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Channel: Pizza Fichi e Zighinì
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Angeli custodi, leggerezza – Spaghetti di riso saltati con verdure

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Succede di punto in bianco.
Che tu stai lì a preparare il menu di Pasqua, decidere portate e stabilire tabelle di marcia per la spesa (e magari farci scappare pure un salto dal parrucchiere per darti finalmente un’aggiustatina al taglio), quando ecco che squilla il telefono e tutto cambia colore, prospettiva, visuale, contorno.
Cambiano le priorità e sicuramente le linee guida delle decisioni da prendere.
Non più quanto devo far cuocere i maltagliati e come li condisco, ma chestrada faccio per arrivare prima possibile al Gemelli (il policlinico, per chi non fosse di Roma).
Anche la mente prende a elaborare dati in maniera diversa, dapprima confusa, agitata, senza troppo senso logico, poi prende per il collo la parte emotiva, come in una scena da film western: “al diavolo, fatti da parte, ora decido io!
Le spara, l’azzoppa e prende in mano la situazione stabilendo decisioni (minimamente più) sensate e risolutive.
Mica possiamo fare piazza Irnerio e poi Boccea-Pineta Sacchetti a quest’ora??
Vai, svolta su via dell’Acquafredda e che il cielo ce la mandi buona.
Perchè abitare in provincia, pure di una grande metropoli, significa (ma solo in questo nostro paese sgangherato) non avere nemmeno un ospedale a portata di mano.
E dover raggiungere la città a passo d’uomo in coda a un’infinità di altre macchine.
Nell’unica via di accesso possibile.
Vecchia almeno quanto la città stessa.
Ti deve dire bene insomma, questione di botta di culo (e mi si perdoni la metafora).
Con mamma sul sedile posteriore che si contorce per i dolori e ogni tanto dà di stomaco ma che prudentemente s’è portata, da sola, una piccola scorta di buste di plastica adatte all’uopo.
E per inciso è sempre lei , tra un conato e l’altro, a suggerire la dritta sulla svolta a destra…
Sempre per quella mente che alla fine le decisioni giuste, pure nel panico, è perfettamente in grado di prenderle.
Se solo le dessimo un po’ più retta (alla mente, non a mamma)….
Ma che poi sì’, che sarà mai? Una banale influenza intestinale, certo un filo più violenta delle altre volte, e se non fosse che quel dolore si irradia verso la parte sinistra del torace e che lei, guarda caso, è pure cardiopatica, portatrice di valvola aortica meccanica, diabetica, osteoporotica, ipertesa…la cosa non desterebbe manco tutto sto scalpore.
Un’aspirina, una bustina di plasil e via, ti metti a letto e ti passa tutto.
Ah no, il cocktail di farmaci è già abbondante di suo e tra bilanciare l’anticoagulante in base al tempo di protrombina (fantasioso e ogni volta molto diverso) e affinare la dose di farmaci per il diabete sulla base di quanto decide di essere ligia quel giorno, infilarci un’altra pasticca non è la cosa più semplice del mondo.
Non per noi comuni mortali almeno, non fosse altro che per mere questioni di orario: ognuno già perfettamente scandito da una compresa ben precisa da mandare giù.
I medici sapranno illuminarci. E almeno far cessare dolori e contorsioni. Speriamo.
Allora ti sintonizzi su un altro modus vivendi, quello di quell’universomondo -tutto a parte- che è il Pronto Soccorso, che però contiene una contraddizione già nel nome, dal momento che sicuramente sarà di soccorso, ma pronto manco un po’.
Non nel senso in cui lo intenderemmo noi, perlomeno.
Che poi mica è detto sia il senso giusto.
Tanto per cominciare bisogna attendere il proprio turno, dietro la linea blu, per l’accettazione e l’assegnazione del codice di emergenza.
Dice: ma io non respiro.
Risponde: Signora un attimo di pazienza: prendiamo la pressione, compiliamo la scheda e poile daremo l’ossigeno.
Ah ‘mbè, vedemo un po’…
Oppure:
La paziente è lei?
No, mia madre
E dov’è?
Accasciata sull’unico sedile libero in preda a spasmi lancinanti. Eccola lì, vede? È quella che si sta vomitando pure l’anima e per la quarta volta, ad essere precisi (la perifrasi e l’iperbole sono le mie principali virtù oratorie, ma non siamo tanto distanti dalla realtà e soprattutto, dannazione, questi qui devono aver sgamato che la tendenza a enfatizzare è prassi comune da queste parti..)
Infatti:
Me la porti qua, che devo prenderle la pressione.
Ma non si regge in piedi.
Mi dispiace, vorrei poterle dare una sedia a rotelle…ma non ne abbiamo più.
