodo con la carne sopracitata in tre litri d’acqua cui aggiungerete gli odori;
b)      preparate contemporaneamente un ragù di carne con il macinato sceltissimo, gli odori triturati, olio, sale, pepe, sfumandolo dapprima con il vino bianco per poi aggiungere i piselli
ed infine la passata di pomidoro.
c)      In un tegame capiente inserite un pochino d’olio con una cipolla triturata che farete appena
dorare per poi aggiungere, immediatamente dopo, il riso crudo cui,  dopo una leggerissima tostatura (attenzione a non farlo bruciare) aggiungerete a mano a mano il brodo di carne fino a cottura quasi completa
d)      Una volta cotto conserverete il riso in una capiente zuppiera  coperta da un panno per
evitare che si formi una pellicola sopra lo stesso (e bene dire che il riso può essere cotto con largo anticipo, anche 5 o 6 ore prima perché deve essere ben freddo)
e)      Lo stesso dicasi per il ragù che utilizzerete soltanto dopo che si sia ben freddato.

Dal momento che per queste arancine non si utilizzano uova per far amalgamere bene il riso, utilizzerete 1 bicchiere d’acqua fredda, un pochino di sale e un po’ di farina che farete sciogliere ben bene fino ad ottenere un composto non troppo acquoso cui immergerete le arancine composte come segue:
nel palmo della mano metterete un po’ di riso creando al centro dello stesso una fossetta cui porrete un po’ di ragù e 2/3 pezzetti di formaggio a dadini, infine chiuderete il tutto con altro riso fino a formare una palla (tipo quella da tennis) che andrete ad immergere nel composto con la farina per poi passarlo nel pane grattugiato.

Una volta svolte queste operazioni andrete a friggere il tutto per 4/5 minuti in abbondante olio di semi avendo cura di non girare mai le arancine. Le farete infine scolare sulla carta assorbente e, una volta tiepide le potrete gustare. Buon appetito!!!

L’ho combinata, stavo per combinarla, la combinerò - Fantasia di Baci di dama all’olio (e grazie Claudia!)

$
0
0

@Ho distrutto una cornice, regalo di matrimonio.
Una delle 12 ricevute, va bene.
Ma l’unica in ceramica.
 E pure le altre sono cadute, ognuna, almeno un paio di volte.
 Solo che non è stato mai necessario confessarlo.
@ Mi sono storta una caviglia, come non lo so nemmeno io, procurandomi però un rigonfiamento a pagnottella durato circa una settimana senza aver potuto camminare né muovermi più di tanto: settimana del ponte del 25 aprile, naturalmente, che sennò che gusto c’era?
Costretta seduta con la gamba alzata, con effluvi costanti di eucaliptolo e oli essenziali di rosmarino e lavanda per farle recuperare dimensioni lievemente più aggraziate.
E non è che al momento dell’accaduto deambulassi spavaldamente su un tacco 12 o corressi spensieratamente su e giù per campi e collinette.
Semplicemente, devo aver fatto qualche movimento sbagliato, senza nemmeno rendermene conto e ritrovandomi fisiologicamente così: dolorante e azzoppata mio malgrado.
Ma questo, se non altro, mi è valso la prima passeggiata al mare, col piede rigorosamente in ammollo, della stagione.
@Dopo ore di disquisizioni su yogurt o riso, pranzo leggero o poco più sostanzioso, ed essermi pure battuta affinché la dieta non diventasse estrema e l’amato bene si decidesse a portarsi via una vaschetta, almeno, di legumi e cereali, ho finito per lasciare tutto così come stava: chiacchiere, battaglie vinte e vaschette vuote, scordandomi completamente di preparargli il pranzo da portarsi n ufficio.
Il che non sarebbe di per sé, molto grave: averlo saputo,  ci avrebbe pensato da solo, che mica è impedito.
È che me ne ero fatta promotrice e carico con sollecitudine pure un filo esagerata.
Tanto da dimenticarmene completamente e lasciarlo andare via così, salutandolo pure amorevolmente dalla finestra….
E scoprirlo da sola, senza che lui, da vero signore quale è, me lo spiattellasse sardonicamente in faccia, è stato, se possibile, ancora più colpevolizzante!
@Secondo, meraviglioso trattamento osteopatico da affrontare. Lo specialista: “Portami tutto mi raccomando: esami fatti, responsi medici, il bite!”. Prima volta: porto tutto, perfino il foglio col gruppo sanguigno a momenti. Tutto. Tranne gli esami fondamentali per i quali sto andando da lui, lasciati inspiegabilmente  a casa. Sulla scrivania, pronti e riesumati dal cassetto anche da un po’ eh, che le cose mica si improvvisano e siccome l’appuntamento me l’aveva dato una settimana prima, io mi ero preparata per tempo! Riprovo la seconda volta: prendo subito i due dimenticati la volta precedente, preparo il bite:la sua scatoletta fluo che pare quella dell’apparecchio che ci si portava dietro alle medie. Lo metto proprio vicino al lucidalabbra, alla lente di scorta, alla matita per gli occhi, che quelli so che non me li sordo, specialmente se devo stare fuori tutta una giornata.
Infatti prendo lucidalabbra, lente di scorta, matita per gli occhi… e lascio lì la scatoletta fluo, che mica perché è un colore poco più accesso degli altri doveva per forza balzarmi agli occhi!
Mi ripeto che andrà meglio la prossima volta, mentre cerco una scusa da rifilargli per far sì che non mi prenda del tutto per squilibrata.
@ Ho cancellato di botto, in un colpo solo, 150 pagine di ricette da fare, salvate da almeno un paio d’anni a questa parte.
Sopravvissute a formattazioni di pc e smantellamente vari di cartelle e file obsoleti.
Passate indenni perfino attraverso traslochi ripetuti da chiavette a cellulari, da dischi esterni a nuvolette virtuali.
Per poi finire tristemente così: cancellate in un attimo da un gesto inconsulto della sottoscritta, per voler fare altro e non essere riuscita nemmeno a capire esattamente cosa.
Per essere costantemente, inconfondibilmente, quella pasticciona che ero, sono e sempre sarò.

