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Channel: Pizza Fichi e Zighinì
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Sanremo - Ciambellone veg all'arancia

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Ho vissuto -molto bene- gran parte della mia vita ignorando completamente Sanremo.
Contestandolo, anche.
Che quella manifestazione canora così patriottica e totalizzante proprio non la reggevo.
A parte quella fugace occasione in cui vinse Eros Ramazzotti e restai incollata alla tv fino alle due passate per vedere il mio idolo trascinato all’esterno dell’Ariston, per la consegna del cavallo bianco come premio oltre alla statuina della palma e del leone.
Poi mi sono sposata.
 E ho sposato uno che Sanremo ce l’aveva nel sangue e nelle imprescindibili tradizioni di famiglia.
Come la carbonara e la colazione di Pasqua.
La cacio e pepe e le partite della Roma.
Adesso, dopo quasi nove anni di matrimonio e un sottile ma costante indottrinamento, la settimana di Sanremo per me ha assunto un alone sacro e intoccabile.
Addirittura di gran lunga superiore alla tiepida simpatia nutrita dall’amato bene nei suoi confronti.
Un tifo sfegatato. Un amore viscerale.
Per quella settimana non esistono inviti a cena, altri programmi, perdite di tempo davanti ai fornelli, docce prolungate oltre i 5 minuti sufficienti per scrostare via la stanchezza della giornata e infilarsi comodamente nel pigiama.
Si fa in modo e maniera di rincasare per tempo, uscendo prima dal lavoro e prendendo, se necessario, anche un treno prima di quello solito.
Si predispongono (in anticipo) cene veloci, per non perdersi nemmeno una virgola fra battute, canzoni, gaffes, otufit e inquadrature sparse fra la platea a caccia di volti noti o facce annoiate.
A casa nostra Sanremo non si guarda soltanto, si studia.
Punto per punto. Canzone per canzone.
In modo scientifico.

Si medita, ci si confronta, si danno voti e si fa a gara per vedere chi ci azzecca e, al termine delle 5 serate, si è avvicinato di più alla triade vincente.
Difficile ogni volta stabilire i criteri di giudizio:
ma dobbiamo votare in base al cuore o cercando di indovinare le tendenze del pubblico che voterà?” - chiede un dubbioso amato bene, amante della trasparenza e dei regolamenti cui appellarsi in casi dubbi.
Ma no, votiamo in base alle nostre personali preferenze, poi se coincidono con quelle della maggior parte della gente tanto meglio. Si vince!” – suggerisco convinta per poi segretamente contravvenire alla regola subito dopo.
Una gara fra noi, un gioco che ci tiene incollati a testi e musica manco fossimo Claudio Cecchetto e Mara Maionchi a caccia di talenti.
Ed è così che quest’anno ci siamo deliziati davanti all’inedito di Lucio Dalla presentato da Ron, convinti che avrebbe vinto a mani basse perché “come fai mo’, dopo sta presentazione, a non farlo vincere?”. Felici di sbagliarci.
Stupiti davanti a una leggenda popolare trasformata in musica da un poetico Max Gazzè, che ci ha proiettato fotogrammi della nostra prima vacanza insieme, sul Gargano, proprio al cospetto di quel gigante di bianco calcare che aspetta tuttora il suo amore rapito e mai più tornato.
Trascinati a sorpresa dai ritmi tribali di un complesso giovane come i The Kolors, e da quelli indiavolati della vecchia-che-balla con Lo Stato Sociale che chi lo avrebbe mai detto, potessero piacerci così tanto?
Un po’ annoiati davanti a quelle melodie sempre uguali di un eterno malinconico come Barbarossa (o era Califano?), così come davanti ai soliti, prevedibili travestimenti di Elio e la sua banda.
Increduli davanti al decolletè perfettamente levigato e senza nemmeno un’imperfezione della Vanoni, così come davanti alla scelta di certi nomi. Che arrivare primo col nome di Ultimo pare un ossimoro, eppure eccolo là, sul trono del vincitore.
 Ma pure ostinarsi a non adottare un nome d’arte quando ti chiami “Caccamo” non è proprio così scontato.
Divertiti al ritorno, destrutturato, dei Pooh, prima e seconda versione. Come un tiramisù fatto con i pavesini e assemblato al contrario: cacao sotto, strato di mascarpone, biscotti sbriciolati sopra e caffè servito a parte.
Perplessi davanti alle musiche impegnate dei Decibel (ah, ma è Ruggeri?), di Mario Biondi, di Diodato e Roy Paci, che io boh, non so, mi sforzo, eh? Ma proprio non la capisco.
Incantata (solo io) davanti alla canzone vincitrice e soprattutto a Moro che è dall’anno scorso che tifo per lui e je l’avemo fatta, finalmente.
Incuriosita (sempre io) dagli outfit femminili delle varie Nina Zilli, Annalisa e Noemi, fra pizzi, parure smaltate, fiocchi, crinoline e reggiseni dimenticati.
E insomma, nella pletora di visi, testi e melodie, sulle nostre personalissime schede tecniche, di sera in sera, fioccavano voti che nei giorni potevano riconfermarsi, aumentare o crollare inesorabilmente.
Il criterio era la scala da 1 a 10, con sfumature lievi fra i mezzi punti e i segni più e meno (anche reiterati), tipo il 6 meno meno del compito in classe di latino.
Ma ci sono stati casi, in particolare uno, in cui l’amato bene proprio non ha potuto trattenersi.
E senza appello e senza nemmeno troppi riguardi per il costrutto grammaticale ha ritenuto di formulare il suo giudizio pacato e costruttivo.

Con la grazia che gli è propria.

@@@@@@@@@@@@@@

Ingredienti
200 ml di acqua tiepida
200 ml di succo e polpa di arancia (circa 2)
130 gr di zucchero di canna
90 ml di olio di semi di girasole 
200 gr di farina di kamut integrale
100 gr di farina di farro
1 bustina di lievito
1 bustina di vaniglia in polvere


Procedimento
Preriscaldare il forno a  180°. Riunire in una ciotola l’acqua e le arance spremute e sciogliervi dentro lo zucchero. Unire l’olio e successivamente, poco per volta, le farine setacciate insieme al lievito e alla vaniglia.
Versare tutto in uno stampo oliato e infarinato e cuocere per circa 30-35 minuti.






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