Siamo passati dall’esitazione alla certezza assoluta.
Dall’essere una semplice presenza all’incarnare il simbolo della rinascita, del riscatto, della forza di volontà.
Dalla sciatteria alla consapevolezza di sé.
Dalla tuta ai leggins.
Dalle magliette accollate a maniche lunghe alle mezze maniche con audaci scolli a (mezza) V.
Dalle retrovie alle postazioni proprio davanti allo specchio.
A tiro di istruttore.
Che tanto di prima mattina, in confronto all’immagine del viso per buona parte solcato dal segno del cuscino, dei capelli arruffati che Mocio Vileda scansate proprio, dei calzini puntualmente con l’elastico lento (e va già molto bene che non siano spaiati), in confronto a tutto ciò, dicevo, i suoi rimbrotti sono acqua fresca.
Ma ormai padroneggio attrezzi, posizioni, termini astrusi, sequenze di esercizi e capisco perfino da sola quando inspirare e quando invece buttare fuori l’aria.
Non rimango più in apnea per tutta l’ora rischiando ogni volta la morte.
Non mi impiccio più fra braccia, gambe, prove di equilibrio su un piede solo e affondi vari, rovinando ogni volta sul tatami non prima di essermi elegantemente attorcigliata.
Non amoreggio più sfacciatamente con l’orologio tenendo gli occhi fissi su di lui per vedere quanto manca alla fine dell’ora. Anche perché adesso, specie durante il circuito, c’è un comodo timer sonoro che di due minuti in due minuti ci traghetta allegramente verso la fine della tortura, scandendo il tempo da dedicare a ogni singolo esercizio. E così anche il passare mesto dell’ora.
Che tutto finisce, prima o poi.
Anche la sequenza di addominali.
Che tutto finisce, prima o poi.
Anche la sequenza di addominali.
Certo non che la palestra ora sia diventata il mio passatempo preferito.
Rimane pur sempre un sacrificio improbo cui, incomprensibilmente, continuo ad immolarmi contando fiduciosamente su tutto ciò che di buono apporterebbe, ma rimpiangendo tutto ciò che di assai più interessante e bello potrei fare in quelle 4-5 ore settimanali che le dedico.
E perciò continuo a scegliere i pesetti da 2 kg anziché azzardare chessò, con quelli da 3! Ma solo perché si abbinano perfettamente alle mie magliette prevalentemente di colore viola.
E molto spesso anche allo smalto, della medesima, adorata nuance.
Continuo ad odiare i sacchetti pieni di sabbia che sono un po’ come i pesetti ma servono per evoluzioni più ardite, per il semplice fatto che sono scomodi da afferrare e richiedono l’obolo di un paio d’unghie spezzate ogni volta.
È solo questione di saperlo prima, dopotutto. Basterebbe un avviso in bacheca e una evita di farsi la manicure sapendo che il giorno dopo, a funzionale, si useranno i sacchetti.
Certo continuo imperterrita ad arrivare in ritardo alle lezioni.
Per lo più a fine riscaldamento, con la colazione ancora sullo stomaco e il bisogno, supportato da un reverenziale timore, di guardarmi fugacemente allo specchio per sincerarmi di non aver dimenticato niente.
Per esempio di essermi tolta le ciabatte cuoriciose e aver indossato le scarpe da ginnastica.
Per esempio di essermi tolta le ciabatte cuoriciose e aver indossato le scarpe da ginnastica.
Ma poi mi dico che è già un miracolo se sono lì.
Pronta a iniziare, anche se gli altri da mo’ che hanno iniziato.
Eppure io la sveglia continuo a puntarla alle 7.
Manca da correggere giusto il fatto che poi non mi alzo prima delle 8.
E quando poi mi decido a farlo è solo per altissimo senso del dovere.
Eppure ho affinato tecniche nuovissime e raffinate di schizzamento fulmineo fuori dal letto. Lavaggio di denti con una mano, vestizione con l’altra. Colazione con un occhio, mascara passato sull’altro.
E insomma le cose in palestra non vanno così male.
Cinque giorni su cinque magari non riesco a farli proprio tutte le settimane, ma meno di quattro mai.
Con molta costanza.
Tanta buona volontà.
Infinito impegno.
Devono essersene accorte anche le mie compagne di corso che ormai mi vedono fare flessioni, piegamenti, squat senza (quasi) mollare mai.
Prendendomi addirittura a modello, senza nemmeno bisogno di prestare troppa attenzione alle spiegazioni dell’istruttore.
Si girando verso di me, osservano, poi, con calma, decidono:
“famme ‘n po’ vedè: ah vabbè, se ‘o fa’ lei vordì che ‘o posso fa’ pure io”
E considerando che a dirlo sono le solite ultrasettantenni, la soddisfazione, signore mie, è ancora più grande.
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Questi biscotti vanno a ruba. Somigliano moltissimo agli originali reperibili in commercio: quelli con frutta secca o uvetta oppure gocce di cioccolato. Ma se deciderete di farli potrete dar sfogo alla fantasia: l’uvetta si può sostituire con gocce di cioccolato; le nocciole con qualsiasi altro tipo di frutta secca; il liquore con latte (anche vegetale) o semplicemente acqua (come nella ricetta originale che ho preso qui).
Rustici, corposi, assolutamente irresistibili. E senza uova, senza burro, senza lattosio…..serve sapere altro per correre a provarli?
Ingredienti (per 20 biscotti)
200 g farina integrale di farro macinata a pietra
50 g zucchero di canna
2 cucchiai miele
80 g olio di riso
40 g nocciole tostate
40 g uvetta
100 g fiocchi d'avena piccoli
2 cucchiaini di lievito per dolci
Liquore Moretta (o altro) q.b.
Procedimento
Innanzitutto mettere l’uvetta a reidratarsi immersa in un bicchierino di liquore per una ventina di minuti. Riunire in una ciotola la farina, lo zucchero di canna, i fiocchi di avena, le nocciole tritate.
Unire l’uvetta scolata sommariamente (ma non buttare via il liquore!), il miele e l’olio, mescolando bene per far amalgamare tutti gli ingredienti.
A questo punto unire progressivamente il liquore in cui è stata fatta ammollare l’uvetta, fino a ottenere un composto sodo e compatto. Qualora si fosse ecceduto e l’impasto risultasse troppo molle, aggiungere ancora fiocchi di avena o farina fino a ottenere la consistenza giusta.
Sistemare il panetto fra due fogli di carta forno e stenderlo con il matterello in una sfoglia non troppo sottile. Ricavare i biscotti con un tagliapasta o un bicchiere rovesciato e disporli su una placca ricoperta di carta forno.
Farli raffreddare completamente prima di assaggiarli!