N.B.: sto attuando piccole/ grandi variazioni al blog, seguendo i post dedicati di un grande esperto e omettendo quella piccola clausola da lui peraltro reiterata, di crearsi un blog di prova per non rischiare di rovinare, o peggio di cancellare definitivamente, tutto.
Ebbene io oltre che pasticciona sono pure pigra, insensata ed estremamente illogica e temeraria, perciò opero direttamente  sul campo senza brutta copia e disattendendo uno per uno tutti i possibili consigli e suggerimenti di salvaguardia personale….
Se non mi vedrete più su questi schermi, saprete perché ;-)

@@@@@@@@@@@@


Di varianti in verità avrebbero dovuto essercene almeno tre, ma in corso d’opera, e quando già avevo pesato tutti gli altri ingredienti, mi sono accorta che la farina destinata appunto al terzo tipo di baci, albergava in sé tutta una serie di larve e farfalline varie, pur essendo lontana dalla data di scadenza.
Pure il ripieno avrebbe dovuto differenziarsi, ma l’idea poi di scendere a comprare della ricotta (come avevo progettato) o del cioccolato bianco, si è scontrata con la solita pigrizia mentale e fisica e col mio piede ancora dolorante.
E quindi pace, rimarrà in sospeso questa ennesima declinazione dei baci all’olio  che tanto avevo cercato e finalmente ho trovato nel blog di Claudia!
Ovviamente ho provveduto subito a metterci del mio, primo col liquore, secondo con il cocco (ma giusto perché di mandorle ne avevo solo una bustina e mezza e bastavano per un unico tipo), terzo con il caffè, che forse, in maggiore quantità, potrebbe aiutare perfino a  ridurre la quantità di olio.
Indecisa poi se mettere tutto olio d’oliva per paura che si sentisse troppo, ho fatto un po’ e un po’.
Ed ecco qui i primi esperimenti, cui sono sicura ne seguiranno tanti altri ;-)
- Secondo me nei giorni successivi sono più buoni.
- Consiglio di assaporarli a stomaco "quasi vuoto", per merenda o spuntino: come dopopasto non si apprezzano pienamente.


Ingredienti (per circa una quindicina di baci da ogni impasto)

Per i baci Al cocco e rum 
200 gr. Di farina 00
200 gr di farina di cocco
100 gr di zucchero semolato
100 gr di olio di semi
50 gr di olio d’oliva leggero
2 cucchiai di miscela di rum per dolci
1 bustina di vanillina

Per i baci Alle mandorle, cacao e caffè 
230 gr di farina 00
20 gr di cacao amaro in polvere
100 gr di olio di semi
50 gr di olio d’oliva leggero
150 gr di mandorle bianche tritate con l’aiuto di 2 cucchiaini di zucchero a velo (n.b.: per ottenere un risultato soddisfacente sarà necessario ripetere l’operazione almeno un paio di volte azionando il frullatore a scatti per non surriscaldare troppo il composto e far sì che rimanga appiccicato alle lame…)
90 gr di zucchero semolato
1 tazzina di caffè ristretto non zuccherato


Procedimento
Accendete innanzitutto il forno a 170° (per il mio 180° sono troppi!).
In una ciotola mescolate gli ingredienti secchi: la farina di mandorle (o mandorle tritate, o il cocco per la prima versione), la farina 00, lo zucchero e la vanillina, versate l'olio a filo, mescolate bene con una forchetta per impastare il tutto e aggiungete i due cucchiai di rum o la tazzina di caffè. Amalgamate bene il tutto e impastate con le mani. Prelevate piccole quantità d'impasto formando delle palline grandi all'incirca come una noce. Disponetele sulla placca da forno rivestita di carta forno un po’ distanziate l'una dall'altra. Infornate per circa 15 minuti stando comunque molto attenti alla cottura e basandosi sulle caratteristiche del proprio forno (quelli bianchi dovranno risultare leggermente dorati in superficie, per quelli scuri sarà un po' più difficile andare a occhio, comunque attestarsi sui dieci, 12 minuti). 
Sfornate e senza toccare i biscotti, lasciateli raffreddare completamente, in quanto in questa fase sono estremamente morbidi e friabili e potrebbero rompersi.
Nel frattempo sciogliete il cioccolato a bagnomaria e lasciatelo intiepidire, in maniera che non sia troppo molle e rischi di colare dai biscotti. 
Prendete i biscotti, bagnate nel cioccolato fuso tiepido la base piatta di ognuno e accoppiateli.

Appoggiateli delicatamente su un vassoio e lasciate che il cioccolato indurisca completamente.



I conti col passato....


