“Guardare la vita è uno spettacolo infinitamente affascinante ed effimero, persino nella brutale poesia della catena alimentare, dove la vita appare così precaria eppure pulsa con potenza in ogni forma e colore”
(Lawrence Anthony, L’uomo che parlava agli elefanti)
Prima di questo avevo fatto solo un altro safari nella mia vita.
In un altro luogo, insieme ad altre persone, in un tempo molto limitato: un giorno e mezzo appena, pochissimo, praticamente niente per capire a fondo di cosa si tratti realmente.
Safari in lingua bantu-swahili significa viaggio.
Un tipo di viaggio però che non tende verso una meta, ma trova compimento in sé, nel suo farsi, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro.
Immersi in una condizione del tutto nuova e sconosciuta
“Avevano scoperto una nuova vena, ricca di quegli elementi preziosi che sono lo spazio e il tempo. Due tesori di cui, lì attorno, c’era una quantità che un uomo non avrebbe potuto utilizzare in una dozzina di vite. […] Al cospetto di tanto spazio e tempo, qualsiasi sforzo era banale”
(Wilbur Smith, “Il destino del leone”)
Riluttanti, inizialmente, all’idea di questo apparente vuoto assoluto.
Vuoto di impegni e di obiettivi.
Di mete da raggiungere e di compiti da assolvere.
Pieno invece di ore vuote, di spazi infiniti, di Tempo.
Safari significa sveglie prima dell’alba e 8-10 ore incollati a un sedile.
Potendo scendere solo in appositi spazi.
Perché lì l’uomo non conta niente: non è il suo spazio quello, è lo stato degli animali e lui, una volta tanto, deve attenersi alle loro regole, rispettandone i luoghi, gli istinti, le abitudini.
“…un territorio bruno si estendeva ampio e placido verso distanze smisurate, non deturpato dai graffi dell’uomo: tranquillo e dignitoso nella sua immensità”
(Wilbur Smith, “Il destino del leone”)
All’uomo non rimane che diventare un tutt’uno con la sua automobile, per una volta realizza il suo sogno tecnologico: nel parco può esistere e muoversi, solo grazie a quattro ruote e una scocca metallica tutto intorno. Da solo, nella savana, non può aggirarsi.
Tanto che diventa curioso perfino poggiare i piedi a terra in quei pochi luoghi in cui è consentito farlo. Ci si sente quasi a disagio, come se si stesse profanando un luogo, ignorando un divieto, tradendo la fiducia di chi vive lì.
Tutto ciò che si deve fare una volta avviato il motore è scegliersi il percorso su un indispensabile mappa e mantenersi a una velocità, imposta, di 50km orari.
Non di più, sennò, dal nulla, ci si trova un ranger alle calcagna.
E la multa è assicurata.
Il che significa che per coprire una distanza anche breve si possono impiegare mezz’ore.
Ore intere se si scelgono tratti sterrati.
Tutto questo equivale a lunghissimi momenti di noia, di immobilità totale, di grande caldo, di spallamento cosmico.
Perché la mente proprio si rifiuta, abituati come siamo a “fare”.
Ad ottenere perché si è pagato, perché si è lì, perché ce lo meritiamo.
Gli animali non seguono queste logiche.
Non devono farsi vedere.
Semplicemente, vivono, lì in quel loro stato, la propria vita.
Fatta di caccia e di difesa, di scoperta e di accoppiamento, di fughe e di sensi sempre in allerta.
Indifferenti a noi strane creature, metà testa/metà sedile, che siamo lì, per vederli e osservarli.
“ In natura tutti gli essere viventi sono continuamente coscienti di ciò che accade, pronti a fuggire o a combattere in un istante. È una vita che pulsa, eternamente vigile, che assorbe ogni minimo dettaglio di ciò che la circonda, che valuta in continuazione il grado di sicurezza e di pericolo di ogni situazione. È sapere dove poter stare e dove no, è un’incessante analisi delle informazioni istintuali, così cruciali per la sopravvivenza”.
(Lawrence Anthony, L’uomo che parlava agli elefanti)
Un safari quindi è un’attesa lunga, una speranza vibrante di impazienza e una scoperta lenta, lentissima: nulla è dovuto.
Possono passare anche un paio d’ore senza che nulla accada, senza che anche un minuscolo sprone spinga a persistere in quel viaggio così strano, senza garanzie.
Poi, di colpo, accade.
Che una famiglia di zebre attraversi la strada.