Così, portata a braccio, spalmata per ¾  sul bancone, sorretta alla meno peggio, compiliamo sta benedetta scheda e la riportiamo a sedersi.
Anche per potersi contorcere con più agio e continuare a vomitare in pace, che mica è poco.
Ma dopo una (piccola, eh?) perplessità iniziale si entra facilmente nel nuovo modo di concepire il tempo, le azioni (da fare da non fare da sollecitare), l’Attesa, quella con la maiuscola.
E si arriva a concepire perfino una nuova percezione della privacy, del pudore, dello stare tutti insieme, sulla stessa barca, più o meno nelle stesse condizioni.
Si trova perfino lo spazio per qualche battuta, per riderci un po’ su.
Perché andarsene in giro con l’alberello della flebo attaccata al braccio, tra sala d’attesa, bagno e altra sala d’attesa non può lasciare seri e indifferenti.
Una risata, pure a denti stretti, ti scappa per forza.
Magari alla quinta volta che ci inciampi sopra e rischi di andare lunga.
Ma non c’è posto e la flebo devi fartela per forza in piedi, nei corridoi, passeggiando e possibilmente senza intralciare il percorso dei barellieri che arrivano trafelati smontando qualche altro malcapitato dall’ambulanza.
E arrivi a dirti quanto sei fortunato, che c’è chi sta molto peggio e sempre nei corridoi deve stare.
Certo in barella, ma insomma la questione non cambia e anzi, guardandoti un po’ in giro, ampliando lo sguardo, scambiando pareri, fortunato inizi a sentitici per davvero.
Perché in undici ore di pronto soccorso nascono amicizie, si stringono rapporti, si scambiano gentilezze e cioccolatini, monete per la macchinetta del caffé e  piccole confidenze.
Poche parole per la verità, ma tanti sguardi, moltissimi gesti, spontanei e completamente avulsi da ogni pantomima di formalità, perfino lacrime condivise perché il dolore scatena solidarietà inimmaginabili e istantanee, specie se ha per protagonista un bambino.
Vedi passare un fiume di gente, e il copione è sempre lo stesso.
Corsa iniziale, ansia palpabile a ogni passo che divide i nuovi arrivati dalla porta d’entrata al  bancone del triage; perplessità per quel modulo da compilare, arrabbiatura istintiva per una burocrazia incomprensibile (pure qua??) e poi accettazione (da entrambe le parti, in tutti i sensi), rassegnazione, nuove percezioni, ricerca di uno sguardo, intesa con tutti gli altri astanti.
Solidarietà.
Senza più confini di età né di gravità di patologia o grado di ansia.
Per la paura non c’è più posto: non rimane che attendere.
E affidarsi.
A signò venga qua, se metta un po’ seduta.
No grazie per carità so’ 4 (…5…7…9) ore che sto seduta, sto un po’ in piedi, faccio due passi.
Uh, attenzione le è finita la flebo
Ah grazie, mo’ cerco un infermiere che mi dica cosa devo fare…
E via col suo alberello in cerca dell’angelo custode, uno dei tanti svolazzanti rapidi e affannati, su e giù per i corridoi.
Da precettare al volo, eludendo richieste che gli piovono addosso, guadagnando in qualche modo la sua attenzione, che è pure sempre costante.
Perché fra stranezze e carenze evidenti, regole ferree e un po’ disarmanti da accettare e procedure a passo di lumaca (non per la tanta gente che affolla ma per il numero sempre più esiguo di medici a disposizione…), c’è da dire una cosa fondamentale: e cioè che non ho trovato un solo tizio, fra i 3 medici che nel corso delle ore ci hanno chiamato a colloquio, i tanti infermieri cui abbiamo chiesto spiegazioni e domandato lumi, gli addetti all’accettazione che abbiamo sollecitato più volte nel corso della lunga giornata, l’uomo delle pulizie dei bagni e la guardia giurata a presidio della porta rossa delle emergenze, non ho trovato, dicevo, una sola parola fuori posto, sgarbata o infastidita. Solo, incredibilmente, al di là di tutte le carenze di mezzi e le difficoltà di una gestione sempre più complicata, tanta premura, estrema gentilezza, larghi sorrisi, sguardi di conforto, e perfino parole incoraggianti.
E in un posto di quel genere è davvero molto, o forse è tutto.
A mezzanotte, finalmente l’aria fresca del parcheggio semideserto.
Il foglio di dimissioni e una nuova consapevolezza: quella di avere avuto solo una colica biliare, di dover prendere, per un po’, altri farmaci (ma menomale che esistono), di aver toccato con mano un modo di lavorare, a contatto costante con la sofferenza, con la mancanza di mezzi, con gente addolorata e inferocita, preoccupata e a volte (giustamente) senza controllo, che è davvero duro, difficilissimo.
Una vera missione, da autentici angeli custodi.