Nuda e cruda, la mia Berlino

$
0
0


Che fosse un filo cambiata, in tutti questi anni, potevo anche immaginarmelo.
Che potesse suscitare le medesime sensazioni di allora, pur con il restyling già effettuato, e tutto quello ancora in corso, è stata una sorpresa inaspettata.
Tornare a Berlino dopo 35 anni, da adulta, è stato come riprendere a punzecchiarsi e a discutere animatamente con una persona con cui non sei mai andata d’accordo.
E che però non puoi fare a meno, in qualche strano modo e per qualche astrusa ragione, di amare e custodire nel cuore.
Perché Berlino per me è come una persona: una mamma severa e molto rigida, protettiva anche se davvero poco incline a effusioni e smancerie.
Che mi ha formata, temprata, abituata a essere quello che sono ora.
Nel bene e nel male. E con una mamma ci discuti, ci litighi, ti ci scontri.
La metti in discussione, le rinfacci errori e mancanze, che poi è come trovarsi di fronte a uno specchio e mettere in discussione se stessi.
Paralleli e metafore a parte, dopo 35 anni e un viaggio (molto) a lungo rimandato ho capito questo: che Berlino, io, non la amerò mai.
O forse non riuscirò mai a odiarla fino in fondo, che poi è la stessa cosa.
 E il bello è che di ragioni, per avallare l’ambivalenza di questi sentimenti contrapposti, fra vecchie e nuove, me ne fornisce sempre diverse e molto sfaccettate.
Sono arrivata a questa conclusione dopo averla riattraversata in lungo e in largo, sforzandomi di guardarla col distacco di un turista che la vede e la ammira per la prima volta, suggestionato dal suo passato e magari cercando di immaginare come poteva essere ai tempi in cui era divisa in due città e due realtà totalmente distinte e separate (perché tali, di fatto, erano).
E poi abbandonandomi ai ricordi, andando a  ricercare la mia vecchia casa, la casa della mia amica e compagna di scuola, l’asilo a Est, la scuola elementare a Ovest, il parco giochi, tutti i luoghi della mia infanzia, in un percorso, fra la nostalgia e le emozioni belle e brutte, che non finiva più.
E che forse è destinato a non concludersi mai, come un libro sempre aperto sulla stessa pagina.
Ma soprattutto cercando sempre, con gli occhi e col cuore, smaniosamente lui, 
quel muro all’ombra del quale si viveva e intorno al quale tutto ruotava: la Guerra Fredda, per i capoccioni della storia; la vita quotidiana, le abitudini, le storie personali, i percorsi stradali e le vicende umane, per tutti gli altri comuni mortali.
Di noi ospiti stranieri, che pure potevamo attraversarlo, così come di loro, i tedeschi dell’Est, cui invece questa libertà era preclusa.
E non solo come semplice prescrizione, ma proprio a colpi di mitra.
Difficile però astrarsi dalle scene dei film e pensare al peso di certe parole
mitra
posto di blocco
frontiera
filo spinato
 mine pronte a esplodere
 e immaginare tutto come una realtà vera, tangibile, senza cinepresa né copioni.
Un muro lungo e spesso, grigio e infinito, alto e invalicabile.
Che parla da solo.
E che ora, nel 2013, ti trovi davanti a ogni angolo di strada, smembrato in infiniti piccoli pezzi diventati un souvenir per turisti; oppure lo ammiri su quell’ormai famosissimo tratto dipinto da artisti di tutto il mondo con murales che inneggiano alla libertà, che scimmiottano un po’ le figure chiave di quello scenario, o che tentano di rappresentare il buio e la follia imperante di quei tempi.
Ma di fatto, ritrovandone il volto vero, nudo e crudo, violento e arrogante, reale e senza mistificazioni né rocambolesche esorcizzazioni di sorta, solo in quell’unico tratto in cui è stato lasciato tale e quale, lungo quella Bernauer Strasse dove giusto un pastore si è battuto perché il pezzo di barriera lungo la sua chiesa (che non esiste più) fosse classificato come monumento storico ma soprattutto lasciato così com’era.
Compreso quel grande spazio vuoto tutto intorno, e solo una croce di legno ora a punteggiarlo, che all’epoca era l’immensa no man’s land fra i due avamposti.
E dove, dal giorno alla notte, sono stati abbattuti palazzi (che inopportunamente si trovavano sulla linea dove era stato stabilito che venisse costruito il muro…), murate porte d’ingresso che a quel punto davano sulla parte Ovest, divise intere famiglie (e mai più ricongiunte), espropriate case, esautorati perfino interi tratti di cimitero costruendo il muro direttamente sopra le tombe.
Ma non è abbattendolo o smembrandolo fino all’ultima briciola di calcinaccio o tondino di ferro che lo si può dimenticare o far finta che non sia mai esistito.
Esorcizzare o farci pace.
Né dipingendolo o trasformandolo in mostra permanente gratuita come accade sulla Niederkirchner Strasse e la sua “Topografia del terrore”.
Scenografica perfino nel nome.
Con foto raccapriccianti di momenti che, se non altro, dovrebbero restare solo privati, magari per restituire un barlume di dignità ai soggetti ritratti nell’attimo di morire o subito dopo.
Molto meglio forse lasciare che siano gli oggetti, i segni, le evidenze a parlare da sole, naturalmente.
E quel muro è in grado di dire, da solo, tante cose.
A patto però di guardarlo nella sua oscena nudità.
Senza colori e senza orpelli, senza mostre o ricostruzioni appositamente studiate che ne denuncino l’assurdità.
Perché è denuncia e assurdità lui stesso.
Non serve altro.
Mentre la città e il suo volto nuovo sono una profusione di ricordi indotti.
Troppi memoriali, troppa rievocazione, oserei dire ostentazione di questo passato dal quale, è palese, si vuole dimostrare a tutti i costi di avere preso le distanze. 
Quasi morbose tutte quelle foto in bianco e nero a ogni angolo di strada, est o ovest che fosse (e che è molto difficile, nella confusione, ora distinguere).
Ma il culmine lo tocca quel Check Point Charlie in un primo momento abbattuto e completamente raso al suolo, poi ricostruito per volontà forse di quei berlinesi che hanno avuto, loro malgrado, tristemente a che farci per lunghi anni.
E che giustamente volevano rimanesse un monito e un monumento, di certo non la trappola per turisti che è diventato.
Due emblematiche, enormi immagini del fotografo Frank Thiel sovrastano l’area dell’ex postazione militare: un soldato russo che guarda verso Ovest e un soldato americano, di colore, rivolto a Est.
Forse bastava questo.
Di certo non era necessario trasformare tutto in barzelletta piazzando al centro della strada una pila di sacchi di sabbia e due finti soldati in uniforme, a rappresentare i due schieramenti, che richiamano a gran voce i turisti e davanti ai quali si snoda una lunga fila per farsi fotografare.
Un po’ come i finti centurioni davanti al Colosseo, con la differenza che quelli, molto probabilmente, non hanno mai dovuto sparare a nessuno.
Quasi irriverente, al pensiero che quello scenario da film di spionaggio, era una realtà vera da attraversare ogni singolo giorno, per i fortunati che potevano; oppure un luogo da guardare con terrore e tanta voglia di scappare, per i derelitti che avevano avuto solo la sfiga di essere stati confinati lì, dalla parte sbagliata.
E non è che attraversarlo, pure per chi poteva, fosse proprio una passeggiata leggera.



Minimo mezz’ora di attesa.
E poi controllo passaporti, verifica del visto, perquisizione completa della macchina: sopra, sotto, dietro i sedili e nel bagagliaio, dentro il vano motore con la torcia e sotto la scocca con appositi specchi.
Tutto ad armi spianate.
Tutto per due volte al giorno. Andando e tornando da scuola.
Con propaggini, di quel muro che non si esaurivano nei suoi confini, ma arrivavano fin dentro le case: con i microfoni spia, il telefono sotto controllo, la posta che arrivava aperta, letta e tradotta.
A volte perfino smembrata, come la cartolina musicale che mi aveva spedito mia nonna e che doveva aver destato pesantissimi sospetti...
Vietati i contatti con gente del posto, vietati per la loro sicurezza e salvaguardia, non certo per noi.
Ma anche per pudore e solidarietà, perché quell’unica volta che ho portato a passeggio cicciobello al parco comunale mi sono trovata attorniata da bambine che una Puppe così bella non l’avevano mai vista.
O come quella volta al Kindergarten che mamma mi aveva messo incautamente dei mandarini per merenda e che mi ero sentita osservata e inadeguata, pur nell’inconsapevolezza dei miei 4 anni.
Perché a Est  i mandarini erano una rarità.
Come le fragole: potevano arrivarne 3 cassette un bel giorno, al supermercato sotto casa. Ti mettevi in fila, ordinatamente, per tentare di accaparrartene quei due-tre etti a persona consentiti.
Ma non era detto che ti andasse bene e potevi pure fare la fila inutilmente e scoprire che erano finite quando finalmente arrivava il tuo turno.
Ma noi fortunelli la spesa potevamo farla pure a Ovest.



