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Channel: Pizza Fichi e Zighinì
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Eccoci qua - Torta 5 minuti

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L’abbiamo scelta fra tantissime, dopo più di un anno di ricerca.
Non era una priorità quella di cambiare casa, ma abbiamo accarezzato a lungo questo progetto fino a tradurlo in realtà.
Fino a quando è capitata l’occasione e l’abbiamo colta al volo.
Perfetta per noi: più grande della precedente ma non troppo da avere stanze che facciano inutilmente eco.
Un piccolo giardino a completare il quadro.
L’abbiamo scelta dopo essercene innamorati a prima vista.
Perfetta, completa di tutto, perfino dei mobili che tanto di nostri non ne avevamo e di qualsiasi tipo, foggia e colore ci andavano bene.
Tanto da arrivare qua con due valigie, un centinaio di scatoloni di libri e suppellettili e cuscini, lenzuola e piumone per dormirci fin dalla prima sera.
Piano piano l’avremmo migliorata secondo i nostri gusti. Apportando modifiche degli spazi, spostando tramezzi, riverniciando mobili, comprandone di nuovi.
Piano piano.
Ma poi succede che la vita va come vuole e ti prende a spintoni, travolgendoti e non finendo mai di stupirti.
Un cedimento strutturale,  una grana talmente grande da rendere vano qualsiasi tentativo concreto, speranza vana, supplica vibrante di arginarla.
Potendo solo stare a guardare, impotenti, la sua caparbia evoluzione.
E la casetta dei sogni, nostra da soli 18 mesi, si trasforma in un incubo: di ipotesi, di supposizioni, di incertezza.
Quel senso di  precarietà che ribalta, accartoccia, butta al secchio ogni sensazione rassicurante di “casa”.
All’improvviso, senza l’ausilio di una tragedia enorme come un evento sismico, sul muro si aprono inspiegabilmente crepe infinite, larghe un dito, che squarciano pareti e non smettono di rincorrersi.
Dissesto idrogeologico, un terreno disomogeneo, una falda acquifera che scorre sotto la casa e la corrode, oppure delle fondazioni deboli, costruite male, ipotizzano i vari esperti che, uno dopo l’altro, vengono chiamati al capezzale dell’ammalata grave.
Muratore, geometra, architetto, ingegnere, geologo: tutte le possibili figure professionali consultate sciorinano ipotesi, fanno rilevamenti, dispiegano mezzi sofisticati o  battono semplicemente una mano sui muri per capire dove sono i pilastri, dove può annidarsi il problema, quale può essere la spiegazione che nemmeno loro, dall’alto dell’esperienza sul campo o di studi approfonditi, sanno darsi e, soprattutto, dare a noi.
“Capiremo meglio solo quando avremo scavato” ci rispondono senza colmare la nostra sete di logicità.
Che forse, semplicemente, non può essere placata. Ché non sempre le cose vanno secondo una logica.
Preventivi da capogiro, lavori che nemmeno se avessimo ristrutturato l’intera casa ci sarebbero mai venuti in mente di fare.
Il nostro personale terremoto, con scala a sé.
Perché quello reale è arrivato molto tempo dopo: lo abbiamo sentito, ma avevamo scambiato quegli scricchiolii per il cedimento definitivo di tutte le pareti crepate, che invece per fortuna, almeno per il momento, hanno retto (mannaggia, ce tocca pagà pure la demolizione, è stato il commento sarcastico dell’amato bene). Il terremoto vero ci ha risparmiato il colpo di grazia.
Ed eccoci qua. Con mezza casa sventrata (bagno, cucina, veranda e giardino): una parete di fortuna tirata su per isolarci da tutta la parte che va abbattuta e ricostruita.
Perché volendo guardare il lato positivo mica tutta la casa è interessata da crepe: solo una zona precisa e (se fa pe dì) circoscritta.
La cucina smontata e regalata (visto che siamo in ballo balliamo fino in fondo ed è la volta buona che ce ne compriamo una nuova, dal momento che per questa avremmo pure dovuto pagare smontaggio, trasporto, deposito, ritrasporto e rimontaggio); il forno alloggiato dentro al salotto insieme al frigorifero, alla lavatrice e a tutto il contenuto di un armadio a muro che fungeva da dispensa. Un paio di piastre elettriche per la sopravvivenza. Che poi queste due, sistemate dentro il camino, fanno pure atmosfera vintage che sembra quasi di cucinare col fuoco anziché con la corrente.
Mentre per lavare i piatti ci sono il lavandino o la doccia del bagno di sopra: le scale da fare ogni volta con la bagnarola carica aiutano a tenersi in forma.
Ma siamo qua. 
Zippati nella parte sana di questa bella casa, ora un po’ malconcia e lacero contusa per la restante parte, da guarire e riportare, tutta per intero, all’antico splendore.
Un po’ storditi in verità, con una specie di ventata fredda arrivata a soffiarci sul cuore e fra i pensieri, raggelandoli appena in superficie.
Ma con in tasca sempre una dose di autoironia come rimedio salvavita.
Intanto abbiamo ricominciato a fare scatoloni, per mettere via tutto ciò che non è utile e che in questi mesi di lavori  sarebbe solo d’intralcio.
Come ninnoli, soprammobili, cianfrusaglie: tutto ciò che era scampato al precedente trasloco.
Altre da non poter proprio tirare fuori, come le decorazioni natalizie (ce manca solo l’albero di Natale in salotto).
E quindi via: trasloco atto secondo, terzo, ho perso il conto…
Dunque, ricapitolando, la situazione famigliare attuale è la seguente:
-mamma e papà momentaneamente in affitto in microappartamento con mobili in deposito in attesa che, terminati i lavori, gli consegnino casa nuova nei primi mesi del prossimo anno;
-fratello e cognata con situazione immobiliare ancora in corso di definizione;
-io e l’amato bene con casa pericolante in via di risanamento e davanti 3-4 mesi di passione.
Perché le cose, quando possono, capitano preferibilmente tutte insieme e nei periodi più adatti.
La precarietà ce fa un baffo, a noi.
Sì per carità, poi è vero che sia io sia l’amato bene ci siamo sempre sentiti vagabondi nell’animo e con radici fluttuanti ma stavolta ce l’avevamo messa tutta per fissarle e rinsaldarle ste radici, anziché solo aspettare il momento della pensione per emigrare in Australia.
Ma poi solo tirare giù tutti i santi dal paradiso e sacramentare contro la sfiga nera non serve a rattoppare crepe e rinsaldare pilastri.
Allora via, si sfascia lo sfasciabile e si ricostruisce.
Quindi da adesso e fino a  data da destinarsi questo blog racconterà le avventure e le disavventure di un viaggio fra ruspe e  muratori, calcinacci e plinti, impalcature e capomastri, con in mezzo qualche ricetta di fortuna, approntata nella cucina da campo e sicuramente molti, moltissimi aneddoti degni di nota.

