Dice il personaggio di un libro di Amélie Nothomb: “[Il treno] È il mezzo di trasporto più pedagogico che conosca: non sono mai salito su un treno senza imparare qualcosa, sia dalla bocca di viaggiatori in vena di confidenze, sia dalle mie osservazioni personali”.
Io sul treno viaggio ogni giorno da 23 anni e di lezioni gratuite, non volute, schiantate fra capo e collo o semplicemente piovute con delicatezza dal cielo, me ne ha elargite davvero a piene mani.
Studi di geografia
Lezioni di comportamento
Esempi di umanità e altruismo.
Fino alla rivelazione di nuovi modi di dire e significati occulti di certe locuzioni.
Del resto esistono tanti tipi di domande.
Ci sono quelle che nascono già destinate a rimanere senza risposta,
da quelle esistenziali
(da dove veniamo, dove stiamo andando?)
a quelle solo poco meno importanti
(l’avrò spento il gas sotto il minestrone?)
E che servono solo a generare ansia, visto che essendo già salita sul treno, che l’abbia spento o meno il gas a quel punto conta davvero poco.
Ci sono le domande retoriche, che uno si pone così, giusto per, conoscendo già la risposta
(si schianterà a terra il tegame con tutto lo spezzatino mentre mi accingo a servirlo in tavola?)
Ma sai che anche stavolta (o perlomeno preghi che vada così...) ti andrà bene: lo dimostra il fatto che il servizio di tazzine buono, per esempio, l’hai decimato in tutta segretezza, mentre lavavi i piatti, quando non ti guardava nessuno.
E che a parlare sono solo le tue paure (mica pregressi eventi nefasti).
E che a parlare sono solo le tue paure (mica pregressi eventi nefasti).
Ci sono le domande dirette, che arrivano come staffilate e alle quali non si sa bene cosa rispondere
(vieni alla cena della palestra venerdì sera?)
Ma inducono a riflettere, a chiederti perché non sei capace di dire subito sì, ma hai sempre bisogno di prendere tempo, di capire se lo vuoi veramente, manco di trattasse di firmare una cambiale o valutare una proposta di matrimonio.
Poi ci sono quelle a risposta obbligata, che mascherano affermazioni, contengono minacce
(buona sta pasta, vero?– e prova a dire il contrario).
Le domande insomma non nascono mai per caso e buttare lì una risposta potrebbe risultare compromettente.
Per questo è consigliabile riflettere bene, contare anche fino a 100, e poi tenersi sul vago, non sbilanciarsi mai troppo, a meno che non si disponga di inconfutabili prove scientifiche a sostegno, valide pezze d’appoggio insomma.
Venerdì sera, stazione di arrivo,un ragazzo fermo sulla banchina ad attendere la sua compagna che scende dal mio stesso treno.
Frammenti di conversazione rubati al volo (inevitabilmente, grazie al tono di voce di svariati decibel sopra la norma):
Lui, premuroso:“Amò, te so’ arivati i messaggi?”
Saggia e guardinga pausa di riflessione da parte dell’interrogata
“Se t’ho risposto, certo che me so’ arivati!”
La logica infatti si rivela ineccepibile e il merito dev’essere tutto della pausa di cui sopra.
Ma lui incalza: è uno che non s’accontenta, che scava nel profondo, vuole capire, approfondire, vagliare senza trascurare proprio nulla
“Noo, io dicevo quelli che nun m’hai risposto”
Lei dà prova di non essere da meno: si arrovella nel dubbio, scava nella memoria, cerca di ripercorrere ogni frammento di azione compiuta durante il tragitto, fino a trarre la seguente, sudata conclusione:
“Ah…e no, quelli me sa de no”
Perché la prudenza, anche nelle supposizioni di un certo rilievo, non è mai troppa.
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Della ricetta mi sono innamorata da lei (grazie Claudia!) e vabbè che poi ho impiegato un anno e passa per decidermi a realizzarla, ma va anche detto che in una sola volta ne ho fatte ben due versioni!
Perché sì, la bellezza di questa torta è che la si può personalizzare a piacimento, declinare in mille modi, provare a buttarci dentro tutti i gusti più strani di wafer che si riescano a scovare.
Ma mi sono tenuta sul classico e (per ora) sono andata di vaniglia e cioccolato.
Il risultato è sorprendente: morbidissimo, dalla consistenza umida, il sapore meno dolce di quello che mi avrebbero fatto credere i 150 gr di zucchero necessari.
Anche di farina ne bastano 150 gr: pochissimi! e a me questa è parsa proprio una magia.
Ora aspetto di trovare wafer al limone e alla fragola.
Come minimo.
Ingredienti (per uno stampo da plumcake lungo 30 cm )
200 gr di wafer alla vaniglia
150 gr di zucchero
150 gr di farina 00
3 uova intere
1 bicchiere di latte (io a ridotto contenuto di lattosio)
1 bicchiere di olio di semi
1 bustina di lievito
I semi di mezza stecca di vaniglia (o 1 bustina di vanillina)
1 pizzico di sale
Procedimento
Mettere i biscotti in un sacchetto di plastica e batterli con il batticarne o il matterello tritandoli grossolanamente. Sbattere molto bene le uova con lo zucchero e un pizzico di sale. Quando saranno diventate bianche e spumose unire l’olio e il latte continuando a mescolare. Aggiungere quindi progressivamente la farina setacciata con il lievito e i semi della vaniglia.
Incorporare i biscotti, versare il composto in uno stampo da plumcake ricoperto di carta forno e cuocere a 160° per circa 45-50 minuti (fare la prova stecchino: se la superficie inizierà a scurirsi troppo ma lo stecchino ma il plumcake ancora non sarà cotto, coprirlo con un foglio di carta stagnola)
Per la seconda versione:
- wafer al cacao
- latte miscelato con un bicchierino di Amarula (crema di whisky africana, simile al Baileys)
- una manciata di gocce di cioccolato extrafondente da unire al composto