Berlino ora è una città piena di giovani, ce ne sono davvero tanti, di tutte le razze, le etnie, i paesi.
Ma tutta quella pseudo libertà di espressione, con spettacoli improvvisati nelle piazze, dove ognuno può scegliere di fare ed essere ciò che vuole, a me (ma è solo un parere personale) ha messo solo tanta tristezza.
Mi è sembrata l'ennesima esorcizzazione di un passato che c'è poco da fare: è ancora lì, lampante, vivissimo, nelle cicatrici dei palazzi, in quell’ampelman ai semafori (e non solo sulle scritte dei negozi ora dedicati..), sui tanti segni nascosti eppure assolutamente evidenti.
Ma allora che ci fai con un passato così pesante?
Forse lo lasci lì e basta, ne prendi atto, lo commemori pure, ma lasci che gli altri lo vedano e ci riflettano da soli.
Senza guide, senza mediazioni di sorta, senza ostentazioni.
Non ti metti a vendere pezzi di muro come souvenir a ogni angolo di strada.
Non fai il museo della DDR. Perché i berlinesi dell’est esistono ancora e certi oggetti della DDR che ora sono al museo noi li usiamo ancora qua a Roma, anche a distanza di anni e chilometri.
Non organizzi tour della città a brodo della Trabant.
Perchè tutto quello che ora è diventato museo o divertimento per turisti una volta era l'orgoglio e le gioie (poche ma preziose, come per esempio quella di riuscire a comprarsi una Trabant e aspettarne la consegna anche per 6 mesi!) e i dolori di un popolo che è stato diviso a metà, c'è poco da fare.
E che diviso a metà è rimasto.
Provare a camminare lungo la Frankfurter Allee, svoltando a un certo punto sulla Möllendorffstraße e proseguendo oltre il quartiere di Fredrichshain, per credere.
 (è fuori mappa, oltre la zona turisticamente conosciuta, ma si trova facilmente e si parte dalla centralissima Karl Marx Allee, per ottimi camminatori o affittando una bici. Oppure prendendo la U-Bahn e poi il tram 16 o 23 all’incrocio).
Nonostante le smanie di progresso e i mille cantieri aperti: la futuristica (e bellissima) cupola in vetro e acciaio  del Reichtag e tutti i bar pieni di cimeli della DDR.
Il magnifico complesso del Sony Center e il vecchio edificio della sovietica Kaufhalle rimasto tale e quale, cambiando solo il nome del rivenditore.
Il restauratissimo (e ora chiccosissimo) KaDeWe, e i vecchi Kaufhof, di cui la città è ancora disseminata, fra una Galeries Lafayette e un Europa center, come in  una qualsiasi altra capitale europea.
Tutto questo ha un che di irritante.
E dà l’idea di una città estremamente confusa, ancora disgregata, proiettata al futuro avendo assolto al compitino di fare i conti col passato, sembrerebbe, giusto per gli occhi e la coscienza di chi la guarda da fuori.
Ma con la voglia intensa e nemmeno troppo nascosta di liberarsene per sempre, spazzando via tutto, a botte di centri commerciali sempre più megalomani (vedere l’immenso cantiere dell’Humboldt forum che ha sventrato i dintorni di Alexander platz, il prato antistante il Berliner Dom e tutto il glorioso viale di Unter den Linden) e di mostre pseudo commemorative.
E la famosa porta di brandeburgo?
Oh, un enorme simbolo, che prima appariva così
e ora così.
E non è che il giorno in cui é stata scattata la prima ci fosse semplicemente poca gente: quello era il limite invalicabile, peccato non ne rimanga traccia nemmeno attraverso un mattoncino che ricordi dove si trovasse il muro.
Tante foto, quello sì. E spiegazioni in tedesco e in inglese ai quattro angoli della piazza.
Insomma, ben poco, nonostante tutti gli anni e la storia, dentro di me è cambiato.
Odio-amore come sempre.
Perché nonostante tutto quanto sopra detto, c’è anche amore, sì.
Perché Berlino è stata la mia culla e la mia mammetta per tanti anni e c’è una cosa in particolare di lei che amo alla follia, a parte tutto il verde delle sue campagne circostanti, i laghi e i fiumi, la puntualità e l’efficienza dei suoi mezzi pubblici: 
la Fernsehturm.
L’asparago, la torre della televisione, il faro che ti guida da ogni punto della città in cui ti trovi, perché da ogni punto è visibile e riconoscibile.
Rimasta lì, immobile e intatta,  libera e scevra da ostentazioni e lifting di sorta, nella sua inviolata e meravigliosa Ostalgie, a racchiudere i sogni di bambina e quelli di adulta.
Ora e per sempre, tanto più che finalmente, questa volta ci sono anche salita, salutando l’omino appeso alle sue vetrate e sospeso nel vuoto per pulirla e lucidarla….



Discrasie – Timballo di zite e polpettine

$
0
0



Le piante da sistemare….e la digitale da smontare per capire perché s’inceppa.
I maglioni di lana ancora da lavare dopo il cambio stagione….e lo sportello della cucina da aggiustare.
Le solite 5-6 lavatrici da avviare….e la fototessera per la patente internazionale da andarsi a fare.
Le occupazioni dell’amato bene e mie, con cui riempire sabati, domeniche e lunghi ponti primaverili, sono tra le più vaste e varie.
E quasi mai coincidono.
Che di per sé non sarebbe un problema: ognuno i suoi spazi, ognuno con i suoi tempi.
È che a noi tante cose piace farle insieme, questo va detto.
Ma certo non tutte.
Per riparare la reflex (il cui utilizzo peraltro mi è precluso....) per esempio non saprei da dove iniziare (ma potrei sempre imparare!).
E di contro lui difficilmente riuscirebbe a districarsi fra le mille opzioni dei programmi di una lavatrice (ma potrei sempre insegnare!).
Di certo non mi darei la zappa sui piedi offrendomi di riparare l’anta della cucina che io stessa ho provveduto a sradicare con la delicatezza che mi è propria: sarebbe come ammettere di averla divelta io e cadrebbe il mito del “mi è rimasta (così, casualmente…) la maniglia in mano e ho visto saltare una vite (che però non trovo più)”.
Ma sarebbe anche insolito che sulla fototessera per la SUA patente internazionale ci fosse la mia faccia.
Insomma: ognuno le sue cose, i suoi hobby, i propri passatempi.
Almeno fino a quando non ci si incontra.
E mentre noi donne, almeno in fatto di compitini casalinghi da assolvere, godiamo di una certa autonomia decisionale (e i suddetti ce li sbrighiamo, per lo più, da sole), i signori mariti quando ciondolano per casa in crisi d’astinenza da partita di campionato o Gran premio di formula uno, corrono il serio rischio di essere presi dal sacro fuoco di (in ordine di pathos crescente):

1. rendersi utili (?)
2. aggiustare qualcosa (??)
3. buttare via qualcos’altro (c’è troppa roba qua dentro)
4.  fare più spazio possibile (può sempre servire)
5.  liberare energia (fa bene allo spirito)
6. dare una tinteggiata alle pareti (vedi come sono ridotte?)
7. rifare il pavimento dei balconi (è già la terza volta sì, ma vuoi mettere, cambiare sempre prospettiva?)
8. sostituire tutte le lampadine di casa (pure quelle che ancora vanno…mi porto avanti)
9. smontare e rimontare l’armadio a muro per vedere quanto tempo ci vuole (e battere così un immaginario record autostabilito).

