A me la cucina giapponese non piace.
Che è un po’ come dire che Parigi non mi entusiasma.
Entrambe le questioni però stanno esattamente così.
Premessa doverosa ma non sufficiente a spiegarne le ragioni: non mi piace il pesce crudo, non sono attratta dal sushi o dal sashimi, non mi verrebbe mai in mente nemmeno di assaggiarli. Ammetto questo colpevole pregiudizio.
Ma la cucina giapponese non è solo pesce crudo o tenpura e alla conclusione che, nonostante ciò, non faccia per me sono giunta comunque dopo averne assaggiato piatti diversi e variegati.
Dallo street food al ristorante giapponese tradizionale;
dai noodles (caldi e freddi; di grano saraceno come di frumento)
al pregiato manzo di kobe, passando per Yakitori, spiedini di pollo e verdure, ma anche di manzo e di fegato;
dal tofu di Kyoto (che è molto diverso dal panetto rinseccolito del negozio bio qui in Italia)
al ramen in tutte le salse,
passando per okonomiyaki di vasto
e vario genere
ho cercato di sperimentare un po’ di tutto.
Ovviamente anche l'assurdo.
Ma si è sempre più radicata in me la convinzione che il Giappone, viaggio del cuore e dell’anima che resterà per sempre indelebile nel mio cuore al pari del bush sudafricano e della Grande muraglia cinese, è il posto nel mondo in cui ho apprezzato meno la cucina. Almeno come gusto.
Perché tutto il cerimoniale sotteso alla sua preparazione è invece un libro molto affascinante e sorprendente da sfogliare.
A cominciare dalla cerimonia del tè,
che in Giappone è essenzialmente verde, quindi non fermentato: Matcha, in polvere, oppure Sencha, in foglie. Per capire l’importanza che questa bevanda riveste nella cultura giapponese, basti pensare che tè si dice cha, ma quello verde è preceduto dal prefisso onorifico o- ed è quindi chiamato o-cha e oltre che come bevanda viene usato come spezia o colorante per il gelato
e per tutta una serie di dolci,
tanto che esistono gelaterie dedicate unicamente a questo gusto di gelato, con piccolissime varianti (con o senza lattosio per esempio).
L’approccio al cibo in Giappone ha un che di profondamente spirituale.
Le cucine sono perlopiù a vista,
l’attenzione e la cura nel maneggiarlo, prepararlo e servirlo sono evidenti al chiuso del ristorante così come sul banchetto per la strada.
Rispetto innanzitutto: del cibo e delle materie prime impiegate.
Ed è lo stesso motivo che spiega l’uso delle bacchette: a differenza di coltello e forchetta le prime non tranciano il cibo, non lo dilaniano, ma lo trattano con gentilezza e delicatezza, servendo semplicemente a portarlo alla bocca.
Gli ingredienti sono lavorati pochissimo e serviti per quanto possibile in purezza: appena sbollentati, appena fritti, appena grigliati.
Prima di colpire il palato devono catturare lo sguardo, indurre in contemplazione, rapire innanzitutto per la loro bellezza estetica.
E in effetti lo fanno.
Alla loro perfezione corrispondono sapori delicati, evanescenti, che è bello e sorprendente assaggiare. Riassaggiare. Riassaporare ancora.
Ma quindici giorni di viaggio possono essere tanti, senza provare emozioni gustative più forti del brodo di miso
o della marmellata di fagioli rossi, che pure è buonissima, ma il gusto dolce molto attenuato.
A un certo punto senti il desiderio di consistenze diverse.
Di sapori più decisi e di piatti più sostanziosi.
Di qualcosa da mettere sotto i denti insomma.
E di certo le opportunità non mancano.
Per ovviare ad attacchi improvvisi di fame o più voglia di qualcosa di buono dolce infatti ci sono catene di panetterie tedesche o francesi disseminate un po’ ovunque.
Dove l’impronta ovviamente e per fortuna è sempre autoctona, con grandi incursioni di tè verde
e della ottima e abbastanza onnipresente- come si sarà capito - marmellata di fagioli rossi.
Ma dove gli occhi e il cuore possono spaziare liberamente fra burrosissimi croissant
e spirali di crema pasticciera.
Non meno attraenti tuttavia risultano le bancarelle di cibo soprattutto lungo le vie per arrivare ai templi.
