Naturalmente era solo un’avvisaglia.
E quello che pareva un semplice intoppo, un debole mancamento, il capriccio di una giornata, s’è rivelato invece un problemone che ha richiesto l’intervento di esperti virologi e illuminati smanettatori di piccì.
Lasciando così la sottoscritta in ambasce per una settimana e più di attesa spasmodica.
Almeno all’inizio, perché poi, effettivamente, allo stato pratico e alla resa nuda e cruda dei conti, tutta questa consunzione in lacrime e attacchi di petto in realtà, non c’è stata.
Dopo una iniziale sensazione di vuoto e lieve mancamento (dovuta anche al fatto che qualsiasi cosa pensassi o decidessi di fare la dovevo anche prontamente risospingere all’interno da dove era venuta, visto che era inevitabilmente collegata a quel coso malefico), la situazione è andata decisamente migliorando.
Per rassegnazione o per forza di cose, gira che ti rigira (fidatevi!) si finisce pure per farsene una ragione.
Del tipo che i primi giorni mi dicevo: vabbè, mi riguardo qualche foto.
E poi mi rispondevo:
No non posso perché sono tutte lì, nel computer.
Ok, allora scrivo qualcosa.
No impossibileperché scrivere con carta e penna significherebbe dover poi trascrivere tutto su appositi file (perché poi non si sa, ma ormai l’abitudine è quella e siccome tanto stringata non sono, non vorrei passare il resto dell’anno a trascrivere da carta a supporto digitale).
Bene, vorrà dire allora che mi dedicherò alla revisione di quel famoso libro che mi è stato chiesto di leggermi ormai un mese fa!
Eh no, non si può perché non l’ho stampato (per non sprecare inutilmente carta e salvaguardare il bene del nostro pianeta) e posso lavorarci solo sul computer.
Che però non funziona.
Lui sempre lui.
Come la metti la metti.
Che francamente m’avrebbe pure un po’ stufato, diciamocelo. A cominciare dalla ricerca spasmodica, tra incastri e modifiche di piani, di quel paio almeno di orette (quando va molto bene), nel corso della giornata, da potergli dedicare anima e corpo.
Con tutti i sentimenti e le facoltà psicofisiche.
Per poter fare tutto quello che vorrei e che riesco nella maggior parte dei casi a evadere solo per metà.
Tra piaceri e doveri, che il lavoro di una vita fa io non lo svolgo più ma quando me lo chiedono non posso farne a meno e leggermi un libro “per lavoro” non ha prezzo, manco quello della rottura di un pc.
Che poi io me lo curo e me lo coccolo talmente tanto sto piccì.
Ci sto attenta, a non stressarlo e a non turbarlo (a parte abradere un terzo delle lettere dalla tastiera tanto che ora sono costretta a orientarmici a casaccio…)
E poi lui, l’aggeggio infernale, mi ripaga così!
Spiattellandoti davanti quell’amarissima verità: e cioè che alla fine tutto quello che contiene, che racchiude, che offre e che alletta, è tutto, tristemente, quanto di più effimero e inconsistente e inafferrabile possa esistere.
Roba da farti rimettere in discussione convinzioni e certezze di una vita.
Che non era meglio quando aprivi un album (di carta) e potevi sfogliarne le foto pure se mancava la corrente o levavano l’acqua o si allagava casa o scoppiava la guerra?
O potevi riprendere in mano il quaderno (sempre di carta) in cui avevi annotato tutto lo scibile umano (magari con la penna glitterata o la bic 4 colori): ricette, pensieri, emozioni, liste della spesa, promemoria e appuntamenti e rileggerti tutto quando ti pareva e piaceva senza dover accendere nessun coso elettronico pregandolo pure in ginocchio che s’accenda e possibilmente nel frattempo non abbia perso nessuno dei dati di cui sopra?
O che potevi decidere di spendere quelle due ore di tempo come più ti piaceva, anche leggendo (libri di carta), o semplicemente seduta per terra nella posizione del loto a meditare anziché leggere affannosamente gli aggiornamenti dei blog che ti piacciono smadonnando per il tempo sempre risicato che rende impossibile passare da tutti come vorresti, o rispondere a tutti come la buona creanza imporrebbe, e allora per il nervoso e la frustrazione farti venire pure un torcicollo di quelli memorabili che rendono tutta la faccenda, se possibile, ancora più assurda e tragicomica?