E potrei seguitare per molto.
Perché tutto: pur di assecondare la rinascita primaverile (e il guizzo volenteroso che regala) e ammazzare la noia quando è ancora un po’ freschino per andare in spiaggia ma troppo soleggiato per infilarsi in un centro commerciale.
Peccato che i loro tempi raramente coincidano con i nostri.
Che non sempre le loro idee siano felicissime.
Che quasi mai le loro lodevoli intenzioni siano supportate da altrettanto buon senso.
Domenica pomeriggio: primo fine settimana dopo il rientro dal viaggio (che per noi non è vacanza, ma è: pedalare, marciare, dormire pochissimo, puntare la sveglia all’alba, scegliere voli aerei rigorosamente notturni o  prudentemente antelucani), invito a cena multiplo appena espletato per festeggiare le mamme (in anticipo di un giorno ma vabbè..), cambio di stagione ancora da completare, nuova settimana di lavoro che sta per cominciare.
Mi chiudo in camera a piegare panni sperando di sfuggire a strampalate richieste.
Perché qualcosa mi dice, con ragionevole certezza, che una stramberia gli salterà in mente di fare per impiegare questa rimanente metà pomeriggio di domenica in cui io, per conto mio, mi sarei già programmata 7-8 cosette da autogestire (ma anche rimandare, che ‘mme frega?).
Sento bussare alla porta, cerco di giocare d’anticipo e manco finisce di aprire che gli urlo: “Usciamo a  fare una passeggiata??!” che in verità suona più come un ordine che come una proposta.
Ma lui è già avanti: “No, volevo chiederti se puoi aiutarmi a fare una cosa” e ha già preso la scala, as usual, s’è già fatto spazio in cucina, ha già cominciato a tirare giù le prime tazze, quelle dei viaggi, quelle che ci perseguitano..
Quell’ammasso di porcellana sacra, certo da tirare giù, ne convengo, almeno una volta l’anno: per pulirle,togliere via la polvere unticcia dai pensili che le ospitano, cambiare i giornali che ne rivestono la sommità, trovare sistemazioni più congeniali, fare spazio alle nuove arrivate.
E cerca di rassicurarmi col suo innato ottimismo e l’ormai storica frase: “Ci vorranno solo 5 minuti!
Ma deve essere un problema di percezioni spazio temporali.
Altrimenti non si spiega com’è che  lavori di questo genere saltino in mente rigorosamente:
a)      quando hai appena finito di passare l’aspirapolvere per tutta casa e stai ancora boccheggiando per la fatica
b)      quando hai appena cambiato i copridivani e sei tutta fiera del profumo che quelli appena lavati spargono tutto intorno.
c)      quando hai appena ricollocato al suo posto l’ultimo dei 100mila ninnoli che ti piacciono tanto ma non hai mai voglia di spolverare e invece finalmente stavolta t’eri decisa
d)      quando hai appena finito di pensare che “per oggi basta, mo’ mi concedo una bella doccia, poi mi sbrago e mi guardo un film!
(il tutto sarebbe di per sé privo di nesso logico se non stessimo parlando dei nostri 40 metri quadri di casa dove il salotto è anche cucina che è anche disimpegno che è pure mensola appoggiatutto che è pure appendiabiti…e dove tutto è vicino, confinante, trasbordante, confluente e la polvere transita allegramente da un anfratto all’altro senza soluzione di continuità).
Ma soprattutto, la domanda destinata a rimanere inevasa, è: perché per certi sporchi lavori loro, gli uomini, hanno sempre bisogno del nostro aiuto?
Ché noi per mettere su una lavatrice chiamiamo la vicina di casa?!

@@@@@@@@@@@@@


Sarebbe l’ora della dieta e della prova costume, ma piatti così impongono uno slittamento perlomeno di date di inizio, se non proprio di intenzioni generali.
Un pasto completo, e molto di più. La ricetta è di una carissima amica di mia madre (che quando sua figlia ed io eravamo piccole ce la portava pure in spiaggia, sotto l’ombrellone con la tenda tutta intorno, nella Ladispoli di Verdone…). Un po’ laboriosa da preparare e di certo non veloce, ma ha il vantaggio di essere lievemente…light (non c’è besciamella, non c’è burro!), e di avere anche un secondo pasto incorporato, da ritrovarsi bello e pronto, visto che lo spezzatino del sugo servirà solo a dare sapore e potrà essere mangiato in un’altra occasione! e a questo proposito: sembrerebbe bizzarro, ma nel suddetto ci va proprio rosmarino tritato, in luogo del consueto trittico sedano-carota-cipolla.


Ingredienti (per 8 persone)
750 gr di zite
3 etti di spezzatino di muscolo
800 gr di macinato (di cui 600 gr per le polpette e 200 gr per il sugo)
2 barattoli grandi di pelati
1 bicchiere di vino bianco secco
300 gr di mozzarella
2 uova
Abbondante parmigiano
2 rametti di rosmarino
Mezza cipolla
Olio extravergine d’oliva
Sale
Pepe

Procedimento
Staccare gli aghi di rosmarino dai rametti e tagliuzzarli con le forbici o tritarli con la mezzaluna. Tritare anche la cipolla e mettere entrambi a rosolare piano in un largo tegame cosparso di olio. Non appena la cipolla sarà imbiondita unire lo spezzatino, lasciare rosolare anche quello e non appena sarà ben dorato su tutti i lati, sfumare con mezzo bicchiere di vino bianco, alzare la fiamma, aggiustare di sale e pepe, quindi unire i pomodori pelati precedentemente schiacciati con una forchetta o passati velocemente al minipimer. Mescolare e lasciare sobbollire lentamente il sugo per circa un paio d’ore.
Nel frattempo preparare le polpette: mescolare il macinato con le uova, sale, pepe e, volendo, anche la mollica di un paio di fette di pane rifatto precedentemente ammollata in acqua e ben strizzata. Formare delle polpettine molto piccole (all’incirca grandi quanto un’oliva di quelle verdi dolci…) prelevando poco impasto per volta e disporle su un vassoio. Far scaldare poco olio in una larga padella, unire le polpettine e farle dorare bene su ogni lato, sfumando alla fine con il restante mezzo bicchiere di vino bianco e lasciando cuocere ancora pochissimi minuti.
Spezzare a metà le zite e lessarle in abbondante acqua salata. Scolarle molto al dente e passarle sotto il getto dell’acqua fredda per arrestarne la cottura.
Quando anche il sugo sarà freddo, e lo spezzatino sarà stato messo da parte per mangiarlo in un’altra occasione (serviva solo a dare sapore al sugo!)-  si passa alla composizione del timballo.
In una teglia rettangolare, grande, disporre un primo strato di sugo, quindi le zite e tutte le polpettine. Ancora sugo, parmigiano e metà della mozzarella tagliata a dadini. Disporre un secondo strato di zite, cercando di sistemarle in modo che abbiano tutte più o meno lo stesso verso, quindi altro sugo, parmigiano e la mozzarella rimanente.
Infornare a 200° per circa 20 minuti, più altri 5 in funzione grill.