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Coliche e corse a parte, i pranzi di Pasqua e Pasquetta, sono stati espletati e pure piuttosto egregiamente, senza risparmio di calorie (a parte mamma che, pure se a fatica, ha cercato di trattenersi…)
Cucina siciliana, un po’ romana, un po’ fusion, un po’ alla come veniva e poi, manco a dirlo, tanta cioccolata (con cui poter ampiamente glassare quintalate di torte da qui ai prossimi mesi).
Un piattino di semplici spaghetti di riso con verdure dunque è il minimo per depurare fegato e spirito e riguadagnare leggerezza su tutti i fronti.
Qualche indicazione e due dritte:
- Ci vuole più a tagliuzzare tutte le verdure che a realizzare il piatto in se stesso.
- Districare quei fili “plasticosi” e vedere il nuovo aspetto che assumono nell’acqua è pure divertente!
- Io li ho presi al Todi’s (come anche la salsa di soia): quelli secchi in busta da mezzo chilo, e li ho trovati molto buoni.
- Se disponete di un wok tanto meglio, altrimenti arrangiatevi, come la sottoscritta, con una qualsiasi padella antiaderente, che il risultato non ne avrà particolarmente a risentire.

Ingredienti (per 2)
150 gr di spaghettini di riso
1 uovo (facoltativo)
2 cucchiai di salsa di soia 2 carote medie o 1 grande
2 zucchine
2 piccoli scalogni o mezza cipolla
1 manciatona di germogli di soia freschi (o i barattolino di quelli in scatola)
2 cucchiai di olio extravergine
Acqua o brodo caldi

Procedimento
Mettere gli spaghetti a bagno in una ciotola di acqua fredda per almeno 10 minuti. 
Nel frattempo cuocere l’uovo strapazzandolo e aggiungendovi la salsa di soia, quindi metterlo da parte.
In una larga padella antiaderente soffriggere in poco olio e a fuoco vivace tutte le verdure tagliate a striscioline sottili (compresi i germogli di soia a meno che non siano quelli in scatola: in questo caso unirli più tardi, insieme agli spaghetti), 
aggiungendo se è il caso un mestolo di acqua calda o di brodo. Unire quindi gli spaghetti sgocciolati
(che a quel punto saranno morbidi e flessibili) e saltare tutto per pochi minuti spruzzando di altra salsa di soia e aggiungendo un altro mestolo di brodo per mantenere il tutto morbido e succoso.
Aggiungere l’uovo (se avrete deciso di mettercelo), mescolare bene e servire subito.


(Da una ricetta di Benedetta Parodi, riadattata e alleggerita di qualche ingrediente).

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