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Dimostrazioni pratiche – Ciambellone 12 cucchiai

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Questo piccolo giardino non è mai stato un fiore all'occhiello del circondario.
Piuttosto un triste ricovero per piante in agonia.
 Negli ultimi mesi poi, tra polvere del cantiere e attrezzi poggiati di malagrazia direttamente sui teneri virgulti che, nonostante tutto, cercavano di venir fuori da qualche residua radice, l’aspetto generale è quello di un orto assalito da un’orda di cavallette, strapazzato per bene e infine abbandonato al suo misero destino.
Tronchi di ortica si elevano fra la ex pianta di rose e il fu gelsomino siciliano. Rovi intricati avviluppano i fragili rametti di ortensia che, pure, cercano in qualche modo di ricicciare. Selve oscure di specie non meglio identificate ammantano il sottobosco di piantine grasse che vivono, loro malgrado, un interminabile buio polare come manco in Antartide.
E poi garbugli di gramigna, distese di farinello selvatico, nuvole di erba calderina.
In tutto questo magma informe tuttavia, svetta, orgoglioso, l’albero di albicocco e, soprattutto, comodamente incastrata nel suo tronco biforcato, una piantina parassita che ho trafugato l’estate scorsa da una casa abbandonata.
Non so come si chiami né di quali cure necessiti. So soltanto che vive attaccata al tronco di un’altra pianta e tanto basta (a me e a lei).
In estate produce fiori fucsia bellissimi che durano fino a quando non si decide di strapparli via, ormai rinsecchiti e senza più particolare appeal.
Fin dall’inizio dei lavori sono stata chiara con tutti: poggiate i vostri attrezzi dove volete, devastate pure vasi, piante e fiori (come del resto stavano tranquillamente facendo prima ancora che li invitassi a non darsi troppa pena). Agite pure senza riguardi né premure, ma una cosa dovete sempre preservare: la piantina parassita, cui tengo particolarmente.
Che del resto sta per conto suo, sull’albero e manco la dovreste vedere.
Lasciatela lì: non la guardate proprio. Non ve la filate. E soprattutto, abbiate cura che non cada per nessun motivo al mondo: deve rimanere abbarbicata all’albero. Sempre.
Ed è così che la piantina parassita è diventata il pretesto di ogni bonaria presa in giro e l’arma di ricatto di ogni occasione.
Se non ce fai er caffè te famo fori quaa parassita
Aò piove: namo a pià a piantina, portamola dentro, sennò se fracica!
E via di questo passo.
Un giorno della scorsa settimana, tornando a casa dal lavoro, trovo l’amato bene in contemplazione estatica di una veletta in cartongesso realizzata lungo tutti i muri del salotto, a sfioro del soffitto, che nei progetti dovrebbe costituire la dimora delle nostre amate tazze di viaggio.
Hai visto come l’hanno fatta bene? -  commenta rapito
In effetti devo dire che stavolta, caso assai strano, hanno interpretato perfettamente schizzi, spiegazioni dettagliate e disegni al millimetro.
Guarda pure gli angoli, con quei sostegni di metallo piccoli e leggeri.  Mi hanno detto che lì potremmo metterci anche una pianta che scende – prosegue, aggiungendo tutto felice, un attimo prima di mordersi la lingua:
Ecco, sì, sono perfino andati fuori in giardino…. a prenderla per farmi vedere, ehm, come ci stava bene– conclude con la voce di due toni più bassa.
Troppo tardi.
Le antenne le ho già drizzate da un pezzo.
Scusa, quale pianta avrebbero preso per fare la dimostrazione di interior design?– chiedo scartando subito l’ipotesi di ortiche e infestanti varie.
Ehm…beh…quella attaccata all’albicocco, del resto è l’unica un po’ a cascata che abbiamo – tenta invano di giustificarli
Però veramente si erano raccomandati pure di non dirtelo
Nello specifico, scopro poi che avrebbero testualmente detto: “nun lo dì a tu moje sennò c’ammazza”.
 E sì in effetti, devo averli proprio terrorizzati, porelli.

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 Una torta facilissima e soprattutto tanto comoda, non dovendo pesare niente ma limitandosi a contare il numero di cucchiai per tutti gli ingredienti. Ho seguito questa ricetta, variando come al solito farine e tipo di zucchero. Poi, dalla versione al limone si può spaziare attraverso tutti gli aromi del mondo, solo seguendo la fantasia!

Ingredienti
3 uova
12 cucchiai di zucchero (io di canna)
12 cucchiai di olio di semi
12 cucchiai di latte (nel mio caso di avena, ma potete usare quello che avete in casa)
12 cucchiai di farina 00 (io di orzo integrale)
Scorza e succo di 2 limoni non trattati
1 bustina di lievito vanigliato


Procedimento
Rompere le uova in una ciotola e frullarle con lo zucchero e la scorza dei limoni finché non saranno diventate gonfie e spumose.
Unire l’olio e il latte continuando a mescolare. Aggiungere anche il succo dei limoni, quindi incorporare progressivamente la farina. Da ultimo unire il lievito setacciato e versare il composto in uno stampo oliato e infarinato.

Cuocere in forno preriscaldato per 35-40 minuti. 


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