Va da sé che, come tutti i pasticci, le lasagne e appunto i timballi, preparato il giorno prima è ancora più buono!

Prima o poi – Cupcakes per aperitivo

$
0
0


Voglia di sole, di verde intenso e di mare.
Di quella brezzolina leggera sulla pelle e delle belle camminate con le gambe immerse fino al polpaccio (almeno fino a luglio inoltrato, che l’acqua è sempre troppo fredda per i miei gusti).
Di giornate terse col cielo azzurro pennarello e di gelati la sera sul balcone.
Di cornetto e caffè sulla spiaggia e di mattine in cui finalmente non è necessario accendere la luce per fare colazione perchè da giugno a settembre il sole arriva fino al tavolo.
Di odore di tigli in fiore e di candele alla citronella.
Di pomodori appena tagliati e di basilico appena raccolto.
Di pasta fredda e di rifare il letto in un attimo che tanto ci sono solo le lenzuola, manco il copriletto.
Di tirare giù le tende del balcone e di annaffiare le piante ogni sera, ammirandone i progressi e le fioriture, strofinando tra le mani un rametto di timo limone e chiedendoti come abbia potuto farne a meno fino a ora.
Di incarnato più scuro e colorito più sano.
Di sandali e di magliette leggere.
Di mercatini estivi e di fette sbrodolanti di cocomero.
Di scorpacciate di prosciutto e melone e di avere desiderio di mele almeno fino a ottobre.
Di belle teglie di verdure al forno e di odore di olio solare al cocco.
Di bretelline lente e di infradito dai colori sgargianti.
Del gelsomino fiorito e della pizza all’aperto.
Ma anche solo di un po’ di sole che, di questi tempi, sembra divertirsi a giocare a nascondino.
Tanto che, invece.
Aria fresca e cielo imbroncianto.
Mare in tempesta.
Animo in subbuglio.
Fioriture in ritardo.
Ancora zuppe e piatti caldi.
Scarpe chiuse e maglioncino sulle spalle.
Orticarie e contratture.
Letto ancora trapuntato.
Bb cream a volontà
…..Quando arriva l’estate?

@@@@@@@@@@@@


Esperimento da tempo inseguito e finalmente realizzato, che io le cupcakes non è che le ami proprio tanto. Mi affascina vederle, ammirarle, immaginarne il sapore. Per quanto riguarda quelle dolci. Delle salate ignoravo addirittura l’esistenza. Di loro, le qui presenti, non hanno un gran sapore: ma costituiscono un’ottima base per la crema sovrastante o si prestano ad essere tagliate a metà e farcite di formaggi o salumi.
Ho notato che più passavano le ore, più erano gustose e al terzo giorno ci sono perfino piaciute molto! La ricetta è tratta dal numero di aprile di Cucina no problem con consistenti aggiunte e fondamentali variazioni (col senno di poi, avrei aggiunto a quanto segue, anche un paio di cucchiaiate di parmigiano per regalare un po’ di brio).


Ingredienti (per circa 10 cupcakes)
150 gr di farina digrano saraceno (io ho usato farina integrale)
240 gr di farina 00
1 bustina di lievito per torte salate
3 uova
150 gr di radicchio (io 200 gr)
½ cipolla
125 gr di yogurt bianco magro (l’originale ne prevedeva 150 gr)
1 bicchiere (usando come misurino quello dello yogurt) di latte (mia aggiunta personale)
½ bicchiere di olio extravergine d’oliva (mia aggiunta personale)
50 gr di bresaola tagliata a dadini
Sale
Pepe
Per la decorazione:
250 gr di di caprino lavorato con erba cipollina (io ho usato philadelphia)
10 fette di bresaola
Semi di papavero

Procedimento
Per prima cosa tagliare il radicchio a striscioline e farlo appassire in una padella con poco olio, quindi lasciarlo raffreddare. 
Con una frusta a mano sbattere leggermente le uova con il sale e il pepe. Unire lo yogurt, il latte e l’olio continuando a mescolare. A mano a mano incorporare le farine setacciate, quindi il radicchio e la bresaola tagliata a dadini.
 Per ultimo aggiungere il lievito e versare il composto negli appositi stampini da muffins riempiendoli per 3/4 (..non come ho fatto io...). 
Cuocere in forno preriscaldato a 180° per circa 15-18 minuti (la ricetta diceva 10-12 ma per il mio forno non sono stati sufficienti, regolarsi quindi con la solita prova stecchino).
Sfornare e lasciar raffreddare 

prima di decorare con il formaggio lavorato con erba cipollina tritata e distribuito sui muffins con una sac à poche

 e rifinire, a piacere, con  una fetta di bresaola, semi di papavero e tutto ciò che la fantasia suggerisce!

Usi e costumi – Paccheri alla cernia

$
0
0


Una vocina lontana e musicale che termina con un tono alto.
Un interrogativo sospeso, un vuoto da riempire, due occhi che ti scrutano ansiosi.
Capisco che la domanda è rivolta proprio a me quando, con molta fatica, riemergo finalmente dalle parole del mio libro.
E molto lentamente esco dalle atmosfere cupe e dagli intrighi ansiosi delle pagine de “La Mennulara”.
Dalla Sicilia agli States il passo è breve, del resto mi trovo su un treno regionale pieno di turisti e la cosa non è nemmeno molto strana.
Mi scoccia assai essere stata trascinata fuori, seppur con molto garbo, dagli intrighi della famiglia Alfallipe, oltretutto quella è la mia camera di compensazione tra il corri corri che ho appena terminato a casa e il lavoro che mi aspetta.
Mettiamoci che da quanto mi è riuscito di capire nello stato semi-ipnotico in cui ancora mi trovo, devo pure dare fondo a tutte le conoscenze di inglese che, nonostante tutti i viaggi in giro per il mondo rimangono sempre, scientemente, frammentarie e lacunose, perché ma sì, alla fine ci si capisce comunque.
Che poi di preciso: mo’ che vòle questa?
Ah ecco, sapere se il treno è diretto proprio a Bracciano.
Capperi, l’ho appena preso anche io e giurerei di sì, ma i dubbi, in casi come questi, fanno presto a sorgere, dilagare, amplificarsi.
Del resto non sono nuova a errori e distrazioni di questo genere.
Visto che è ancora fermo in banchina mi affaccio per leggere il display e mentre penso che probabilmente la tizia avrebbe potuto farlo anche da sola, rispondo magnanimamente che sì, è diretto proprio lì, grazie al cielo.
Ma un’altra, brillante domanda è subito pronta ad affiorarle alle labbra.
Sempre con lo stesso sorriso.
Ancora col medesimo garbo.
E Bracciano è l’ultima fermata?
Benedetto il cielo.
Ora, non so negli altri paesi come funzioni, ma di solito se su un  cartello c’è scritto “TRENO DIRETTO A BRACCIANO” e subito dopo anche l’orario di arrivo (preceduto a sua volta dalla citazione di tutte le fermate intermedie, in piccolo, proprio per lasciare che perfino i segni grafici giungano lampanti laddove il significato delle parole dovesse risultare oscuro…), dove altro potrebbe mai essere diretto quel convoglio lì?
Altro sguardo veloce al tabellone (che stavolta provvedo anche a indicare col dito), ancora per sincerarmi, ma un po’ pure per ratificare una sottile presa per i fondelli, rispondo puntualmente che sì, è l’ultima fermata, considerando che il treno è diretto esattamente lì.
E sarebbe perlomeno bizzarro che il medesimo fosse diretto a  Bracciano e però l’ultima fermata coincidesse, che so, con Sgurgola Marsicana.
Ma le mie competenze linguistiche non mi permettono di fare dell’ironia.
È alla terza domanda che comincio a  chiedermi se sono ancora seduta, con la mente immersa fra le pagine del mio libro e magari è cambiato scenario o  sono proprio io quella in piedi, con il libro (chiuso) in mano (e il dito come segnalibro), le borse e la giacca lasciati 3 sedili più avanti, a intessere una conversazione strampalata con una tizia gentile che mi guarda sorridendo e si profonde in sguardi pieni di speranza e gratitudine.
Quanto tempo ci vorrà?
Signore aiutami.
Dunque, facendo un rapido calcolo, se sono le 13:03 e sempre sul famoso display in banchina c’è scritto