Che un gruppo di babbuini si metta a cercare un riparo per la notte.
Che un branco di elefanti voglia passare dall’altra parte e la matriarca sbarri il passaggio a qualsiasi intruso finché non è passato l’ultimo cucciolo.
(e che poi decida di riposarsi proprio lì, in mezzo a quella che per lei non è "la strada" ma solo un altro pezzo di savana)
Che ci si affacci da un ponte e si scoprano tre tartarughe stese al sole
Che si aguzzi la vista e insieme a una scaletta di ippopotami si scopra una famiglia di coccodrilli tutto intorno
Che si alzino gli occhi al cielo abbagliati da un collare di piume candide
Che si riconosca proprio Pumba, in quel curioso essere a quattro zampe che sta venendo verso di noi
O che si pensi a un tenero peluche guardando quell'ammasso di peli neri e argentati trotterellare in mezzo all'erba (salvo scoprire poi che si tratta del famoso tasso del miele, da cui perfino i leoni, per non avere guai, preferiscono tenersi alla larga...)
Una scarica di adrenalina senza uguali, un’emozione che stordisce.
E tutto acquista un senso nuovo: l’attesa, la smania, l’insofferenza svaniscono in un lampo al cospetto di due occhi con lunghe ciglia, sovrastanti un becco adunco
Di piume che sembrano velluto
Di una buffa cresta
di un elegante mantello a pois
Di una mamma con il suo cucciolo
di un cucciolo da solo
di due splendidi antilopi impegnate in uno scornamento
Oppure si rimane affascinati dallo sguardo saggio di un bisonte
da quello malinconico di un babbuino
da quello minaccioso di una iena
da tutte le striature e le forme strane di nyala e impala
E anche i sensi si acuiscono: scoprire con sorpresa che gli elefanti, questi antichi giganti che solcano il pianeta da tempo immemore, comunicano attraverso brontolii dello stomaco, anche a distanza notevole e rimanere incantati al suono di una “voce” che sembra salire su dalla viscere della terra e riempire di sé tutto lo spazio circostante.
Ammutolire davanti allo spettacolo della natura, alle movenze aggraziate di un leopardo
in uno strano contrasto con lo scricciolo che ha appena attraversato la strada
Esiste la possibilità di un safari a piedi, in gruppi di 8 persone, in compagnia di due ranger armati.
L’unico modo per poggiare i piedi nel territorio degli animali.
La diffidenza è tanta, un timore reverenziale porta a seguire alla lettera tutte le regole che i ranger impartiscono prima di mettersi in marcia: “abiti scuri o neutri, niente profumi, restare in silenzio, camminare in fila indiana e tutti compatti, non rimanere indietro per alcun motivo, non mettersi a correre né fare movimenti bruschi al cospetto di qualche animale…..”
E sentire sotto i piedi, dentro la pancia e su fino al cuore, le vibrazioni di un branco di zebre che, spaventato, inizia a correre.
La terra attutisce il suono dello scalpiccio degli zoccoli, che però vibra potente in ogni fibra del corpo.
Non sentire più con le orecchie ma con tutto il corpo.
Non vedere una sagoma ma percepirne la presenza.
Sentirsi, per un breve attimo, davvero parte infinitesima di un tutto.
“Ogni cosa, nella natura selvaggia, è in sintonia con ciò che la circonda, conscia del proprio destino e in totale armonia con il pianeta. La loro attenzione è completamente rivolta verso l’esterno. Gli umani, invece, tendono troppo spesso a concentrarsi sulla loro vita interiore, rimuginando e ingigantendo problemi su cui gli animali non sprecherebbero un millisecondo della loro energia”.
(Lawrence Anthony, L’uomo che parlava agli elefanti)
Nota: Lawrence Anthony, autore del libro da cui è tratta la maggior parte delle citazioni di questo post, è stato, oltre che documentarista e profondo conoscitore degli elefanti, anche il fondatore della Earth Organization e della Riserva privata di Thula Thula nello Zululand. Lui è morto nel 2012, ma la riserva esiste ancora, sia come lodge esclusivo in cui poter alloggiare, sia soprattutto come parco naturale in cui da anni trovano ospitalità elefanti "difficili" che lui salvò dal destino di essere abbattuti.
Consiglio un giro tra queste pagine, per saperne di più, oltre ovviamente alla lettura dei suoi libri, di cui soltanto uno è stato finora tradotto in italiano