Immaginate il cibo più strano e goloso che possa venirvi in mente: non basterà a eguagliare le stranezze che si possono incontrare.
La fantasia spazia dal cartoccio di spaghetti fritti (direttamente da crudi),
alla banana ricoperta di cioccolato fuso e infilzata su uno spiedo da passeggio.
Da stecchi di riso glutinoso che sembrano fare il verso (e solo quello) a cremosi gelati,
a spiedini di sfere, sempre di riso, appena scottati sulla griglia e serviti con una salsa di soia dolce.
Per finire con lo zucchero filato che qua è venduto direttamente imbustato
Insomma la scelta non manca e per non lasciare proprio nulla di intentato, dopo i dolcetti di Hello Kitty,
ci siamo tuffati perfino in una Curry House.
L’usanza molto carina è che in molti ristoranti, specie fast food, ci si siede al tavolo, e quando si è scelto cosa mangiare si preme un campanello: solo allora si farà vivo un cameriere a prendere l’ordinazione.
Ma ancora più divertente è fare la fila davanti alle macchinette dei ristoranti di Ramen: ovviamente tutto in giapponese, ma ci sarà sempre qualcuno pronto a correre in aiuto. Un po’a gesti, un po’ nell’inglese fantasioso che parlano, un po’ buttandosi a casaccio. Si sceglie il tipo di brodo, di tagliolini, di condimento, si compone insomma la propria ciotola di ramen premendo tasti sulla macchinetta che alla fine mostrerà il totale e aspetterà il corrispettivo in soldi. Alla fine della fatica non resta che sedersi, aspettare l’arrivo del piatto e una volta finito andare via, che tanto è già pagato!
La cultura di un popolo si comprende girando per i suoi mercati e supermercati e quelli giapponesi sono davvero un viaggio nel viaggio.
Pasticcerie come gioiellerie: piccoli dolcetti e bonbon venduti in scatole esposte ordinatamente in teche inaccessibili.
Stessa sorte per la frutta: venduta singolarmente (a caro prezzo!)
o già confezionata in eleganti scatole dai prezzi sbalorditivi.
Ma in fondo cosa c’è di strano nel voler regalare una dozzina di fragole anziché di rose?
È solo questione di punti di vista.
E a proposito di rose, al banco frigo dello stesso supermercato può capitare di imbattersi nell’elegante varietà di fiori edibili,
così come accanto ai gelati capita di imbattersi in confezioni di spaghetti surgelati…
Avrei voluto prendere un bento (pasti pronti, confezionati in contenitori trasparenti, perfettamente bilanciati e completi di ogni nutriente, dai carboidrati, alle proteine, agli zuccheri, venduti nei supermercati come in appositi chioschetti all'interno delle stazioni), ma ho sempre desistito e a posteriori me ne rammarico
Sarebbe stato bello mangiare in uno di quei minuscoli locali a Shinjuku,
dove ci sono giusto un pugno di sgabelli aggrappati alla piastra su cui un instancabile chef sforna prelibatezze per i suoi avventori in giacca e cravatta. Tutti locali, difficile che accettino turisti.
Avrei voluto amare il pesce crudo per potermi concedere, di prima mattina, la tradizionale colazione a base di sushi freschissimo dopo la visita al mercato Tsukiji di Tokyo.
Mi sarebbe piaciuto assaggiare la cucina giapponese guidata da una persona del posto e forse avrei capito qualcosa in più perché tanto sicuramente mi è sfuggito.
Basti pensare a quella parola soave e dal significato dolcissimo con cui in Giappone sono soliti augurare Buon Appetito: Itadakimasu. E a tutto ciò che vi è sotteso.
Perché infatti non vuol dire proprio buon appetito, piuttosto umilmente ricevo in dono ed esprime gratitudine nei confronti di tutti coloro che hanno contribuito a produrre un piatto: dal contadino che ha coltivato la terra, alla gallina che ha deposto le uova, allo chef che ha saputo comporre con sapienza quegli ingredienti.
E per chi avesse voglia di approfondire l’affascinante argomento della cultura giapponese a partire dal suo rapporto con il cibo vi consiglio un libricino bellissimo: “Itadakimasu” di Fabio Geda, che mi ha aiutata a riordinare le idee e a capire qualcosa in più.