 Bracciano-aperta parentesi tonda-13:48-chiusa parentesi tonda

e sempre che la matematica non sia un’opinione, in italiano o in inglese che sia: 48 meno 3 quanto mai farà?!
Ma siccome di sicuro nella vita c’è proprio poco, e tutto, in fondo, è sempre estremamente relativo, rispondo tentennando:
Credo, più o meno, 45 minuti”
Comincio a vacillare pure io, sudo freddo, che la vita è proprio complicata sì: ti pone quesiti machiavellici, ti instilla dubbi amletici, ti mette nelle condizioni di riflette su come, in fondo, pure prendere un treno che sai dove va e a che ora dovrebbe arrivare, nasconde insidie inimmaginabili.
Mina certezze scientifiche, sgretola piani di marcia faticosamente elaborati.
E ti pone la fatidica domanda: sicura sicura che sia proprio così?
Mai abboccare.
Il dubbio, prima di tutto.
Su tutto.
E infatti comincio a pensare che la signora debba conoscere perfettamente l’andazzo della circolazione dei treni dei pendolari, tutti i ritardi, le soppressioni di corsa, i cambi binario e magari, prudentemente, arriva a porsi (e a condividere generosamente!) questioni sui massimi sistemi.
Mica sbagliato però.
Io finora avevo come unica certezza almeno la destinazione.
Certo in effetti l’orario di arrivo no, che lungo il viaggio può succedere di tutto.
Ehhh ma da oggi cambia tutto, eh? anche perché, chi me lo dice che finora facessi bene a concedere fiducia incondizionata alla destinazione di un treno??
Non faccio in tempo a  rispondermi adeguatamente, che vengo ritrascinata giù dai miei pensieri, con la faccia della signora vicina al mio viso.
Sempre più gentile, sempre più sorridente, con gli occhi sempre più luminosi di gratitudine che li accende di mille scintille e infinite pagliuzze dorate.
Devo averle placato più di un dubbio (assorbendolo e facendolo mio), per meritare tanta gratitudine.
E salvatole la vita, svoltatolela giornata, placatole l’animo agitato.
È con voce soave, infatti, mano sul petto e lieve inchino della testa che si congeda dicendomi:
“Thank you very much. And have a wonderful day”.
Mi sento proprio brava e fortunata, perchè al massimo me ne avevano augurata una “Nice”, di giornata, ma wonderful no, proprio mai.

@@@@@@@@@@@@@


Vado di archivio oggi. E di una ricetta entrata nell'uso famigliare e quindi fotografata un’unica volta (quel dì) e poi mai più, che tanto le foto le avevamo già fatte. Salvo poi accorgermi, al momento giusto, che ste foto erano solo due (le seguenti) e pure di qualità peggiore del solito.
Serve quindi un piccolo sforzo di immaginazione e immedesimazione, per decidersi a provare questo piatto qui che però, garantisco, vale davvero la pena.
Da provare anche con altri formati di pasta, per carità, ma il pacchero ha un fascino tutto suo. E soprattutto a me personalmente fa pensare all'estate  sempre che quest’anno si decida ad arrivare…
Riguardo all'uso del parmigiano con il pesce è frutto di una diatriba infinita tra chi aborrisce e chi ne è deciso fautore.
Io appartengo a quest’ultima categoria e, per esempio, con la cucina siciliana (dove il pesce abbinato al formaggio è quasi una costante) mi trovo molto bene!


Ingredienti (per 4 persone)
Una decina di paccheri lisci a persona
1 filetto grande di cernia (circa 400 gr)
2 spicchi d’aglio
¾ di bicchiere di olio extravergine d’oliva
1 bicchiere di vino bianco secco
½ kg di gamberetti
1 mazzetto abbondante di prezzemolo
1 gambo di sedano
1 carota
1 cipolla
1 patata piccola
1 pomodoro
sale grosso e fino
pepe
peperoncino
insaporitore per pesce
2 cucchiai di parmigiano

Procedimento
Predisporre anzitutto un brodo vegetale, mettendo in una pentola capiente riempita di acqua fredda, la carota, il sedano, la cipolla, una patata piccola, un pomodoro inciso a croce, un ciuffo di prezzemolo e un cucchiaio di sale grosso e lasciarlo sobbollire per almeno un’ora prima di tuffarci dentro, per pochi minuti, i gamberi. A cottura avvenuta filtrare il brodo e lasciarlo da parte (i gamberi naturalmente avranno bisogno di poco tempo di cottura e serviranno solo a insaporire il brodo: questi, una volta sgusciati, potranno essere consumati a parte, magari come antipasto conditi con una leggera salsa rosa ricavata con un po’ di maionese e una punta piccolissima di ketchup, oppure tuffati nel piatto finito e  amalgamati a tutto il resto).
In una larga padella mettere l’olio d’oliva con i due spicchi d’aglio tagliati a metà e far soffriggere leggermente. Dopodiché aggiungere il filetto di cernia tagliuzzato a dadini e cospargere di abbondante prezzemolo tritato, un po’ di sale, un po’ di peperoncino, un pizzico di pepe, una presa di aromi vari per pesce e una volta rosolato, sfumare con il vino alzando la fiamma per farlo evaporare.
Lessare  i paccheri nel brodo filtrato e scolarli molto al dente in modo da ultimarne la cottura nella padella con il condimento, allungando, a mano a mano, con qualche mestolo di brodo).
Prima di servire in tavola, mantecare il tutto con i due cucchiai di parmigiano e una abbondante manciata di prezzemolo finemente tritato.