Che poi, dopo una settimana o poco più, ti ritrovi sotto gli occhi un computer nuovo di zecca.
Vecchio nell’aspetto ma algido e vuoto e assolutamente impersonale nei contenuti.
Non lo riconosci, lo trovi antipatico, inutile e non conforme a tutti i parametri che hai ancora nella testa ma che risalgono inevitabilmente a “prima”.
Ci credo: tutto formattato.
Tutto da rifare.
E meno male che almeno c’è l’hard disk esterno e niente è andato perduto.
(ma poi ti rendi conto che l’hard disk esterno, senza il cervellone è solo una scatoletta verde che ti fa rosicare ancora di più perché a meno di non avere altri supporti, conserva tutto lì dentro, chiuso, sigillato, inaccessibile: per l’appunto, effimero. Soggetto a variabili incontrollabili e assolutamente indipendenti dalla tua volontà. Da sbatterlo al muro proprio. O da giocarci a palla, che tanto è lo stesso).
Non ti ricordi più come erano le icone, i caratteri, i programmi con cui aprivi le foto e le cartelle importanti e quelle stupidelle ma tanto confortanti salvate sul desktop.
Gli indirizzi preferiti e i colori del menu a tendina
Che non sembra ma pure quelli fanno la differenza.
Allora fatichi e riconoscerlo, ti rompi proprio tanto a personalizzarlo tutto di nuovo perché sai che ti ci sono voluti 3 anni e che potrebbe ricapitare e dici: ma a me, in tutta onestà, no?
Ma chi me lo fa fa?!
Che lì fuori c’è un mondo vero e tangibile.
Bello e reale.
Inafferrabile e precario pure lui, sì per carità, ma perlomeno un po’ meno effimero.
Con supporti meno vulnerabili (…no?)
Che alla fine quindi il blog come il computer, finchè dura dura: bello, gajardo, divertente, esaltante, ma quando non funziona più…..ciccia, aò ma che davero davero?
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E però visto che la neve non è arrivata, che la primavera è alle porte, che la pausa forzata ha creato disagi e squilibri (casomai non fossero sufficienti quelli già in atto), che da queste parti s’è continuato allegramente a cucinare e che una marea di ricette da postare attendono fiduciose in coda ordinata…io m’affretterei intanto a sguinzagliare sta pasta e fagioli qua.
Quella di mamma, naturalmente.
Unica, inimitabile, coccolosa, fatta col gambuccio dentro, che sennò diventa irriconoscibile e inafferrabile pure quella, non sia mai! Con le dosi a occhio e tutte le difficoltà del tradurre in grammi e parole gesti automatici e saperi innati.
I ditaloni rigati come unica scelta possibile. E due piatti minimo a testa.
E al diavolo la tecnologia!
Ingredienti (per 5-6 persone)
500 gr i fagioli borlotti secchi
150 gr di gambuccio
1 barattolo piccolo di pelati
Un pugno a testa di ditaloni rigati
1 costa di sedano
1 carotina
1 cipolla piccola
1 dado vegetale
Olio extravergine d’oliva
Sale
Pepe
Procedimento
Mettere a bagno i fagioli la sera prima, quindi trascorsa l’intera notte scolarli, metterli in un tegame con dell’acqua nuova e lessarli avendo cura di lasciarli un po’ al dente (ci vorrà circa un’oretta) e di conservare la loro acqua di cottura.
Fare un trito fine di sedano, carota e cipolla e tritare anche il gambuccio. Mettere tutto a rosolare dolcemente in un tegame piuttosto ampio, con un po’ di olio extravergine e quando tutto sarà appassito e avrà iniziato a prendere colore, aggiungere i pomodori passati al minipimer, il dado e far cuocere per una decina di minuti.
Unire quindi 3-4 mestoli di fagioli, allungare con la loro acqua di cottura, salere, pepare e lasciar andare per circa 1 ora e mezza a fuoco moderato, allungando di volta in volta con l’acqua dei fagioli (calda) o altra acqua calda.
Un quarto d’ora prima di buttare la pasta unire i restanti fagioli (che in questo modo rimarranno belli intatti mentre gli altri si saranno sfaldati addensando la minestra), cuocervi la pasta e servire caldissima e in addondanza!