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 La torta in questione è la più adatta a situazioni di questo genere (ma anche meno disagiate). Non solo a  fare questa torta ci vogliono proprio 5 minuti esatti, ma basta sporcare un’unica ciotola e girare tutto con una frusta a mano senza dover sbattere, montare, incorporare né dividere albumi da tuorli o setacciare polveri. Le varianti sono infinite: dalla scelta delle farine, agli aromi per profumarla alle aggiunte di gocce di cioccolato, cacao, caffè, liquore e via dicendo. Questa è la mia versione base per la colazione. Alta, soffice e super veloce (e con una bagnarola leggerissima da portare su e giù per le scale).


Ingredienti (per uno stampo da 24 cm di diametro)
200 gr di farina (io ne ho usata 150 gr di farro e 50 di riso integrale)
180 gr di zucchero di canna
100 ml di latte di soia (ma potete usare quello che avete in casa)
75 ml di acqua tiepida
60 ml di olio di semi
2 uova
1 bustina di lievito
1 bustina di vanillina
1 bustina di scorzette di arancia bio (o la scorza grattugiata di due arance o di due limoni)
1 pizzico di sale


Procedimento
Preriscaldare il forno a 180°. Mettere tutti gli ingredienti tranne l’acqua in una ciotola e amalgamarli con una frusta a mano. Da ultimo aggiungere l’acqua tiepida, mescolare e versare il composto in uno stampo oliato e infarinato (oppure ricoperto di carta forno).
Cuocere in forno ventilato per 40 minuti.






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