Pensieri in libertà - Calamarata spada e melanzane

$
0
0

Anche le parole faticano un po’ ad articolarsi in questo periodo di attesa e sospensione.
Aspetto il sole, ma di quello ancora nessuna traccia.
O meglio: a sprazzi, ma per abbeverarsene (e dissetarsene) non basta, del resto saremmo in primavera inoltrata e tutto quello che arriva sono invece raffiche di vento e goccioloni di pioggia.
Oltre a notizie incredibili di neve e tornadi.
Poi c’è l’attesa, spasmodica e molto ansiosa, dello scriccamento.
Il tempo cattivo non fa marcire solo piante e coltivazioni varie, ma anche ossa scricchiolanti e articolazioni già difettose, sicché sono qui a pasteggiare con un inutile e anzi pure dannoso Brufen e a stramaledire l’attimo in cui, molto ottimisticamente, ho pensato si fosse fuori dall’inverno e me ne andavo in giro tutta baldanzosa in maniche di camicia.

Aspetto di riappropriarmi del mio corpo, perché fino a quando è sofferente il corpo diventa di proprietà esclusiva del dolore (esattamente come l’anima, a volte in una fusione un po’ complicata da gestire), che io la lezione yogica di “sentire il dolore e poi lasciarlo andare via, senza diventare un tutt’uno con essonon l’ho ancora fatta mia.
E nemmeno quella di “mantenerla semplice e aderire al presente, se è per quello.
(anche perché molto spesso mi piace crogiolarmici. Almeno un po’.)
Aspetto di comprare finalmente una nuova tovaglietta di plastica supercolorata per il tavolino del balcone (cenarci pure mi sembrerebbe un sogno ancora esagerato!), ma se non altro allargare i confini della casetta e avere uno spazio in più per leggere, stirare, appoggiare il portatile.
Sistemarci il vaso di peonie ormai prossime alla sfioritura definitiva, che pure loro si saranno rotte di aspettare sto sole ormai.

Aspetto che mi torni la voglia di fare progetti, che qualche volta pure quelli sono fastidiosi.
Dispendi di energia inutile.
Aspetto che mi passi la smania di avere tutto sotto controllo e funzionalmente a questo lascio andare un sacco di cose alla deriva, per imparare che tanto alla fine, deriva non è mai.
E in tutto questo mi godo anche i lati positivi.
Come due giorni tutti interi da passare a casa, subito dopo il sabato e la domenica.
Che in totale quindi fanno quattro.
In compagnia unicamente di me stessa.
Senza avere voglia di fare nulla e con la scusa buona per potermelo concedere.
Ma del resto lo diceva anche il mio oroscopo di questa settimana, ed è come andare a scuola con una rassicurante giustificazione scritta:

Leone 23 luglio-22 agosto
Il tuo compito questa settimana è prenderti cura di te: coccolati, ascoltati, concediti qualche regalo o attenzione extra.

Le attenzioni non mancano, mi sono perfino riletta, un po’ controvoglia, ma alla fine con soddisfazione, Il piccolo principe.
E ho ritirato fuori dall’armadio di mia suocera il corpetto dell’abito di nozze.
(la gonna no perché in realtà non cercavo emozioni, solo, molto pragmaticamente, un modo per riutilizzarlo: i vantaggi di sposarsi in rosa anziché in total white).
Per il regalo, sono indecisa fra una cinquantina almeno di opzioni, ma di certo non faticherò ad eseguire questo compito per intero, con tutti i sentimenti.
Intanto domenica sera in cielo c’era una luna di quelle bellissime, struggenti.
Vicina, enorme, solo lievemente offuscata da nubi che però non osavano avvicinarsi troppo, ma le facevano solo da contorno.
Restare a guardarla per un po’ e poi continuare a visualizzarla per molto tempo ancora, è stato il primo dei regali che mi sono concessa.
Il prossimo sarà certamente un paio di orecchini nuovi.
O delle scarpe con il tacco molto alto.

@@@@@@@@@@


In passato con questo condimento avevo fatto i fusilli, ma ancora prima, in origine proprio (cioè quando è sbocciato l’amore folle per il piatto in questione) così condite avevo mangiato le busiate trapanesi. Impossibile ricrearne appieno il sapore senza determinati scenari di mare e di monti davanti agli occhi, ma se non altro ci si può abbandonare al sogno e liberare l’immaginazione.

Sembrerà strano doverci mettere la menta, eppure è proprio quella che conferisce al tutto quell’aroma di sole, di mare, di isole lontane e mitologiche…..

Secca, mi raccomando, che quella fresca in questo caso risulterebbe troppo pungente e poi perché così ricorda pure un po’ l’origano selvatico. E il sogno è servito!

Ingredienti (per due)
250 gr di calamarata fresca
1 trancio di pesce spada (da 200 gr circa)
1 melanzana piccola
Una decina di pomodorini
2 filetti di acciughe
3 spicchi d’aglio
2 dita di vino bianco secco
Prezzemolo
Peperoncino in grani
½ cucchiaino di menta secca
Sale
Olio extravergine d’oliva

Procedimento
Mettere a bollire l’acqua per la pasta. Nel frattempo preparare prima la melanzana lavandola, asciugandola e tagliandola a piccoli cubetti.
 In una padella scaldare dell’olio con uno spicchio d’aglio tagliato a metà  e tuffarci dentro i dadini di melanzana facendoli rosolare a fuoco sostenuto, dopo averli salati, insaporiti con peperoncino in grani e  abbondante prezzemolo tritato.
Quando saranno cotti, metterli a raffreddare su un piatto piano e  lasciarli da parte.
Nel frattempo dedicarsi al sughetto vero e proprio: scaldare dell’olio in una larga padella (che poi dovrà ospitare anche la pasta) insieme ai restanti spicchi d’aglio tagliati a metà e ai filetti di acciuga.
Unire i pomodorini tagliati in quattro e far cuocere, sempre a fuoco abbastanza sostenuto, per 3-4 minuti. Dopodiché aggiungere il pesce spada tagliato a cubetti e farlo saltare insieme al condimento, evitando di mescolare per non rischiare di frantumare e ridurre in poltiglia il pesce. 
Dopo un paio di minuti bagnare con il vino bianco, salare con moderazione (considerando la presenza delle acciughe), unire le melanzane già cotte e lasciare insaporire il tutto ancora pochi secondi.

Sbollentare la pasta per metà del tempo indicato sulla confezione, quindi tirarla su con una schiumarola e finire di cuocerla nel condimento allungando a mano a mano con l’acqua di cottura.


Spolverizzare di menta, completare con un giro d’olio e….buon viaggio!

Viewing all 449 articles
Browse latest View live